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UNA VILLA NEI PRESSI DI NEW YORK 13 page

«Rossmann», gridò in tono di rimprovero, «perché mi hai fatto aspettare tanto? È già un'ora che rifiuto di farmi portar via prima del tuo arrivo. Questi tipi» - e diede uno scappellotto a uno degli addetti all'ascensore, come se si sentisse protetto dalle fasciature -«sono veri demoni. Ah, Rossmann, esser venuto a trovarti m'è costato caro!».

«Ma che cosa ti hanno fatto?» disse Karl avvicinandosi alla barella che i ragazzi, ridendo, avevano posato a terra per riposarsi.

«E me lo chiedi?» sospirò Robinson. «Vedi come sono ridotto; pensa che con ogni probabilità sarò storpio per tutta la vita, tanto m'hanno riempito di botte. Ho dolori atroci da qui fino a qui», e indicò prima la testa e poi i piedi, «e vorrei che tu avessi visto quanto sangue ho perso dal naso. Il mio gilè è tutto rovinato, ho dovuto lasciarlo all'albergo, i miei pantaloni sono a brandelli, infatti sono qui in mutande», e sollevò un poco le coperte invitando Karl a guardarlo. «Che cosa sarà mai di me! Dovrò restare a letto almeno due mesi e voglio dirtelo subito, non ho altri che te che mi possa curare, perché Delamarche non ha nessuna pazienza. Rossmann, piccolo Rossmann!». E Robinson allungò la mano verso Karl, che stava indietreggiando, per accattivarselo con qualche carezza. «Ma perché mai sono venuto a trovarti!», ripeté più volte, affinché Karl non dimenticasse la sua responsabilità nella disgrazia che gli era toccata. A dire il vero Karl capì subito che i lamenti di Robinson non dipendevano dalle sue ferite, bensì dal terribile stato di ubriachezza in cui si trovava, perché, subito dopo essersi addormentato in quelle condizioni, era stato svegliato di soprassalto e riempito di pugni, e da sveglio non riusciva ancora a chiarirsi le idee. Che le ferite fossero di poca importanza si vedeva già dalle fasciature non certo regolamentari, fatte con vecchi stracci con cui gli addetti all'ascensore l'avevano avvolto tutto, evidentemente per divertirsi. E anche i due ragazzi alle due estremità della barella di tanto in tanto scoppiavano dalle risa. Ma quello non era certo il luogo per far tornare in sé Robinson, perché i passanti, senza curarsi del gruppo attorno alla barella, li oltrepassavano a precipizio, e spesso qualcuno saltava al disopra di Robinson con un vero e proprio slancio da ginnasta. L'autista pagato con i denari di Karl gridò: «Avanti, avanti!», i ragazzi sollevarono la barella con le loro ultime energie, e Robinson prese la mano di Karl dicendogli in tono carezzevole: «Vieni, su, vieni!». Vestito co'era, Karl non sarebbe stato forse più al riparo nel buio dell'automobile? E così si sedette accanto a Robinson, che appoggiò la testa sulla sua spalla. I due ragazzi strinsero cordialmente la mano all'ex collega attraverso il finestrino e l'automobile s'immise nella strada con una brusca curva come se da un momento all'altro dovesse succedere un incidente, ma subito il traffico che inghiottiva tutto accolse tranquillamente anche quella macchina nel suo percorso rettilineo.



 

UN ASILO

 

La strada in cui l'automobile si arrestò doveva essere fuori mano, perché tutto intorno era tranquillo e sul bordo del marciapiede erano seduti dei bambini a giocare. Un uomo con un mucchio di vestiti vecchi sulle spalle gridava qualcosa verso le finestre delle case. Quando Karl uscì dall'automobile sull'asfalto caldo e lucente del sole del mattino si sentì quasi male per la stanchezza.

«Abiti davvero qui?» gridò dentro l'automobile.

Robinson, che aveva dormito pacificamente per tutto il viaggio, borbottò una vaga risposta affermativa con l'aria di aspettare che Karl lo tirasse fuori.

«Allora qui non ho altro da fare. Addio», disse Karl, preparandosi a imboccare la strada in lieve discesa.

«Ma Karl, che cosa ti viene in mente?», gridò Robinson, e per la preoccupazione riuscì quasi a raddrizzarsi nell'automobile, sia pur con le ginocchia ancora vacillanti.

