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Il mito della guerra

1. L'estetica della guerra

Il mito della guerra non ha mai cessato di trovare cantori che ne hanno esaltato l'eroismo, la forza, il coraggio, la bellezza, coprendo, sotto questo manto estetico, quanto di più atroce l'uomo, e solo l'uomo, ha ideato perché, ricorda Hegel, a differenza dell'animale l'uomo non uccide per mangiare, ma per ottenere dal vinto il riconoscimento della sua superiorità. Ma in cosa consiste questa bellezza e il fascino che la guerra ha sempre suscitato? Consiste, scrive Baricco, nel fatto che: La guerra è stata, per gli uomini, la circostanza in cui l'intensità, la bellezza, della vita si sprigiona in tutta la sua potenza e verità. Era quasi l'unica possibilità per cambiare il proprio destino, per trovare la verità di se stessi, per innalzarsi a un'altra consapevolezza etica, l'unico riscatto possibile dalla penombra della vita. Mito della guerra creato dai poeti, dai romanzieri, dagli storici, dai cineasti, dalle nazioni. Il mito della guerra può dare a quanti attribuiscono scarso significato alla loro esistenza, perfino ai giovani, uno scopo, un senso, una ragione per vivere. Il mito della guerra, e non la guerra, affascina con il richiamo al coraggio e all'eroismo, ma perché la fascinazione sia efficace il mito deve nascondere un elemento essenziale: il terrore, che i combattenti non possono confessare per non apparire vili. I media, con i loro reportage e con i loro video, celebrano eroismo e compassione, a cui noi partecipiamo con la tranquillità di chi sa di essere al sicuro. Ma oltre all'autovenerazione per noi stessi, il mito della guerra ci impone di svilire il nemico. La nozione di "nemico" abbraccia anche i civili, "se da una parte veneriamo e piangiamo i nostri morti, dall'altra siamo indifferenti a quelli che ammazziamo noi. I nostri morti e i loro morti non sono uguali. I nostri morti contano, i loro no. L'Iliade stessa è un poema che non parla della guerra, ma del mito della guerra. I suoi eroi sono coraggiosi, audaci, inebriati dalle atrocità che commettono e commossi fino alle lacrime davanti ai loro lutti. Primo fra tutti Achille, che affronta il campo di battaglia con tutto l'ardore necessario per conquistare, quella fama immortale che solo una morte eroica è in grado di garantirgli.

2. L'atrocità della guerra

In realtà, annota Hedges, "la guerra è necrofila" non solo perché ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità con la propria morte. "La necrofilia è fondamentale per il mestiere delle armi, così come lo è per la formazione dei kamikaze." Quando si ha l'impressione di non aver più scopi nella vita, quando la violenza della guerra raggiunge certi livelli di intossicazione, la necrofilia getta in quello stato di "frenesia in cui tutte le vite umane, compresa la nostra, sembrano secondarie". Oltre alla necrofilia, la guerra scatena la lussuria più sfrenata, le uniche scelte sembrano la morte o lo scatenamento della sessualità. Perché in guerra, ricorda Hedges: Gli esseri umani diventano oggetti, oggetti da distruggere o da usare per gratificazioni carnali. Gli antichi Greci avevano capito che la violenza della guerra e la violenza sessuale sono connesse. Afrodite, dea dell'amore e moglie di Efesto che forgiava le armi, divenne amante di Ares, il dio della guerra, per il quale nutriva una passione sfrenata. Quando la guerra finisce sul campo non finisce nell'animo di quelli che l'hanno combattuta. Come ci ricorda Hedges: "Ulisse trova difficile ritornare alla vita domestica che aveva lasciato 20 anni prima. Le stesse virtù che gli erano servite in battaglia lo sconfiggono in tempo di pace". La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché anche la guerra è una droga. Come la droga, infatti, anche la guerra dà l'illusione di eliminare i problemi più spinosi della vita. Problemi psichiatrici, che condussero alcuni al suicidio, altri a interminabili cure o a permanenti disadattamenti sociali. Per costoro la guerra non è finita mai, perché, come ci ricorda Platone. "Solo i morti hanno visto la fine della guerra".



