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UNA VILLA NEI PRESSI DI NEW YORK 12 page

«È impossibile difendersi quando manca la buona volontà», si disse Karl, e non rispose più al capocameriere, per quanto Therese avesse l'aria di soffrirne. Sapeva che tutto ciò che poteva dire avrebbe dato un'impressione completamente diversa da quello che lui aveva pensato, e che dipendeva soltanto dal giudizio degli altri trovarvi il bene o il male.

«Non risponde», disse la capocuoca.

«È la cosa più ragionevole che possa fare», disse il capocameriere.

«Inventerà senz'altro qualche cosa», disse il capoportiere, accarezzandosi lievemente la barba con quella mano che prima era stata così crudele.

«Sta' calma», disse la capocuoca a Therese, che aveva cominciato a singhiozzare vicino a lei, «lo vedi, non risponde, come posso fare qualcosa per lui? Alla fin fine sono io ad aver torto davanti al capocameriere. Di' dunque, Therese, secondo te non ho fatto il possibile per lui?». Come poteva saperlo Therese, e a che cosa serviva che la capocuoca cercasse di giustificarsi davanti a quei due con questa domanda rivolta apertamente alla povera ragazza?

«Signora capocuoca», disse Karl, raccogliendo ancora una volta le sue energie al solo scopo di risparmiare a Therese la risposta, «non credo di averle dato modo di vergognarsi, e dopo un'inchiesta più precisa chiunque altro dovrebbe convenirne».

«Chiunque altro», disse il capoportiere, indicando il capocameriere, «questa è una frecciata contro di lei, signor Isbary».

«Dunque, signora capocuoca», disse questi, «sono le sei e mezzo, il tempo stringe. Penso sia meglio che lei lasci concludere a me questa faccenda, già discussa con troppa pazienza».

Nel frattempo era entrato il piccolo Giacomo e voleva avvicinarsi a Karl, ma spaventato dal silenzio generale si fermò e rimase in attesa.

Dopo le ultime parole di Karl la capocuoca non aveva più distolto lo sguardo da lui, e nulla indicava che avesse sentito l'osservazione del capocameriere. I suoi occhi grandi e azzurri, ma lievemente offuscati dall'età e dalla troppa fatica, erano fissi su Karl. Dal suo atteggiamento e da come faceva dondolare pian piano la sedia davanti a sé, c'era da aspettarsi che da un momento all'altro dicesse: «Dunque, Karl, a ben considerare la questione non è chiara, e richiede, come hai detto giustamente, un'inchiesta più precisa. Ed è quello che faremo, che gli altri siano d'accordo o no, perché ci vuole giustizia».

Ma invece, dopo una piccola pausa che nessuno osò interrompere (soltanto l'orologio, a conferma delle parole del capocameriere, batté le sei e mezzo, e contemporaneamente, come ognuno sapeva, tutti gli orologi dell'albergo risuonarono nell'orecchio e nel presentimento, come il duplice sussulto di un'unica grande impazienza), la capocuoca disse: «No, Karl; no, no! Non dobbiamo illuderci. Le cose giuste sembrano anche giuste, e la tua storia, devo ammetterlo, non ha questa caratteristica. Posso e devo dirlo, perché confesso che sono venuta qui più che ben disposta nei tuoi confronti. Vedi, persino Therese tace» (Therese però non taceva, piangeva).