«Devo pur andarmene», disse Karl, che aveva osservato la rapida guarigione di Robinson.

«In maniche di camicia?» chiese questi.

«Riuscirò pure a guadagnarmi una giacca», rispose Karl, salutò fiducioso Robinson alzando la mano e se ne sarebbe andato davvero se l'autista non avesse gridato: «Ancora un attimo di pazienza, caro signore!».

Malauguratamente risultò che l'autista esigeva un supplemento per il tempo che aveva perso aspettando davanti all'albergo.

«Ma sì», gridò Robinson dall'automobile, per confermare la giustezza della richiesta, «anch'io ho dovuto aspettarti tanto tempo. Devi dargli ancora qualcosa».

«Ma sicuro», disse l'autista.

«Sì, se avessi ancora qualcosa», disse Karl, frugandosi nelle tasche dei pantaloni, sebbene sapesse che era inutile.

«Posso contare soltanto su di lei», disse l'autista mettendosi a gambe larghe, «da quell'uomo malato non posso certo pretendere niente».

Dal portone si avvicinò un ragazzotto col naso smangiato e si mise ad ascoltare a qualche passo di distanza. In quel momento un poliziotto che faceva la ronda si fermò e protese il capo per fissare l'uomo in maniche di camicia.

Anche Robinson aveva notato il poliziotto, e commise la sciocchezza di gridargli dall'altro finestrino: «Non è niente, non è niente!», quasi si potesse scacciare un poliziotto come una mosca. I bambini, che avevano osservato il poliziotto, vedendo che si era fermato notarono anche Karl e l'autista e si avvicinarono di corsa. Sul portone di fronte una vecchia fissava immobile la scena.

«Rossmann!» gridò una voce dall'alto. Era Delamarche, che chiamava da un balcone dell'ultimo piano. Si distingueva appena contro l'azzurro biancastro del cielo, indossava qualcosa di simile ad una vestaglia e scrutava la strada con un binocolo da teatro. Accanto a lui c'era un ombrellone rosso, sotto il quale sembrava sedere una donna. «Ehi!» gridò alzando la voce il più possibile per farsi capire, «c'è anche Robinson?».

«Sì», rispose Karl, confermato subito da un secondo «sì» di Robinson, molto più forte, dalla vettura.

«Eccomi!» si sentì gridare di rimando. «Vengo subito!».

Robinson si sporse fuori dalla vettura. «Quello è un uomo», disse, e questa lode a Delamarche era diretta anche a Karl, all'autista, al poliziotto e a chiunque volesse sentirla. E sul balcone che tutti distrattamente continuavano a guardare, sebbene Delamarche fosse già sparito, una donna robusta con un abito rosso sciolto in vita si alzò in piedi sotto l'ombrellone, prese il binocolo dal parapetto e si mise a osservare le persone sulla strada, che a poco a poco distolsero lo sguardo da lei. In attesa di Delamarche, Karl guardava il portone e il cortile interno, attraversato da una fila quasi ininterrotta di fattorini, ognuno dei quali portava sulla spalla una cassetta piccola, ma evidentemente molto pesante. L'autista si era avvicinato alla sua macchina, e per sfruttare il tempo puliva i fari con uno straccio. Robinson si tastava le membra doloranti, sembrava stupito di sentire così poco dolore, nonostante vi prestasse la massima attenzione, chinò il capo e cominciò a slegare con cautela una delle grosse fasce avvolte attorno alla gamba. Il poliziotto teneva di traverso avanti a sé il suo bastoncino nero e aspettava in silenzio, con la grande pazienza tipica dei poliziotti sia durante il servizio normale sia quando fanno la posta a qualcuno. Il ragazzo con il naso smangiato si sedette sul paracarro vicino al portone e allungò le gambe davanti a sé. A poco a poco i bambini si avvicinarono a Karl, sebbene lui non si curasse di loro, poiché per via della sua camicia azzurra lo ritenevano la persona più importante.

