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Carlino, Carlo, Carlino ovvero Come far perdere ai bambini certe cattive abitudini

 

— Ecco il suo Carlino, — dice l'ostetrica al signor Alfio, presentandogli il maschietto appena arrivato dalla clinica.

“Macché Carlino, — sente strillare il signor Alfio, — basta con questa mania dei diminutivi. Chiamatemi Carlo, Paolo o Vercingetorige. Chiamatemi magari Leopardo, ma che sia un nome sano. Mi sono spiegato?”

Il signor Alfio osserva perplesso il bambino, che non ha aperto bocca. Quelle parole gli sono risuonate direttamente nel cervello. Anche la levatrice ha sentito: — Toh, — dice, — così piccolo è già capace di trasmettere il pensiero.

“Brava, — commenta la vocina, — non posso mica parlare con le corde vocali se non le ho ancora formate”.

— Be', — dice il signor Alfio, sempre più perplesso, — mettiamolo nella culla, poi si vedrà.

Lo mettono nella culla, vicino alla madre addormentata. Il signor Alfio va un momento di là a ordinare alla figlia maggiore di spegnere la radio, per non dare fastidio al pupo. Ma il pupo gli trasmette un messaggio urgente, precedenza assoluta: “papà, cosa ti salta in mente? Mi vai a interrompere proprio la sonata di Schubert per arpeggione...”

— Arpeggione? — ripete il signor Alfio. — A me sembrava un violoncello.

“Naturale che era un violoncello. È così che eseguono adesso questa composizione dettata da Schubert nel 1824. In La minore, per essere precisi. Ma lui l'aveva fatta per l'arpeggione: una specie di chitarrone a sei corde inventato l'anno prima a Vienna da Johann Georg Staufer. Questo strumento, chiamato “guitarre d'amour” o “gitarre-violoncell”, ebbe scarsa fortuna e vita effimera. Ma la sonata è caruccia assai”.

— Scusa, — balbetta il signor Alfio, — come le sai queste cose? “Santo cielo, — risponde sempre per via telepatica il neonato. — Mi metti sotto gli occhi, là su quello scaffale, un magnifico dizionario musicale: come vuoi che faccia a non vedere che a pagina ottantadue del primo volume vi si parla per l'appunto dell'arpeggione?”

Il signor Alfio ne deduce che il suo figlioletto, oltre a trasmettere il pensiero, sa leggere a distanza in un libro chiuso. Senza neanche aver imparato a leggere.

La madre, quando si sveglia, viene informata degli avvenimenti con molta delicatezza, ma scoppia a piangere lo stesso. Per giunta non ha sottomano un fazzoletto per asciugarsi gli occhi. Allora si vede un cassetto del comò aprirsi da solo, senza rumore, e dal cassetto prende il volo, rimanendo ben piegato, un fazzoletto bianco lavato con Bronk, il detersivo preferito dalla guardarobiera della regina Elisabetta. Il fazzoletto si posa sul cuscino della signora Adele, mentre nella culla il piccolo Carlo si esercita a strizzare l'occhio.

“Piaciuto il giochino? “, domanda con la mente agli astanti. La levatrice fugge alzando le mani in direzione del soffitto. La signora Adele sviene seduta stante. Il signor Alfio si accende una sigaretta, poi la butta via: non era questo che voleva fare.



— Figliolo, — dice poi, — stai prendendo delle pessime abitudini, assolutamente contrarie al galateo. Da quando in qua un bambino rispettoso apre i cassetti della mamma, senza chiedere permesso?

In quel momento si affaccia la primogenita Antonia, detta Cicci, in età di anni quindici e mesi cinque. Essa saluta affettuosamente il fratellino:

— Ciao, come stai?

“Bene, in generale. Solo un po' frastornato. Dopo tutto è la prima volta che nasco”.

— Accipicchia, parli con il pensiero? Sei proprio fico. Mi dici come fai?

“È semplicissimo: quando hai voglia di parlare, invece di aprire la bocca la chiudi. È anche più igienico”.

— Carlo! — esclama il signor Alfio, molto indignato, — non cominciare fin dal primo giorno a corrompere tua sorella, che è una ragazzina perbene.