La capocuoca si fermò, come se avesse preso una decisione improvvisa; poi disse: «Karl, vieni qui», e quando lui si fu avvicinato - dietro di lui il capocameriere e il capoportiere cominciarono subito una conversazione animata -, lo abbracciò con la sinistra e si diresse con lui e con Therese, che li seguiva senza volontà, verso il fondo della stanza, dove si mise a camminare su e giù con entrambi dicendo: «È possibile, Karl, e sembra che tu ne sia convinto, altrimenti non potrei capirti, che un'inchiesta ti dia ragione in qualche singolo particolare. E perché no? Forse hai davvero salutato il capoportiere. Anzi, lo credo senz'altro, so anche che cosa devo pensare del capoportiere, vedi che ti parlo molto apertamente. Ma queste piccole giustificazioni non ti servono a niente. Il capocameriere, che in tanti anni ho imparato ad apprezzare come un buon conoscitore di uomini e che è la persona più fidata che conosca, ha espresso con chiarezza la tua colpa, che a me sembra assolutamente inconfutabile. Forse hai soltanto agito con leggerezza, ma forse non sei quello che avevo creduto. Però», e s'interruppe voltandosi per un attimo verso i due uomini, «in fondo non riesco ancora a disabituarmi all'idea di considerarti un ragazzo perbene».

«Signora capocuoca! Signora capocuoca!» l'ammonì il capocameriere che aveva colto il suo sguardo.

«Finiamo subito», disse la capocuoca, cercando rapidamente di convincere Karl. «Senti, Karl, per come vedo la cosa sono ancora contenta che il capocameriere non voglia condurre un'inchiesta, perché, se volesse farlo, dovrei impedirlo nel tuo interesse. Nessuno deve sapere come hai ospitato quell'uomo e che cosa gli hai offerto; del resto non può essere stato uno dei tuoi compagni di prima, come dici, perché ti sei separato da loro con una grossa lite, sicché ora non staresti certo a rimpinzare uno di loro. Quindi può trattarsi soltanto di un conoscente, con cui tu di notte hai fraternizzato sconsideratamente in qualche osteria della città. Come hai potuto, Karl, nascondermi tutte queste cose? Se il dormitorio ti era insopportabile, e per questo innocente motivo hai cominciato a girare di notte per la città, perché non hai detto una parola, sai che volevo darti una stanza separata, e ci ho rinunciato soltanto su tua richiesta. Ora sembra che tu abbia preferito il dormitorio perché là ti sentivi più libero. E conservavi il tuo denaro nella mia cassa, e ogni settimana mi portavi le mance; dove, per l'amore del cielo, hai preso il denaro per andare a divertirti, e dove volevi prendere il denaro per il tuo amico? Naturalmente sono cose che almeno per ora non voglio neppure accennare al capocameriere, perché allora forse un'inchiesta sarebbe inevitabile. Dunque devi assolutamente lasciare l'albergo, e il più presto possibile. Va' direttamente alla pensione Brenner - ci sei già stato più volte con Therese -, con questa raccomandazione ti accetteranno gratis», la capocuoca scrisse qualche riga su un biglietto da visita con una matita d'oro che si era tolta dalla camicetta, senza però interrompere il suo discorso, «e io ti manderò subito la tua valigia. Therese, corri nel guardaroba degli addetti all'ascensore e fa' la sua valigia!». (Ma Therese non si muoveva ancora, dato che aveva sopportato tanto dolore ora voleva assistere anche al miglioramento della situazione di Karl, grazie alla bontà della capocuoca).

Qualcuno, senza mostrarsi, aprì un poco la porta e la richiuse subito dopo. Probabilmente era per Giacomo, perché questi fece un passo avanti e disse: «Rossmann, devo riferirti qualcosa».

«Subito», disse la capocuoca, e infilò il biglietto da visita nella tasca di Karl, che l'aveva ascoltata a testa bassa, «per il momento terrò il tuo denaro, sai che puoi affidarmelo. Oggi resta in casa e rifletti sulla tua situazione, domani - adesso non ho tempo, e mi sono trattenuta qui anche troppo - verrò alla pensione Brenner e vedremo che cosa possiamo fare per te. Comunque non ti abbandonerò, di questo puoi star più che certo. Non devi preoccuparti del tuo avvenire, ma piuttosto del tuo passato». Quindi gli dette un colpetto sulla spalla e si allontanò verso il capocameriere. Karl alzò il capo e guardò quella donna grande e imponente che si allontanava da lui con passo tranquillo e sciolto.