Dal tempo che Delamarche aveva impiegato per scendere si poteva misurare la grandezza di quella casa. E Delamarche arrivò perfino in fretta, con la vestaglia annodata alla bell'e meglio. «Eccovi finalmente!», esclamò allegro e severo ad un tempo. Facendo grandi passi, lasciava intravedere ad ogni momento la sua biancheria colorata. Karl non riusciva a capire perché Delamarche, vivendo in città, in quella casa enorme, uscisse sulla pubblica via vestito così, quasi fosse nella sua villa privata. Come Robinson, anche Delamarche era molto cambiato. Il suo viso scuro, ben rasato, pulito con cura, solcato da grossi muscoli, aveva un'aria fiera che incuteva rispetto. Il bagliore vivace dei suoi occhi sempre un po' aggrondati era sorprendente. La sua vestaglia viola era vecchia, macchiata e troppo grande per lui, ma da quel brutto indumento spuntava un'imponente sciarpa scura di seta pesante.

«Ebbene?», chiese a tutti indistintamente. Il poliziotto si avvicinò di qualche passo e si appoggiò al cofano dell'automobile. Karl diede una breve spiegazione.

«Robinson non è molto in forze, ma con un po' di fatica riuscirà a salire le scale; l'autista qui vuole un supplemento sul prezzo della corsa che ho già pagato. E adesso me ne vado. Buon giorno!».

«Tu non te ne vai», disse Delamarche.

«Gliel'ho già detto anch'io», si fece sentire Robinson dall'automobile.

«Sì me ne vado», disse Karl, muovendo qualche passo. Ma Delamarche era già dietro di lui e lo tirò indietro con violenza.

«Ho detto che resti!», gridò.

«Ma lasciatemi dunque», disse Karl, e ad ogni buon conto si preparò a difendere la sua libertà con i pugni, per quanto con un uomo come Delamarche avesse poca possibilità di successo. Però c'era pur sempre il poliziotto, c'era l'autista, e di tanto in tanto gruppi di operai passavano per quella strada di solito non molto frequentata; avrebbero permesso che Delamarche gli facesse un torto? Non avrebbe voluto trovarsi solo con lui in una stanza, ma lì? Delamarche pagò tranquillamente l'autista, che con molti inchini intascò la somma comunque immeritata e per gratitudine si avvicinò a Robinson e cominciò a discutere con lui su come farlo uscire più facilmente dall'automobile. Karl si sentì inosservato, forse Delamarche preferiva che lui se ne andasse in silenzio; se si poteva evitare una lite, tanto meglio, e quindi si limitò ad imboccare la carreggiata per allontanarsi al più presto. I bambini corsero verso Delamarche per avvisarlo della fuga di Karl, ma prima che questi avesse il tempo di intervenire, il poliziotto tese il bastoncino e gridò: «Alt!».

«Come ti chiami?» chiese riponendo il bastoncino sotto il braccio, e tirando fuori lentamente un taccuino. Per la prima volta Karl lo guardò con attenzione, era un uomo robusto, ma con i capelli già quasi tutti bianchi.

«Karl Rossmann», rispose.

«Rossmann», ripeté il poliziotto, senz'altro solo perché era un uomo pacato e scrupoloso, ma Karl, che aveva a che fare per la prima volta con le autorità americane, interpretò questa ripetizione come il manifestarsi di un certo sospetto. E in effetti la sua situazione doveva essere critica, perché persino Robinson, che pure era già abbastanza preoccupato per sé, dall'automobile si mise a gesticolare verso Delamarche perché intervenisse a favore di Karl. Ma Delamarche rifiutò scuotendo bruscamente il capo e rimase a guardare passivo, con le mani infilate nelle sue tasche troppo grandi. Il ragazzo seduto sul paracarro cominciò a spiegare tutta la faccenda sin dall'inizio a una donna appena uscita dal portone. I bambini stavano in semicerchio dietro a Karl e guardavano muti il poliziotto.

«Esibisci i tuoi documenti», disse il poliziotto. Non poteva che essere una richiesta formale, perché quando uno non ha la giacca non ha neppure molti documenti con sé. Quindi Karl tacque, per prepararsi a rispondere con precisione alla domanda seguente con la speranza di far passare così inosservata la sua mancanza di documenti.

Ma la domanda seguente fu: «Dunque non hai documenti?», e Karl fu costretto a rispondere: «Non con me».

«Questo però è grave», disse il poliziotto guardandosi attorno meditabondo e tamburellando con le dita sulla copertina del suo taccuino. «Hai un lavoro?», chiese infine il poliziotto.