— Dio mio, — sospira la signora Adele, rinvenendo, — chissà che cosa dirà la portiera, chi sa che cosa dirà mio padre, funzionario di banca di antico stampo e di severo costume, ultimo discendente di una stirpe di colonnelli di cavalleria!

— Be', — dice la Cicci, — ti saluto, vado a fare il compito di matematica.

“Matematica? — domanda Carlo, riflettendo. — Ah, ho capito. Euclide, Gauss, quella roba là. Ma se usi il testo che tieni in mano, guarda che la soluzione del problema numero 118 è sbagliata: la X non è uguale a un terzo, ma a due quarantatreesimi”.

— E si permette già di criticare i testi scolastici, come i giornali di sinistra, — commenta amaramente il signor Alfio.

Egli sta raccontando ogni cosa al medico di famiglia nel suo studio, mentre in anticamera la signora Adele intrattiene il pupo Carlo.

— Eh, — sospira il dottor Fojetti, — non c'è più religione! Chi sa dove andremo a finire: tutti questi scioperi... Adesso poi con l'Iva ne vedremo delle belle. Non si trova più una domestica; alla polizia proibiscono di sparare; i contadini non vogliono allevare conigli... Provi a chiamare l'idraulico, poi mi dirà. Be', infermiera, faccia entrare.

Appena entrato, Carlo intuisce, da alcuni sintomi che lui solo riesce a notare, che il dottor Fojetti è vissuto diversi anni a Zagabria; perciò gli rivolge la parola in croato (mentalmente, si capisce): “Doktore, vrlo teško probavljam; često osjećam Kiseli ukus: osobito neka jela ne mogu probaviti”.

(Traduzione: Dottore digerisco con difficoltà; ho spesso qualche rinvio acido; certi cibi mi sono particolarmente indigesti).

Il dottore, preso di contropiede, risponde nella stessa lingua: — Izvolite leći na postelju, molim Vas... (Prego, distendetevi sul lettino).


 

 


Poi si da un pugno in testa per reagire e si mette al lavoro. L'esame completo dura due giorni e trentasei ore. Esso rivela che il giovane Carlo, in età di giorni quarantasette:

— può leggere nel cervello del dottor Fojetti i nomi di tutti i suoi parenti, fino ai cugini di quarto grado, nonché assorbire tutte le conoscenze scientifiche, letterarie, filosofiche e calcistiche che vi sono depositate a partire dalla prima infanzia;

— scopre un francobollo del Guatemala nascosto sotto diciotto chili di libri di medicina;

— muove a piacere, con una semplice occhiata, l'ago della bilancia su cui l'infermiera controlla il peso dei malati;

— riceve e trasmette i programmi della radio, compresi quelli a modulazione di frequenza e gli esperimenti in stereofonia;

— proietta su una parete i programmi della televisione, manifestando però una certa insofferenza per Rischiatutto;

— cuce uno strappo nel camice del dottore con l'imposizione delle mani;

— osservando la fotografia di un paziente prova un forte mal di pancia e diagnostica, senza sbagliare, un'appendicite acuta;

— frigge a distanza, senza gas, una padella di semolino dolce. Inoltre egli si solleva da terra fino a un'altezza di metri cinque e diciannove centimetri; estrae con la forza della mente una medaglia di Sant'Antonio da una scatola di sigari sigillata con tre rotoli di scotch; fa scomparire dal muro un quadro di Giulio Turcato; materializza una tartaruga nell'armadietto dei medicinali e un tasso barbasso nella vasca da bagno; magnetizza alcuni crisantemi che stanno per morire, restituendo loro i colori giovanili. Toccando un sasso proveniente dagli Urali, recita la storia completa e documentata delle avanguardie russe del Novecento; mummifica pesci e uccelli morti; arresta la fermentazione del vino, eccetera.

— È grave? — domanda la signora Adele, impressionata.

— Un caso quasi disperato, — borbotta il dottor Fojetti. — Se si comporta così a quarantasette giorni, figuriamoci a quarantasette mesi.

— E a quarantasette anni?

— Ah, allora sarà già all'ergastolo da un pezzo.

— Che disonore per suo nonno! — esclama la signora Adele.

— E non si può far niente? — domanda il signor Alfio.

— Per prima cosa, — dice il dottore, — si può portarlo di là, mettergli fra le mani questa raccolta completa della “Gazzetta ufficiale” così si distrae e non ascolta i nostri discorsi. Almeno speriamo.