«Non sei contento», disse Therese che gli era rimasta accanto «che tutto sia finito così bene?».

«Oh, sì», disse Karl sorridendole, ma non sapeva perché dovesse essere contento, visto che lo cacciavano via come un ladro. Gli occhi di Therese brillavano di pura gioia, come se non le importasse nulla che Karl fosse o non fosse colpevole, che fosse stato giudicato con giustizia oppure no, se solo lo lasciavano scappare, o con vergogna o con onore. Ed era proprio Therese a comportarsi così, che per sé era tanto scrupolosa e pensava e ripensava per settimane a ogni parola non del tutto chiara della capocuoca. Le chiese con intenzione: «Farai subito la mia valigia e me la spedirai?». Suo malgrado dovette scuotere il capo stupito per la rapidità con cui Therese aveva accettato la sua richiesta, e la convinzione che la valigia contenesse qualcosa che gli altri non dovevano vedere le impedì di guardare Karl e persino di porgergli la mano, la indusse soltanto a sussurrargli: «Naturalmente, Karl, subito, farò subito la tua valigia». E in un attimo era corsa via.

Ma Giacomo non poteva trattenersi oltre, e agitato per la lunga attesa, gridò a voce alta: «Rossmann, quell'uomo di sotto gira per il corridoio e non vuole farsi portar via. Gli altri volevano portarlo all'ospedale, ma lui rifiuta e dice che tu non permetteresti mai che finisse all'ospedale. Dovremmo prendere un'automobile e mandarlo a casa, dice che tu pagherai l'automobile. Vuoi farlo?».

«Quell'uomo ha fiducia in te», disse il capocameriere. Karl alzò le spalle e contò il suo denaro sulla mano di Giacomo. «È tutto quello che ho», disse poi.

«Mi ha anche incaricato di chiederti se vuoi andare con lui», aggiunse Giacomo, facendo tintinnare il denaro.

«Non andrà con lui», disse la capocuoca.

«Allora, Rossmann», disse in fretta il capocameriere, senza neppure aspettare che Giacomo fosse uscito, «sei licenziato in tronco».

Il capoportiere annuì più volte, come se il capocameriere non avesse fatto altro che ripetere le sue parole.

«Non posso dirti espressamente i motivi del tuo licenziamento, perché altrimenti dovrei farti mettere in prigione».

Il capoportiere guardò la capocuoca con ostentata severità, perché aveva capito perfettamente che a lei si doveva questo trattamento troppo mite.

«Ora vai da Bess, cambiati, consegnagli la tua livrea e lascia immediatamente l'albergo».

La capocuoca chiuse gli occhi come per tranquillizzare Karl. Mentre si congedava con un inchino, Karl vide di sfuggita il capocameriere che le prendeva di nascosto la mano e l'accarezzava. Il capoportiere lo accompagnò con passi pesanti fino alla porta e non gli permise di chiuderla, ma la tenne ancora aperta per gridargli dietro: «Fra un quarto di minuto voglio vederti passare davanti a me per la porta principale, ricordatelo!».

Karl si affrettò il più possibile solo per evitare un'altra noia alla porta principale, ma tutto si svolse più lentamente di quanto avrebbe voluto. Prima non riuscì a trovare subito Bess, era l'ora della colazione e c'era molta ressa, poi risultò che un ragazzo aveva preso in prestito i vecchi pantaloni di Karl, sicché dovette ispezionare gli attaccapanni di quasi tutti i letti prima di trovarli, e quando arrivò alla porta principale erano passati cinque minuti buoni. Proprio davanti a lui camminava una signora in mezzo a quattro signori. Si dirigevano tutti verso una grande automobile in attesa con un lacchè già pronto davanti allo sportello aperto, che aveva un'aria molto solenne con il braccio sinistro rigidamente teso in orizzontale. Karl aveva sperato invano di scivolare inosservato dietro a quella distinta compagnia. Già il capoportiere lo afferrava per la mano e lo trascinava verso di sé tra due di quei signori, ai quali Karl chiese scusa.