«Ero addetto all'ascensore», disse Karl.

«Eri addetto all'ascensore, quindi non lo sei più, e di che cosa vivi adesso?».

«Adesso mi cercherò un altro lavoro».

«Significa che sei stato licenziato?».

«Sì, un'ora fa».

«In tronco?».

«Sì», disse Karl alzando una mano come per scusarsi. Non poteva raccontare tutta la sua storia così su due piedi, e anche se avesse potuto l'idea di evitare un torto incombente facendo il racconto di un torto subìto gli sembrava improbabile. E se non era riuscito a ottenere giustizia dalla bontà della capocuoca e dalla comprensione del capocameriere, non poteva certo aspettarsi qualcosa da quella gente sulla strada.

«E sei stato licenziato senza giacca?» chiese il poliziotto.

«Beh, sì», disse Karl; dunque anche in America era tipico delle autorità chiedere anche quello che già vedevano da sé. (Quando aveva provveduto al suo passaporto, come s'era arrabbiato suo padre per tutte le inutili domande delle autorità!). Karl aveva una gran voglia di scappare e di nascondersi da qualche parte per non dover più essere interrogato. E in quel momento il poliziotto gli fece proprio la domanda che Karl aveva temuto di più, e che probabilmente, dato che l'attendeva con inquietudine, aveva reso il suo comportamento più imprudente del solito.

«In quale albergo lavoravi?».

Karl abbassò il capo e non rispose; a quella domanda non voleva assolutamente rispondere. Non doveva accadere che lui ritornasse all'Hotel Occidental scortato da un poliziotto, che lì si svolgessero interrogatori che avrebbero coinvolto i suoi amici e nemici, che la capocuoca perdesse del tutto la buona opinione, già molto compromessa, che aveva avuto di Karl, vedendolo di ritorno tra le grinfie di un poliziotto, in maniche di camicia e senza il suo biglietto da visita, mentre lo credeva alla pensione Brenner. Probabilmente il capocameriere avrebbe soltanto scosso il capo in segno di comprensione, il capoportiere invece avrebbe parlato della mano di Dio che finalmente aveva colpito il furfante.

«Lavorava all'Hotel Occidental», disse Delamarche, mettendosi a fianco del poliziotto.

«No», gridò Karl battendo il piede per terra, «non è vero!».

Delamarche lo guardò stringendo le labbra con scherno, come se potesse rivelare tante altre cose. L'inattesa agitazione di Karl suscitò un gran movimento tra i bambini, che per poterlo vedere meglio si avvicinarono tutti a Delamarche. Robinson aveva sporto tutta la testa fuori dall'automobile e la curiosità l'aveva completamente acquietato; di tanto in tanto si limitava a strizzare gli occhi. Il ragazzo sul portone batteva le mani eccitato per il divertimento e la donna che gli stava accanto gli dette una gomitata per calmarlo. I facchini avevano giusto l'intervallo per la colazione, e uscirono uno dopo l'altro ciascuno con un tazzone pieno di caffè nero in cui inzuppavano sfilatini di pane. Alcuni si sedettero sul bordo del marciapiede, tutti sorbivano il caffè con molto rumore.

«Conosce questo ragazzo?», chiese il poliziotto a Delamarche.

«Meglio di quanto vorrei», disse questi. «A suo tempo l'ho molto aiutato, ma lui mi ha ricompensato molto male, come può capire anche dal breve interrogatorio che gli ha fatto».

«Già», disse il poliziotto, «sembra un ragazzo ostinato».

«Lo è», disse Delamarche, «ma questo non è ancora il suo peggior attributo».

«Ah sì?», disse il poliziotto.

«Sì», disse Delamarche, che era in vena di fare un discorso e agitava le mani nelle tasche facendo sventolare tutta la vestaglia, «è un furbacchione. Io e il mio amico qui in macchina l'abbiamo raccolto per caso in miseria, non conosceva affatto le usanze americane, era appena arrivato dall'Europa e anche lì non avevano saputo cosa farsene; bene, ce lo siamo portato dietro, l'abbiamo fatto vivere con noi, gli abbiamo spiegato tutto, volevamo trovargli un posto, malgrado tutte le apparenze contrarie pensavamo ancora di fare di lui un uomo utile, e poi una notte all'improvviso è scomparso, e in circostanze che preferisco non nominare. È vero o no?» chiese infine Delamarche tirando Karl per la manica della camicia.