— E poi? — insiste il signor Alfio, una volta portata a termine l'operazione “Gazzetta Ufficiale”.

Il dottor Fojetti gli bisbiglia nell'orecchio destro per una decina di minuti, dandogli in diretta tutte le istruzioni necessarie, che il signor Alfio trasmette in differita alla signora Adele, nell'orecchio sinistro.

— Ma è l'uovo di Colombo! — esclama giulivo il signor Alfio.

“Quale Colombo? — domanda il telepatico Carlo dall'anticamera,

— Cristoforo o Emilie? Cerchiamo un po' di essere precisi nei riferimenti”.

Il dottore strizza l'occhio al signor Alfio e alla signora Adele. Tutti e tre sorridono e restano zitti.

“Ho chiesto quale Colombo!” protesta il marmocchio, producendo un buco nella parete con l'energia della sua mente comunicante.

E loro zitti come pesci lessi. Dopo un po' il piccolo Carlo, per farsi sentire, è costretto a ricorrere ad altri mezzi di comunicazione e comincia a vagire lamentosamente: — Uèèè! Uèèè!

— Funziona! — bisbiglia il signor Alfio al colmo dell'entusiasmo.

La signora Adele afferra una mano al dottor Fojetti e si china a baciarla, esclamando: — Grazie, benefattore nostro! Scriverò il suo nome nel mio diario.

— Uèèè! Uèèè! — insiste il piccolo Carlo.

— Funziona! — esulta il signor Alfio, accennando alcuni giri di valzer.

Naturale. Il segreto è tutto lì: basta far finta di non sentire quando Carlo fa la trasmissione ed eccolo costretto a comportarsi come tutti gli altri cristiani e a parlare come l'ultimo degli analfabeti.

I bambini fanno presto a imparare, fanno prestissimo a disimparare. Tempo sei mesi, il piccolo Carlo non si ricorda nemmeno più di essere stato qualcosa di meglio di una radiolina a transistor.

Intanto dalla casa sono scomparsi tutti i libri, comprese le enciclopedie a puntate. Non avendo mai occasione di fare esercizi di lettura a pagina chiusa, il marmocchio perde questa abilità, tra gli applausi degli astanti. Aveva imparato a memoria la Bibbia, ma la dimentica. Il curato è più tranquillo.

Per due o tre anni si diverte ancora a sollevare sedie con un'occhiata, a far ballare le marionette senza toccarle, a sbucciare i mandaranci a distanza, a cambiare i dischi sul giradischi semplicemente col mettersi un dito nel naso, ma poi, se Dio vuole, va all'asilo e lì la prima volta che, per rallegrare i suoi amici, mostra come si fa a camminare sul soffitto a testa in giù, lo mettono in castigo in un angolino. Carlo ci resta tanto male che giura di appassionarsi a ricamare farfalle, infilando l'ago nei puntini amorosamente disegnati apposta per lui dalla suora su un pezzetto di tela.

A sette anni va alla scuola elementare e fa comparire uno splendido ranocchio sulla cattedra della maestra, la quale, invece di approfittarne per spiegare gli anfibi saltatori e quanto siano buoni nel brodetto, chiama il bidello e manda Carlo dal direttore. Questo signore dimostra al fanciullo che le rane non sono animali seri e lo minaccia di espulsione da tutte le scuole della Repubblica e del sistema solare, se si permette certi scherzi.

— Posso almeno uccidere i microbi? — domanda Carlo.

— No. Per questo ci sono i dottori.

Mentre riflette su questa importante dichiarazione, Carlo, distrattamente, fa spuntare una rosa nel cestino della carta straccia. Per fortuna riesce a farla sparire prima che il direttore se ne accorga.

— Va', — dice il direttore in tono solenne, mostrando al bimbo la porta col dito indice: gesto del tutto inutile, perché nella stanza c'è solo quella porta e sarebbe difficile confonderla con la finestra. — Va', diventa un bambino perbene e sarai la consolazione dei tuoi genitori. Carlo va. Va a casa a fare il compito e lo fa tutto sbagliato. — Sei proprio uno stupidello, — commenta la Cicci, guardandogli il quaderno.

— Davvero? — esclama Carlo, col cuore in gola per la gioia. — Ma sono già abbastanza stupidello?