«E questo sarebbe il tuo quarto di minuto», disse, guardando Karl di traverso, come se osservasse un orologio che funzionava male. «Vieni un po' qui», disse poi, guidandolo nella grande portineria che già da tempo Karl desiderava visitare, nella quale però ora, spinto dal portiere, entrò con diffidenza. Era già sulla porta, quando si volse e tentò di spingere via il portiere e di allontanarsi.

«No, no, bisogna entrare qui», disse il capoportiere afferrandolo e rigirandolo.

«Ma io sono stato licenziato», disse Karl, intendendo con ciò che più nessuno all'albergo poteva dargli ordini.

«Finché ti tengo, non sei licenziato», replicò il portiere, il che dopotutto era anche vero.

Karl rifletté e non trovò ragione di opporsi al portiere. E poi, che cosa poteva succedergli ancora? Inoltre le pareti della portineria erano fatte esclusivamente di enormi lastre di vetro, dalle quali si vedeva passare la folla nell'atrio come se ci si trovasse in mezzo. Anzi, sembrava che in tutta la portineria non ci fosse un angolo in cui nascondersi agli occhi della gente. Per quanto fuori ognuno andasse di fretta, perché si faceva strada tra gli altri a testa bassa, con il braccio teso, gli occhi inquieti, tenendo in alto il proprio bagaglio, quasi tutti gettavano un'occhiata verso la portineria, poiché dietro ai vetri erano sempre appesi avvisi e informazioni importanti sia per i clienti che per il personale dell'albergo. Inoltre c'era sempre un rapporto diretto tra la portineria e l'atrio, perché davanti alle due grandi finestre scorrevoli sedevano due sottoportieri, perennemente occupati a dare informazioni sugli argomenti più disparati. Costoro erano sovraccarichi di lavoro, e Karl avrebbe giurato che il capoportiere, così come lo conosceva, nella sua carriera aveva fatto acrobazie per evitare posti simili. Quei due distributori d'informazioni avevano sempre davanti a sé nell'apertura dello sportello almeno dieci facce che chiedevano qualcosa, e dall'esterno era impossibile rendersene conto. Fra queste dieci persone, che cambiavano di continuo, spesso c'era una confusione di lingue come se ognuno fosse stato inviato da un paese diverso. C'erano sempre persone che chiedevano qualcosa contemporaneamente, mentre altri continuavano a parlare tra loro. I più volevano prendere o consegnare qualcosa in portineria, così si vedevano sempre sporgere dalla ressa mani che si agitavano con impazienza. Ad un certo punto uno chiese qualcosa a proposito di un certo giornale, che teneva alzato e che d'un tratto si spiegò nascondendo per un momento tutti i visi. I due sottoportieri dovevano far fronte a tutto. Per il loro servizio non bastava rispondere, recitavano un'informazione dopo l'altra senza la minima interruzion, soprattutto uno dei due, un uomo cupo con una barba scura che gli circondava tutto il viso. Non guardava né il piano del tavolo, dove doveva continuamente metter le mani, né il viso di chi gli chiedeva qualcosa, ma teneva gli occhi fissi davanti a sé, evidentemente per risparmiare e raccogliere le proprie forze. Del resto, per via della barba, le sue parole non erano del tutto comprensibili, e per il poco che gli rimase accanto Karl non capì quasi nulla, anche perché il sottoportiere doveva usare per lo più lingue straniere, pur mantenendo un accento inglese. Inoltre era difficile capire anche perché ad ogni informazione ne seguiva direttamente un'altra, sicché chi aveva chiesto una cosa continuava ad ascoltare con attenzione credendo che si trattasse ancora del suo problema, e solo poco dopo si accorgeva di essere già stato liquidato. Bisognava abituarsi anche al fatto che il sottoportiere non chiedeva mai di ripetere una domanda, anche se questa era stata formulata in modo poco chiaro, solo vagamente comprensibile; allora un cenno del capo quasi impercettibile manifestava la sua intenzione di non rispondere alla domanda, ed era compito di chi gliel'aveva posta riconoscere il proprio errore e formularla meglio. Soprattutto per questo molti passavano una quantità di tempo davanti allo sportello. Ogni sottoportiere era aiutato da un fattorino che correva avanti e indietro per portargli l'occorrente da uno scaffale per libri o da diverse casse. Erano i posti più retribuiti, anche se i più faticosi, per i dipendenti più giovani dell'albergo, e in un certo senso era un lavoro più duro di quello dei sottoportieri, perché costoro dovevano soltanto riflettere e parlare, mentre i ragazzi dovevano riflettere e correre nello stesso tempo. E quando talvolta portavano la cosa sbagliata, naturalmente nella fretta il sottoportiere non aveva tempo di dare spiegazioni e si limitava a buttar giù dal tavolo con una spinta quello che i fattorini gli avevano messo davanti. Molto interessante era il cambio dei sottoportieri, che ebe luogo dopo l'ingresso di Karl. Naturalmente questo cambio avveniva spesso, almeno durante il giorno, perché nessuno poteva resistere più di un'ora dietro allo sportello. All'ora del cambio suonava una campana, e contemporaneamente da una porta laterale entravano i due sottoportieri di turno, ognuno seguito dal suo fattorino. Per un momento stavano fermi davanti allo sportello a osservare la gente fuori, per constatare a che punto erano le domande e le risposte. Quando ritenevano che fosse il momento opportuno per intervenire, davano un colpetto sulla spalla al sottoportiere cui dovevano subentrare, e questi, sebbene fin'allora non si fosse curato affatto di ciò che avveniva dietro di lui, capiva subito e lasciava libero il posto. Tutto avveniva così rapidamente che spesso la gente fuori restava sorpresa e retrocedeva di un passo, spaventata dalla faccia nuova che d'un tratto si trovava davanti. I due sottoportieri che avevano terminato il servizio si stiracchiavano e poi si versavano dell'acqua sulle teste accaldate da due bacinelle pronte per loro, mentre i fattorini non potevano ancora stiracchiarsi perché prima dovevano raccogliere e mettere a posto tutti gli oggetti che erano stati buttati a terra durante il loro servizio.