«Indietro, bambini!» gridò il poliziotto perché questi si erano talmente avvicinati che Delamarche stava quasi per inciampare in uno di loro. Nel frattempo anche i facchini, che fino allora avevano sottovalutato l'interesse di quell'interrogatorio, si erano fatti attenti e si erano radunati in semicerchio dietro a Karl, che non avrebbe più potuto fare neanche un passo indietro e per giunta aveva le orecchie continuamente rintronate da tutte le loro voci che sbraitavano, più che parlare, in un inglese del tutto incomprensibile, forse frammisto di parole slave.

«Grazie per l'informazione», disse il poliziotto facendo il saluto a Delamarche. «Comunque lo prenderò con me e lo riporterò all'Hotel Occidental». Ma Delamarche disse: «La pregherei di lasciarmi per il momento questo ragazzo, avrei un paio di cose da sistemare con lui. M'impegno a ricondurlo io stesso all'albergo in seguito».

«Questo non posso farlo», disse il poliziotto.

Delamarche disse: «Ecco il mio biglietto da visita», e gli porse un cartoncino. Il poliziotto lo guardò con rispetto ma disse, con un sorriso cortese: «No, è inutile».

Per quanto prima Karl avesse temuto Delamarche, ora vedeva in lui l'unica possibilità di salvezza. In verità il modo in cui questi aveva cercato di farselo dare in consegna dal poliziotto era sospetto, comunque Delamarche si sarebbe lasciato convincere più facilmente del poliziotto a non riportarlo all'albergo. E anche se Karl fosse ritornato all'albergo scortato da Delamarche, sarebbe stato sempre meglio che tornarvi in compagnia di un poliziotto. Ma naturalmente per il momento Karl non voleva mostrare il suo desiderio di restare con Delamarche, altrimenti tutto sarebbe stato perduto. E guardava con ansia la mano del poliziotto, che ad ogni momento poteva alzarsi per afferrarlo.

«Dovrei almeno sapere perché è stato licenziato in tronco», disse infine il poliziotto, mentre Delamarche guardava irritato di fianco gualcendo il biglietto da visita tra le punte delle dita.

«Ma non è stato licenziato!», gridò Robinson fra la sorpresa di tutti, e appoggiandosi all'autista si sporse il più possibile fuori dall'automobile. «Al contrario, là ha un buon posto. Nel dormitorio è il capo e può introdurvi chi vuole. Solo che è terribilmente occupato, e se si vuole qualcosa da lui bisogna aspettare a lungo. È sempre dal capocameriere o dalla capocuoca, ed è ritenuto una persona di fiducia. Non è stato affatto licenziato, e non so perché l'abbia detto. E perché dovrebbe essere licenziato? All'albergo mi sono gravemente ferito, lui ha avuto l'incarico di portarmi a casa, e dato che in quel momento era senza giacca, è partito così com'era. Io non potevo aspettare che andasse a prendere la giacca».

«Vede, dunque», disse Delamarche allargando le braccia, con un tono come se volesse rimproverare al poliziotto la sua scarsa conoscenza degli uomini, e queste sue due parole parvero chiarire definitivamente il discorso vago di Robinson.

«Ma sarà vero?» chiese il poliziotto, già più incline a cedere. «E se è vero, perché il ragazzo dice di essere stato licenziato?».

«Devi rispondere», disse Delamarche.

Karl guardò il poliziotto, che cercava di metter ordine fra quegli estranei preoccupati soltanto per se stessi, e i timori generali del poliziotto si trasmisero in parte anche a lui. Non voleva mentire, e teneva la mani intrecciate dietro la schiena. Nel portone apparve un sorvegliante e batté le mani per indicare che i facchini dovevano riprendere il lavoro. Questi rovesciarono a terra il fondo del loro caffè e rientrarono a passi lenti nell'edificio, in silenzio.

«Così non la finiremo mai», disse il poliziotto, e fece il gesto di prendere Karl per un braccio. Istintivamente Karl indietreggiò ancora un poco, sentì lo spazio libero lasciato dai facchini, si voltò e incominciò a correre a grandi salti. I bambini proruppero in un grido e gli corsero dietro per un tratto a braccia spalancate.