Per la contentezza fa comparire uno scoiattolo sul tavolino, ma subito lo rende invisibile per non insospettire la Cicci. Quando la Cicci si ritira nei suoi appartamenti, egli prova a far ricomparire lo scoiattolo, ma non ce la fa. Prova con un porcellino d'India, uno scarabeo stercorario, una pulce. Niente da fare.

— Meno male, — sospira Carlo. — Sto proprio perdendo tutte quelle brutte abitudini.

Difatti ora lo chiamano Carlino e lui non si ricorda nemmeno di protestare.

 


La guerra dei poeti (con molte rime in “or”)

 

Il poeta Sorellini, che di primo nome fa Alberto e di secondo Alberto, è il capo di una banda di poeti che scrivono parole per le canzoni e di musicisti che scrivono canzoni per le parole. Egli è detto anche “il Poeta Piangente”, un po' perché porta i capelli a salice, un altro po' perché compone sempre con le lacrime agli occhi, ancora un po' perché i suoi versi sono perennemente intonati alla più umida malinconia.

Alberto Alberto è famoso in tutta Italia e nel Canton Ticino come inventore della rima “cuor-amor”. Ma su questo punto occorre essere sinceri: quella rima in realtà egli l'ha rubata al poeta Osvaldo (che si chiama Osvaldo e basta), già capo di una banda rivale, ora non più, perché Alberto Alberto da dieci anni lo tiene prigioniero in un'antica torre sulla riva del mare, onde impedirgli di rivelare il suo segreto.

Il segretario privato di Alberto Alberto, di nome Oscar, sta per l'appunto tornando dalla torre antica, dove si reca ogni giorno per gettare al prigioniero un sacchetto di grissini, suo unico cibo (Osvaldo non mangia pane, per non guastarsi la linea).

— Come l'hai trovato? — domanda Alberto Alberto, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto e facendosi dare da Oscar un fazzoletto di ricambio.

— Di ottimo umore, — riferisce Oscar. — Dice che sta per trovare un'altra rima con “cuor”. Al massimo, dice, gli ci vorranno ancora diciotto mesi, ma se la sente già sulla punta della lingua.

— È un vero demonio! — esclama Alberto Alberto, inzuppando di lacrime anche il secondo fazzoletto, che subito Oscar ripone religiosamente. Lo zelante segretario, infatti, è il principale addetto ai fazzoletti del Poeta Piangente. Li ricama lui stesso, col monogramma del suo padrone. Se ne porta sempre appresso una scatola di dodici dozzine.

Ma anche Oscar ha il suo piccolo segreto: egli spreme i fazzoletti bagnati, ne raccoglie le lacrime in un fiasco, quindi le travasa in eleganti flaconcini che vende nascostamente, ma a caro prezzo, agli ammiratori ed alle ammiratrici del Poeta. Chi compra dieci flaconcini ha diritto a un supplemento di lacrime in artistica confezione spray o, a scelta, a un apribottiglie. L'acquisto può essere effettuato per posta e a rate. Si fanno spedizioni anche per l'America Latina.

— Scrivi, — ordina Alberto Alberto, che durante l'assenza di Oscar ha composto una nuova poesia, tutta a memoria. Egli detta e Oscar scrive:

 

Ti ricordi quella volta

cuor

che mi hai rubato il calzascarpe

amor

e poi sei fuggita

a Gualdo Tadino

con un elettrauto mancino

latala

io da quel giorno piango

lalalà

ma tu non torni da me

lalalà lalalà perché

almeno non mi rimandi il calzascarpe

per posta?

Lalalà lalalà...

 

Oscar è impressionatissimo: — Che versi, Maestro! Ma lo sa che con una canzone così lei può anche vincere il Festival di Busto Arsizio?

— Fa' entrare tutti, — dice Alberto Alberto, singhiozzando. — Darò personalmente lettura della mia composizione prima di scegliere il musichiere.

— Avanti la banda, — grida Oscar, spalancando la porta. Entrano, in fila per due, trenta poeti e ventiquattro musicisti (i musicisti sono meno numerosi dei poeti ma sono più grassi; il conto torna). Si schierano sull'attenti e intonano l'inno della banda, composto dallo stesso Alberto Alberto:

 

Cuor

amor

lalalà lalalà

cuor

lalalà

cuor cuor

lalalà lalalà

che tristezza mi fa

amor...