In pochi minuti Karl aveva assistito a tutto questo spettacolo con la massima attenzione, e ora con un lieve mal di testa seguì in silenzio il capoportiere che lo guidava. Evidentemente anche il capoportiere aveva notato che Karl era rimasto molto colpito da quel modo di dare le informazioni, perché d'un tratto gli strinse la mano e disse: «Vedi come si lavora qui!». All'albergo Karl non era certo rimasto inattivo, ma non aveva avuto idea che quel lavoro fosse così faticoso, e quasi dimenticando che il capoportiere era suo nemico giurato, lo guardò in silenzio e annuì col capo in segno di approvazione. Ma il capoportiere interpretò questo gesto come una sopravvalutazione dei sottoportieri e forse come una scortesia verso la sua persona, perché, come se prima avesse preso in giro Karl, gridò, senza curarsi di essere sentito: «Naturalmente questo è il lavoro più stupido di tutto l'albergo; basta ascoltare per un'ora e s'imparano più o meno tutte le domande di ordinaria amministrazione, e alle altre non c'è bisogno di rispondere. Se tu non fossi stato arrogante e maleducato, se tu non avessi mentito, oziato, bevuto e rubato, forse avrei potuto impiegarti a uno di questi sportelli, perché per questo lavoro posso usare solo teste dure».