«Fermatelo!» gridò il poliziotto inseguendolo giù per la stradina lunga e quasi deserta con un passo di corsa silenzioso, che rivelava molta forza e molto esercizio, e ripetendo il suo grido a intervalli regolari. Per Karl fu una fortuna che l'inseguimento avvenisse in un quartiere operaio. Gli operai non vedono di buon occhio le autorità. Karl correva in mezzo alla carreggiata perché era più libera e di tanto in tanto vedeva un operaio che si fermava sul marciapiede e lo osservava tranquillo, mentre il poliziotto gli gridava: «Fermatelo!», e correndo (prudentemente si teneva sul marciapiede liscio) teneva il bastoncino teso verso Karl. Questi aveva già poca speranza, e la perse quasi del tutto quando il poliziotto cominciò a fischiare in modo addirittura assordante, perché si avvicinavano a strade trasversali, che certo erano percorse da altre pattuglie di polizia. L'unico vantaggio di Karl consisteva nel suo abbigliamento leggero, perché volava, o meglio si precipitava giù per la strada sempre più in discesa, ma spesso, distratto dalla sua sonnolenza, faceva salti troppo alti perdendo tempo inutilmente. Inoltre il poliziotto aveva sempre la sua meta davanti agli occhi e non doveva riflettere, per Karl invece la corsa era secondaria, doveva riflettere, scegliere tra varie possibilità, prendere decisioni sempre nuove. Al momento il suo piano, quasi disperato, era quello di evitare le strade trasversali perché non sapeva che cosa avrebbe trovato, e poteva anche finire dritto dritto in una guardiola; finché poteva, voleva restare in quella strada visibile per un lungo tratto, che continuava a scendere per terminare in un ponte quasi completamente immerso nella bruma dell'acqua e del sole. In seguito a questa decisione si accingeva ad accelerare la corsa per superare in fretta la prima strada trasversale, quando vide un poliziotto a breve distanza in agguato contro il muro cupo di una casa in ombra, pronto a balzare su di lui al momento opportuno. Ora non gli restava altra possibilità che la strada trasersale, e quando si sentì chiamare con tutta naturalezza proprio da quella strada - da principio gli parve proprio una sua fantasticheria, perché in tutto quel tempo aveva sempre avuto un ronzìo nelle orecchie - non esitò più, e ruotando un piede svoltò ad angolo retto nella strada per disorientare i poliziotti.

Ebbe appena il tempo di fare due salti - aveva dimenticato di aver sentito chiamare il suo nome, ora s'era messo a fischiare anche il secondo poliziotto con tutta la sua energia ancora intatta, e in lontananza alcuni passanti sembravano già affrettare il passo - quando da una porticina una mano si sporse verso di lui tirandolo in un vestibolo buio, mentre una voce diceva: «Silenzio!». Era Delamarche, completamente senza fiato, con le guance accaldate e i capelli appiccicati dal sudore. Teneva la vestaglia sul braccio e indossava solo la camicia e le mutande. Chiuse subito col catenaccio la porta, che non era l'entrata principale, ma solo un ingresso secondario nascosto.

«Un momento», disse poi, appoggiandosi alla parete con la testa rovesciata all'indietro e il fiato grosso. Karl gli stava addosso con il viso schiacciato contro il suo petto, quasi in stato d'incoscienza.

«Senti come corrono», disse Delamarche e indicò la porta con il dito restando in ascolto. E in realtà stavano passando i due poliziotti, la loro corsa risuonava nella strada deserta come l'acciaio quando è battuto contro la pietra.

«Tu però sei proprio conciato bene», disse Delamarche a Karl, che non riusciva a riprendere fiato e a dire una parola. Con cautela lo fece sedere a terra e gli s'inginocchiò accanto, passandogli più volte la mano sulla fronte e osservandolo.

«Adesso va meglio», disse Karl alzandosi a fatica.

«Allora andiamocene», disse Delamarche, che aveva indossato di nuovo la vestaglia, e spinse avanti a sé Karl che per la debolezza ancora non riusciva ad alzare la testa. Di tanto in tanto lo scuoteva per rianimarlo.