 

Stanno per attaccare la seconda strofa (la più famosa, quella che comincia con “amor” invece che con “cuor”) quando entra correndo

e ansando un messaggero con la faccia di uno che vorrebbe trovarsi a Bogotà, o almeno in vacanza a Capri, e si getta ai piedi di Alberto Alberto, esclamando con voce rotta dal terrore: — Maestro, pietà! Che sarà mai di me?

— Non lo so, — risponde il Poeta Piangente, — non ne ho la minima idea. Che cosa è successo?

— Il prigioniero...

— Il prigioniero?

— È fuggito!

— Anche lui a Gualdo Tadino?

— Lo ignoro, Maestro. Il guardiano della torre antica riferisce soltanto che Osvaldo, servendosi dei grissini, ha scavato un cunicolo sotto la sua cella ed è uscito in aperta campagna, in direzione nord-est.


 

 


— L'avevo detto di non dargli dei grissini troppo secchi, — ricorda tristemente Alberto Alberto.

— Glieli davamo freschissimi, padrone, — spiega Oscar, — e in parte già masticati. Si vede che li conservava per farli seccare.

— Sono molto seccato, — annuncia Alberto Alberto, gettando un fazzoletto zuppo. — Sentiamo se il giornale radio parla di questa storica evasione.

Oscar accende la radio proprio mentre l'annunciatore dice, con la voce della festa: — Amici miei, una grande notizia! Dopo dieci anni di ritiro e di meditazione in luogo misterioso, noto a lui solo e a pochi intimi, è tornato tra noi il celebre poeta Osvaldo. Ascolterete dalla sua stessa voce le parole della canzone da lui composta in questo fecondo decennio di solitudine.

Osvaldo (tossicchia, si raschia in gola). Attacca:

 

Amor

cuor

ricordo ancor

la triste sera che mi lasciasti

per fuggire a Molfetta

col ragionier Vincenzo Bartoletta

di anni ventotto e mesi tre

lala lalalà...

 

— Spegnete! — urla Alberto Alberto. — Quel demonio mi ha ingannato su tutta la linea: “Cuor-amor-ancor”... Aveva già trovato la nuova rima e mi faceva credere che gli mancavano ancora diciotto mesi di lavoro. Voi, altri, rip-poso!

I poeti e i musicisti, che per tutto questo tempo erano rimasti sull'attenti, si rilassano.

Alberto Alberto riflette: — C'è un profondo mistero in tutto ciò.

Forse...

Ma un improvviso scoppio di voci ruba per sempre ai posteri il seguito di quella dichiarazione della più alta importanza. Sale, dal giardino sottostante, un coro minaccioso:

 

Lalalà lalalà

perché perché

sei fuggita da me

senza lavar

la macchinetta del caffè

cuor amor lalalà...

 

La banda di Osvaldo circonda la villa del Poeta Piangente cantando il suo inno di guerra. Alberto Alberto non ha un attimo di esitazione: — Ai posti di combattimento!

Poeti e musicisti si appostano presso le porte e le finestre. Oscar batte le mani e i camerieri portano immediatamente numerosi paioli di polenta fumante, che viene sempre tenuta pronta per emergenze del genere. La polenta è fatta con la farina fina che, essendo impermeabile all'aria, si conserva bollente più a lungo. Quando la banda di Osvaldo, guidata dal suo diabolico capo di ritorno dalla prigionia, viene all'attacco, i difensori le rovesciano addosso la polenta, cantando eroicamente l'inno composto da Alberto Alberto per questa evenienza, che dice:

 

Cuor amor

come scotta

la polenta stracotta

anche senza marmellata

lalalà lalalà...

 

L'assalto è respinto. Osvaldo e la sua banda si preparano a un lungo assedio. Bisogna sapere che la villa sorge alla periferia della città, sulle colline dell'Ovest. Il Poeta Piangente in persona ha scelto quel posto, di dove si ammirano meravigliosi e commoventi tramonti. Ora Osvaldo, animato dall'odio implacabile e dal desiderio di vendetta, innalza in giardino un immenso schermo di plastica bianca, che impedisce totalmente ad Alberto Alberto la vista dei tramonti in oggetto. Per ispirarsi egli è costretto a farsi proiettare da Oscar dei piccoli tramonti sulla parete del salotto: non è davvero la stessa cosa... La produzione di lacrime diminuisce sensibilmente... È difficile cantare amori infelici, tradimenti e abbandoni, fidanzamenti interrotti, fughe di amanti infedeli in Romagna o a Potenza, davanti a quei tramontini casalinghi di metri tre per due.