Karl non sentì neppure la sgridata che lo riguardava, tanto era indignato di veder deriso, anziché riconosciuto, l'onesto e duro lavoro dei sottoportieri, e per giunta da parte di un uomo che, se solo si fosse arrischiato a sedersi davanti a uno di quegli sportelli, certo avrebbe dovuto ritirarsi dopo qualche minuto fra le risa di tutti i clienti.

«Mi lasci», disse Karl, dato che la sua curiosità a proposito della portineria era più che appagata, «non voglio più aver niente a che fare con lei».

«Questo non basta per andartene», disse il capoportiere, stringendo le braccia di Karl in modo tale che questi non poteva più muoverle, e lo portò di peso fino in fondo alla portineria. Ma la gente di fuori non vedeva il sopruso del capoportiere? E se lo vedeva, che cosa poteva pensarne, dato che nessuno si fermava o almeno bussava sul vetro per far capire al capoportiere che era osservato e che non poteva trattare Karl come voleva?

Comunque Karl perse ben presto la speranza di aver un aiuto dall'atrio, perché il capoportiere tirò un cordone e delle tende nere si richiusero fino a metà sui vetri della portineria, coprendoli per tutta la loro altezza. Anche in questa parte della portineria c'erano persone, ma tutte assorbite dal lavoro e senza orecchi né occhi per tutto ciò che non le riguardava. Inoltre tutti dipendevano dal capoportiere, e anziché aiutare Karl avrebbero senz'altro aiutato il capoportiere a nascondere qualsiasi cosa gli fosse venuta in mente. Ad esempio c'erano sei sottoposti occupati a sei telefoni. Come si notava subito, il servizio funzionava in modo che solo uno prendeva sempre le comunicazioni, e toccava al suo vicino inoltrarle per telefono. Si trattava di telefoni molto recenti per cui non servivano cabine perché la soneria era molto bassa e bastava bisbigliare nel telefono che le parole giungevano a destinazione forti e chiare grazie a particolari amplificatori elettrici. Per questo i tre telefonisti si sentivano appena, e sembrava che si limitassero a osservare qualcosa sussurrando nel microfono, mentre gli altri tre, come assordati dal chiasso che li incalzava, del resto non percepito dall'ambiente, piegavano stancamente la testa sulla carta con le notizie da trasmettere. Anche lì c'era un ragazzo che aiutava ognuno dei tre telefonisti; i tre ragazzi non facevano altro che allungare il collo verso i rispettivi superiori per sentire gli ordini e poi cercare in fretta, come se fossero stati pungolati, i numeri telefonici entro enormi volumi gialli, mentre il fruscio dei fogli copriva completamente il rumore dei telefoni.

Karl non poteva fare a meno di seguire con attenzione tutto il procedimento, sebbene il capoportiere, che si era seduto, lo tenesse davanti a sé stretto come in una morsa.

«È mio dovere», disse il capoportiere scuotendo Karl come per obbligarlo a volgere il viso verso di lui, «cercare di ricordare, in nome della direzione, tutto quello che il capocameriere per un motivo qualsiasi può aver dimenticato. Così ognuno può sempre sostituire un altro, diversamente un esercizio così vasto sarebbe impensabile. Tu puoi obiettare che io non sono il tuo diretto superiore, tanto più allora è bello da parte mia interessarmi di questo problema trascurato da tutti gli altri. Del resto in un certo senso come capoportiere sono superiore a tutti, perché da me dipendono tutte le porte dell'albergo, e cioè questa porta principale, le tre porte mediane e le dieci porte secondarie, per non parlare poi delle innumerevoli porticine e delle uscite prive di porta. È ovvio che tutto il personale del servizio in questione deve obbedirmi incondizionatamente. Naturalmente, come contropartita di questo grande onore, di fronte alla direzione dell'albergo ho l'obbligo di non lasciare uscire nessuno che sia minimamente sospetto. E proprio tu, perché così mi aggrada, mi sei fortemente sospetto». E con la massima soddisfazione alzò le braccia e le lasciò ricadere con forza su Karl dandogli un gran colpo che gli fece male. «Avresti anche potuto», aggiunse sempre più soddisfatto, «svignartela per un'altra uscita, perché non mi pareva che valesse la pena di dare disposizioni particolari per te. Ma dato che sei qui, voglio godermela. Del resto non ho mai dubitato che tu venissi all'appuntamento che ci eravamo dati vicino alla porta principale, perché di regola gli insolenti e i disobbedienti diventano docili proprio nel momento in cui sono più deboli. Tu stesso avrai modo di constatarlo di frequente».