«E tu saresti stanco?», disse. «Almeno potevi correre all'aperto come un cavallo, ma io ho dovuto infilarmi in questi corridoi e cortili maledetti. Per fortuna sono un buon corridore». E tutto fiero, gli dette una gran manata sulla spalla. «Una gara di corsa ogni tanto con la polizia è un buon esercizio».

«Ero già stanco quando ho incominciato a correre», disse Karl.

«Per chi corre male non ci sono scuse», disse Delamarche. «Se non ci fossi stato io, ti avrebbero già preso da tempo».

«Lo credo anch'io», disse Karl. «Le devo molto».

«Non c'è dubbio», disse Delamarche.

Attraversarono un androne lungo e stretto lastricato di pietre scure e lisce. Di tanto in tanto a destra o a sinistra saliva una scala o si apriva un altro androne, più spazioso. Sulle scale deserte non si vedevano quasi adulti, solo bambini che giocavano. Una bambina era appoggiata ad una ringhiera e piangeva, con il viso tutto lucente di lacrime. Non appena vide Delamarche, corse su per le scale ansando a bocca aperta e si calmò solo in cima, quando capì, dopo essersi girata più volte, che nessuno la seguiva né voleva seguirla.

«Un momento fa l'ho fatta ruzzolare a terra», disse Delamarche ridendo e la minacciò col pugno, al che la bambina si rimise a correre su per le scale strillando.

Anche i cortili che attraversavano erano quasi del tutto deserti. Solo qua e là un fattorino spingeva davanti a sé un carretto a due ruote, una donna riempiva una brocca d'acqua alla pompa, un postino attraversava il cortile a passo lento, un vecchio dai baffi bianchi sedeva a gambe incrociate davanti a una porta a vetri e fumava la pipa, qualche cassa veniva scaricata davanti a una ditta di spedizioni, i cavalli a riposo giravano la testa con indifferenza, un uomo in camice sorvegliava il lavoro con un foglio in mano. In un ufficio c'era una finestra aperta e un impiegato seduto alla sua scrivania s'era voltato al passaggio di Karl e Delamarche e guardava fuori pensieroso.

«Non ci si potrebbe augurare un quartiere più tranquillo», disse Delamarche. «Di sera c'è un gran chiasso per un paio d'ore, ma durante il giorno c'è una quiete perfetta». Karl annuì, anche se la quiete gli sembrava troppa. «Non potrei abitare in un altro posto», disse Delamarche, «perché Brunelda non sopporta assolutamente il chiasso. Conosci Brunelda? Beh, comunque la vedrai. Però ti raccomando, cerca di non fare rumore».

Quando arrivarono alla scala che portava all'abitazione di Delamarche l'automobile era già partita, e il ragazzo con il naso smangiato annunciò, senza stupirsi affatto della ricomparsa di Karl, di aver portato Robinson su per le scale. Delamarche si limitò a fargli un cenno, come se fosse un servitore che ha fatto solo il suo dovere, e spinse su per le scale Karl, che indugiava guardando la strada assolata. «Ci siamo», disse più volte Delamarche mentre salivano, ma la sua previsione non si realizzava mai, a ogni scala ne seguiva un'altra con un impercettibile mutamento di direzione. Una volta Karl dovette fermarsi, non perché fosse realmente stanco, ma perché si sentiva inerme di fronte a quelle scale senza fine. «L'appartamento è davvero in alto», disse Delamarche quando ripresero a salire, «ma anche questo ha i suoi vantaggi. Si esce molto di rado, si sta tutto il giorno in vestaglia, ce la prendiamo molto comoda. Naturalmente così in alto non si hanno visite».

«E chi mai dovrebbe fargli visita?» pensò Karl. Alla fine su un pianerottolo videro Robinson davanti a una porta chiusa; erano arrivati. La scala non terminava neppure lì, ma proseguiva nella penombra e nulla sembrava indicare una fine prossima.

«L'avevo pensato», disse Robinson sottovoce, come se fosse ancora oppresso dai dolori. «Delamarche riesce a riportarlo! Rossmann, che cosa saresti mai senza Delamarche?». Robinson indossava soltanto la sua biancheria e cercava di coprirsi il più possibile con la piccola coperta del letto che gli avevano dato all'Hotel Occidental; non si capiva perché non entrasse in casa, anziché star lì a rendersi ridicolo di fronte alla gente che poteva passare.


Date: 2015-12-18; view: 748


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