3. La sacralità della guerra

Per apparire "giusta" spesso la guerra viene caricata di sacralità, e in questo modo espande senza misura il suo potenziale distruttivo, perché il conflitto finisce con il coinvolgere non solo gli interessi dei belligeranti, ma la loro identità, la loro cultura, la loro fede: quelle figure irrinunciabili che, quando sono messe in gioco, non prevedono alternative se non l'annientamento dell'avversario o la propria morte. Da sempre e ovunque gli uomini hanno trascinato nei loro conflitti Dio e gli dèi perché, identificandosi con le potenze superiori, gli uomini hanno sempre avuto l'impressione di aumentare la loro potenza e di legittimare la loro violenza. Combattere, infatti, per un interesse terreno che divide non scatena mai tanta forza e tanta violenza quanta ne sprigiona la lotta per la propria identità di popolo che il dio suggella e, con la sua protezione, garantisce. Per questo le guerre dove i contendenti si sentono assistiti da Dio sono tutte guerre sante, mentre non si può dire la stessa cosa, ad esempio, per la guerra di Troia o per le guerre a cui l'Impero romano affidava la sua espansione perché, a differenza del monoteismo, il politeismo assicurava ospitalità nell'Olimpo anche agli dèi dei popoli sconfitti. Pur prevedendo l'attiva partecipazione degli dèi, le guerre greco-romane erano in fondo guerre che oggi potremmo definire "laiche", perché in primo piano c'erano gli interessi, non la fede. Guerre desacralizzate, guerre "laiche” sono stati i conflitti che in Occidente hanno caratterizzato i secoli xix e xx, con una sola variante simbolico-sacrale, che ha fatto la sua comparsa nella 2° guerra mondiale con l'ideologia della superiorità razziale e con lo sterminio degli ebrei. Il conflitto, non più arginato dalla logica "ragionevole" degli interessi, si è rivestito di simboli. Tali sono: l'Occidente contro il mondo islamico, la Bibbia contro il Corano, il Dio cristiano contro il Dio di Maometto ecc.

4. La guerra santa

La storia umana è uscita dalla dimensione simbolica solo da 2 secoli e limitatamente all'Occidente, che con l'Illuminismo ha promosso il primato della ragione e quel suo corollario che è l'ateismo, essendo Dio il fondamento di ogni dimensione simbolica. Prima di allora la guerra santa era comune tanto al mondo islamico quanto all'Occidente cristiano, e affondava le sue radici nell'antica cultura ebraica. La "guerra santa" ebraica finì nel 70 dC con la distruzione del tempio di Gerusalemme, ma a raccoglierne l'eredità fu il Cristianesimo. Il Cristianesimo diverrà religione dell'Occidente sotto il segno della guerra quando Costantino vedrà nel sole di mezzogiorno qualcosa che somiglia al segno della croce: con quel segno si convertirono in seguito i popoli del Nord, "barbari", che invasero l'Impero romano, sotto quel segno si riunirono le truppe di Carlo Magno che diedero origine al Sacro Romano Impero separato dall'Impero d'Oriente di fede ortodossa e dall'Islam che aveva fatto la sua comparsa nel vii secolo in Arabia Saudita con Maometto. L'allora mondo conosciuto si divise in 3 parti: l'ortodossia occupò, a partire da Costantinopoli, il mondo slavo, mentre nel Mediterraneo rimasero a contendersi le terre l'Islam e il Cristianesimo, entrambi a colpi di "guerre sante" o "crociate", dove gli arabi distinguevano la terra della pace dalla terra della guerra a cui corrispondeva da parte cristiana la terra dei fedeli da quella degli infedeli. Questa mentalità nel mondo cristiano non si estingue con il Medioevo, ma inaugura l'età moderna con Cristoforo Colombo che precisa gli obiettivi della sua avventura. Il primo è portare il battesimo ai pagani. Il secondo è riportare in patria tanto oro. Da questo excursus storico appare evidente che la guerra santa non è una prerogativa del mondo islamico e neppure un'arretratezza medievale, dal momento che percorre l'intero arco della storia moderna, ma è un tratto tipico delle religioni monoteiste che trovano in Dio la giustificazione dei delitti più esecrabili compiuti in suo nome.

5. Il silenzio di Dio

Il silenzio di Dio non sta a indicare la sua assenza. Dio resta presente come testimone dello spettacolo del male. La storia umana è uscita dalla dimensione simbolica, che ha in Dio il suo fondamento, solo da 2 secoli e limitatamente all'Occidente, che con l'Illuminismo ha promosso il primato della ragione e quel suo corollario che è il laicismo. A questo punto il "silenzio di Dio", così segnalato dal papa, per un laico può voler dire un benevolo tacere della dimensione simbolica, affinché i deboli strumenti della ragione, che il simbolico sopprime, possano di nuovo riapparire per diffondere quella luce che, anche se non è sfolgorante come quella di Dio, può consentire a uomini finora distanti, perché provenienti da culture diverse, di guardarsi in volto e riconoscersi.


Date: 2015-12-24; view: 635


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