«Non creda», disse Karl, e l'odore stranamente stantio che emanava dal portiere lo colpì per la prima volta, data la loro vicinanza, «non creda di avermi completamente in suo potere, posso sempre gridare».

«E io posso tapparti la bocca», disse il capoportiere, con la stessa calma e tranquillità con cui probabilmente all'occorrenza lo avrebbe fatto. «Credi davvero che se qualcuno venisse qui per te potrebbe darti ragione di fronte a me, il capoportiere? Vedi dunque come sono assurde le tue speranze. Quando eri ancora in uniforme potevi forse farti prestare un po' d'attenzione, ma con questo vestito, che è davvero pensabile solo in Europa!». E incominciò a tirare con forza da tutte le parti il suo vestito, che, sebbene cinque mesi prima fosse stato quasi nuovo, ora era logoro, spiegazzato e soprattutto pieno di macchie, cosa dovuta soprattutto alla negligenza degli addetti all'ascensore, che ogni giorno, per mantenere liscio e pulito il pavimento della sala secondo gli ordini, per pigrizia non facevano una pulizia vera e propria, ma spruzzavano un olio sul pavimento sporcando così malamente anche tutti i vestiti appesi agli attaccapanni. Ovunque si appendessero i propri vestiti, c'era sempre un ragazzo che non aveva i suoi sottomano, e trovando facilmente i vestiti nascosti di un altro li prendeva in prestito. E proprio lui poteva essere quello cui toccava quel giorno la pulizia della sala, e che non soltanto macchiava i vestiti con l'olio, ma li insudiciava da cima a fondo. Solo Renell aveva nascosto i suoi vestiti lussuosi in un posto segreto dove quasi nessuno era riuscito a trovarli, tanto più che nessuno prendeva in prestito i vestiti degli altri per cattiveria o per avarizia, ma li prendeva dove capitava soltanto per fretta o per negligenza. Comunque persino l'abito di Renell aveva una macchia d'olio rotonda e rossastra in mezzo alla schiena, e in città qualunque esperto avrebbe potuto riconoscere da quella macchia che l'elegante giovanotto era un addetto all'ascensore.

A questi ricordi Karl pensò che anche come addetto all'ascensore aveva sofferto abbastanza e che in fondo tutto era stato inutile, perché quel lavoro non era stato, come aveva sperato, il primo gradino verso una posizione migliore, ma aveva contribuito a farlo cadere ancora più in basso, e per poco non l'aveva mandato in prigione. Inoltre era sempre tra le grinfie del capoportiere, che probabilmente stava pensando a come poterlo umiliare ancora. E dimenticando completamente che il capoportiere non era certo il tipo da lasciarsi convincere, Karl gridò, battendosi più volte la fronte con la mano libera: «E se anche fosse vero che non l'ho salutata, come può un uomo adulto vendicarsi così per un saluto non fatto!».