Della fame Alberto Alberto non si preoccupa: egli tiene in cantina una riserva inesauribile di farina gialla e salsicce. Ma i versi... i versi gli riescono sempre meno disperati... sempre meno malinconiosi... sempre più asciutti... Un giorno egli giunge a dettare al fido Oscar una poesia che comincia così:

 

Cuor

raffreddar

mannaggia al locomotor...

 

Oscar ha un brivido di spavento. Poeti e musicisti, che si erano radunati per ascoltare, balzano indietro come se avessero calpestato per distrazione un cobra.

— Maestro, — bisbiglia Oscar, — non ha dimenticato nulla? Non le pare che manchi una parola... una parolina... che comincia per “a” e finisce per “or”?

— Ma cosa, — balbetta Alberto Alberto, — quale parolina?... Ascoltator? Appaltator? Alfabetizzator?... Be', dimmela tu, senza farla tanto lunga.

— Ventilator, — suggerisce Oscar. E subito si accorge che voleva dire un'altra cosa. Egli rivolge uno sguardo supplichevole agli altri poeti e musicisti. Tutti si provano a suggerire:

— Cavolfior...

— Scardassator...

— Servomotor...

Macché. Non ce la fanno. La parola “amor” si sottrae ad ogni tentativo di pronuncia. La banda sta per piombare nel più cupo sconforto, ma non fa in tempo, perché dal giardino la voce di Osvaldo grida, a mezzo altoparlante: — Protesto! State usando armi sleali e proibite dalla convenzione di Sanremo! State facendo ricorso all'ipnotismo! Io e i miei uomini non riusciamo più a pronunciare quella parola di quattro lettere che comincia per “a”, finisce per “or”, ma non è né “ascensor” né “aromatizzator”. Se non la smettete, farò bombardare la villa con quarantotto pianoforti a coda.

— Osvaldo, — risponde Alberto Alberto, — sappi che a noi succede la stessa cosa. Te lo giuro con una mano sul mio “saldator”.

— Cosa? Volevi forse dire sul tuo “trebbiator”

— No, no, volevo proprio dire sul mio “viceispettor”.

A questo punto è chiaro che né Alberto Alberto né Osvaldo riescono più a pronunciare la parola “cuor”. E con “amor” sono due. Essi hanno perso la rima che ha fatto, pur fra tante lotte intestine, la loro fortuna!

La guerra viene immediatamente sospesa. Poeti e musicisti vengono spediti ai quattro punti cardinali a cercare le due parole perdute.

— Portatele qui, vive o morte!

Si frugano i cespugli, si esplorano le caverne, si rastrella il Parco Nazionale d'Abruzzo, si scalano le Alpi Cozie; ma “cuor” e “amor” non si trovano. Il fatto è che gli uomini non riescono nemmeno a chiamarle per nome. Ogni volta che ci si provano, essi riescono solo a gridare: “Temporeggiator!”, “Ultracondensator!”, “Televisor!”, “Buoni del Tesor!”...

Le indagini durano sei mesi e centoventi giorni. Poi cessano per mancanza di fondi. Alberto Alberto e Osvaldo, infatti, dopo aver profuso tutte le loro ricchezze nelle ricerche, ridotti in miseria, si danno all'elemosina.

Le bande si danno al saccheggio. Oscar se la passa meglio, vendendo sui mercati le lacrime del Poeta Piangente (ne possiede ancora sette ettolitri), ma per smerciare quel prezioso liquido è costretto a sostenere, mentendo per la gola, che si tratta di una lozione per far crescere i denti.

Gli esperti sostengono che le parole “cuor” e “amor” non sono fuggite, non sono state rapite da estranei, non si sono sperdute nella macchia, ma si sono semplicemente consumate per il troppo uso, come le saponette quando si riducono a minuscole scaglie che scompaiono senza rimpianti nello scarico della vasca da bagno, tra un funesto gorgogliare di acque sporche.

 



Date: 2015-12-11; view: 1394


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