«Io non mi vendico», disse il capoportiere, «voglio solo perquisirti le tasche. Anche se sono convinto di non trovare niente, perché tu sarai stato certo così prudente da far portare via tutto al tuo amico poco per volta, ogni giorno qualcosa. Comunque devi essere perquisito». E cominciò subito a frugare in una delle tasche di Karl con tale energia che le cuciture laterali si strapparono. «Dunque, qui non c'è niente», disse, esaminando con cura nella mano il contenuto della tasca, un calendario réclame dell'albergo, un foglio con un compito di corrispondenza commerciale, qualche bottone della giacca e dei pantaloni, il biglietto da visita della capocuoca, un nettaunghie che gli era stato gettato una volta da un cliente mentre faceva la valigia, un vecchio specchietto tascabile che Renell gli aveva regalato come ringraziamento per forse dieci sostituzioni in servizio, e qualche altra piccolezza. «Dunque, qui non c'è niente», ripeté il capoportiere gettando tutto sotto il banco, come se fosse naturale che tutto ciò che possedeva Karl, se non era stato rubato, poteva essere gettato via.

«Ora però basta», pensò Karl (si sentiva il viso infuocato) e quando il capoportiere, fattosi imprudente per l'avidità, si mise a frugare nell'altra tasca, di scatto Karl scivolò fuori dalle maniche della giacca, in un primo balzo, ancora incontrollato spinse con una certa forza un sottoportiere contro il suo apparecchio telefonico, e attraverso l'aria pesante della portineria corse verso la porta, in realtà meno velocemente di quanto avrebbe voluto, ma per fortuna riuscì a uscire ancor prima che il capoportiere, ostacolato dal suo pesante mantello, avesse potuto alzarsi. Dopo tutto l'organizzazione del servizio di guardia non era così esemplare, infatti si sentì suonare una campana da qualche parte, ma chissà a quale scopo! Gli impiegati dell'albergo andavano su e giù per l'ingresso in tal quantità, da far quasi credere che volessero impedire l'uscita senza dar nell'occhio, perché era difficile trovare un senso in tutto quel viavai; comunque Karl uscì presto all'aperto, ma dovette camminare ancora lungo il marciapiede dell'albergo, perché era impossibile attraversare la strada, dato che la porta principale dell'albergo era bloccata da una fila ininterrotta di automobili. Queste automobili, per arrivare il più presto possibile dai loro padroni, erano quasi incastrate l'una contro l'altra, ognuna veniva spinta avanti da quella seguente. I pedoni che avevano particolarmente fretta di attraversare la strada si limitavano a passare attraverso le automobili, come se fossero un passaggio pubblico, totalmente incuranti del fatto che nell'automobile vi fosse soltanto l'autista, i servitori o anche la gente più distinta. Ma questo comportamento a Karl sembrava esagerato, e per arrischiarsi a imitarlo bisognava essere molto esperti, perché entrando in una automobile avrebbe anche potuto offendere i passeggeri, che lo avrebbero buttato fuori e avrebbero suscitato uno scandalo, e non ci sarebbe stato niente di peggio per un dipendente dell'albergo sospetto e fuggito in maniche di camicia. Però la fila delle automobili non poeva continuare così in eterno, e quanto a lui, finché fosse rimasto vicino all'albergo, avrebbe destato anche meno sospetti. Alla fine giunse in un punto in cui la fila delle automobili, pur restando continua, seguiva la curva della strada e diventava meno serrata. Stava appunto per scivolare in mezzo al traffico della strada, dove giravano liberamente persone dall'aria molto più sospetta di lui, quando sentì gridare il suo nome da vicino. Si volse e vide due addetti agli ascensori, che conosceva bene, nel vano di una porticina bassa, simile all'ingresso di una cripta; stavano tirando fuori con enorme sforzo una barella su cui era disteso Robinson in persona (Karl lo riconobbe subito), con la testa, il viso e le braccia coperti da varie fasce. Era orribile vedere come si portava le braccia agli occhi per asciugarsi le lacrime con la fasciatura, lacrime di dolore o di qualche dispiacere o forse di gioia per aver rivisto Karl.


Date: 2015-12-18; view: 563


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