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UNA VILLA NEI PRESSI DI NEW YORK 3 page

Immerso in questi pensieri si avvicinò lentamente al fuochista, gli tolse la mano destra dalla cintura e la tenne come per gioco nella sua.

«Perché non dici niente?» chiese. «Perché ti fai andar bene tutto?».

Il fuochista si limitò ad aggrottare la fronte, come se cercasse l'espressione giusta per ciò che aveva da dire. Poi abbassò gli occhi sulla mano di Karl e sulla sua.

«Hai subìto più torti di qualsiasi altro su questa nave, ne sono certo». E Karl intrecciò le sue dita con quelle del fuochista, che si guardò attorno con occhi splendenti, come se provasse una grandissima gioia per cui però nessuno poteva aversene a male.

«Ma tu devi tener testa, dire sì e no, altrimenti la gente non può indovinare la verità. Devi promettermi che mi obbedirai, perché io, ho motivo di temere, non potrò più aiutarti». E Karl, baciando la mano del fuochista, si mise a piangere, e prese quella mano screpolata, quasi senza vita, e se la premette contro le guance come fosse un tesoro cui si deve rinunciare. Ma ecco che lo zio senatore era già al suo fianco e lo portava via, sia pure senza quasi fargli pressione.

«Sembra che il fuochista ti abbia stregato», disse e lanciò un'occhiata d'intesa al capitano sopra la testa di Karl.

«Ti sei sentito abbandonato, hai trovato il fuochista e ora gli sei grato, questo è lodevole. Ma non esagerare, se non altro per riguardo a me, e cerca di capire la tua posizione».

Davanti alla porta d'un tratto ci fu un gran chiasso, si sentirono grida, sembrava persino che qualcuno fosse spinto brutalmente contro la porta. Entrò un marinaio, piuttosto in disordine, con un grembiule da cameriera legato attorno alla vita. «C'è gente là fuori», esclamò, e dette una gomitata per aria come se fosse ancora nella mischia. Infine riacquistò la sua calma e stava per fare il saluto al capitano, ma in quel momento si accorse del grembiule, lo strappò, lo gettò a terra e gridò: «Ma è disgustoso, mi hanno messo un grembiule da cameriera». Poi però batté i tacchi e fece il saluto. Qualcuno tentò di ridere, ma il capitano disse severo: «Questo è quel che si chiama buon umore. Chi c'è là fuori?».

«Sono i miei testimoni», disse Schubal facendosi avanti, «chiedo umilmente scusa per il loro contegno sconveniente. Quando gli uomini hanno finito la traversata, a volte si comportano come matti».

«Li chiami subito dentro!» ordinò il capitano, e rivolgendosi quindi al senatore disse in tono cortese, ma sbrigativo: «Abbia ora la compiacenza, illustre senatore, di seguire con suo nipote questo marinaio che la condurrà alla scialuppa. Non è certo necessario che le dica quale piacere e quale onore siano stati per me conoscerla di persona, signor senatore. Mi auguro soltanto di aver presto l'occasione di poter riprendere con lei, signor senatore, il nostro discorso interrotto sulla condizione della marina americana, e di poter essere ancora interrotti in modo piacevole come oggi».



«Per il momento mi basta questo nipote», disse lo zio ridendo. «E ora la ringrazio di cuore per la sua gentilezza e la saluto. Del resto non è detto che noi» - e strinse a sé Karl con affetto -,«durante un nostro prossimo viaggio in Europa non possiamo stare più a lungo con lei».

«Mi farebbe molto piacere», disse il capitano. I due uomini si strinsero la mano, Karl riuscì appena a porgere la sua mano in silenzio al capitano, perché costui era già assorbito dalle quindici persone circa che stavano entrando guidate da Schubal, a dire il vero un po' confuse ma sempre molto rumorose. Il marinaio chiese al senatore di poterlo precedere, quindi fece cenno agli altri di scostarsi per lui e per Karl, che passarono agevolmente tra gli inchini di tutti. Sembrava che questa gente, peraltro bonaria, prendesse la lite tra Schubal e il fuochista come un divertimento, il cui lato ridicolo non cessava neppure davanti al capitano. Tra costoro Karl notò anche Line, la ragazza della cucina, la quale, salutandolo allegramente, si stava legando attorno alla vita il grembiule gettato via dal marinaio, che era il suo.

Sempre seguendo il marinaio, lasciarono l'ufficio e svoltarono in un piccolo corridoio, che dopo pochi passi li condusse a una porticina, da cui per una scaletta scesero nella scialuppa pronta per loro. I marinai della scialuppa, in cui la loro guida saltò con un solo balzo, si alzarono e fecero il saluto. Il senatore stava giusto esortando Karl a scendere con cautela, quando lui, ancora sul primo gradino, scoppiò in un pianto dirotto. Il senatore fece scivolare la mano destra sotto il mento di Karl, lo strinse a sé con forza e lo accarezzò con la mano sinistra. Così scesero lentamente gradino per gradino ed entrarono allacciati nella scialuppa, dove il senatore scelse un buon posto per Karl proprio davanti a lui. A un suo cenno i marinai si staccarono dalla nave e subito si misero a remare a pieno ritmo. A pochi metri di distanza dalla nave Karl vide con sorpresa che si trovavano proprio dal lato della nave su cui davano le finestre della cassa principale. Tutte e tre le finestre erano occupate da testimoni di Schubal che salutavano e facevano cenni cordiali, anche lo zio ringraziò e un marinaio riuscì persino a inviare un bacio con la mano senza interrompere il ritmo della remata. Era proprio come se il fuochista non esistesse più. Karl fissò a lungo negli occhi lo zio, le cui ginocchia erano quasi a contatto con le sue, e fu colto dal dubbio che quest'uomo potesse mai sostituire il fuochista per lui. E lo zio evitò il suo sguardo e si mise a guardare le onde che cullavano la loro scialuppa.

 

LO ZIO

 

In casa dello zio Karl si abituò presto alla nuova condizione. Ma anche lo zio gli veniva incontro con gentilezza in ogni piccola cosa, e mai Karl ebbe a subire le tristi esperienze che in genere amareggiano il primo periodo di vita in un paese straniero.

La stanza di Karl si trovava al sesto piano di una casa in cui i cinque piani inferiori, ai quali se ne aggiungevano altri tre sotterranei, erano occupati dall'azienda commerciale dello zio. La luce che penetrava nella sua stanza da due finestre e da una porta-finestra stupiva ogni volta Karl, quando usciva la mattina dalla stanzetta in cui dormiva. Dove mai avrebbe dovuto abitare, se fosse entrato nel paese come un povero piccolo immigrante? Già forse non l'avrebbero neppure lasciato entrare negli Stati Uniti, come lo zio riteneva molto probabile, data la sua conoscenza delle leggi d'immigrazione, bensì l'avrebbero rimandato a casa, senza stare a preoccuparsi del fatto che non aveva più una patria. Infatti lì non c'era da sperare nella compassione, e tutto ciò che Karl aveva letto sull'America al riguardo era più che giusto; lì soltanto i fortunati sembravano godersi davvero la loro fortuna, tra i volti noncuranti di chi li circondava.

Davanti alla stanza, per tutta la sua lunghezza, correva un balcone stretto. Ma quello che nella città natale di Karl sarebbe stato il punto di vista più alto, qui lasciava vedere soltanto il panorama di una strada che correva dritta tra due file di case dai tetti letteralmente tronchi e quindi si perdeva come in fuga in lontananza, dove da una spessa foschia si ergevano immense le forme di una cattedrale. E la mattina come la sera e nei sogni della notte su questa strada si svolgeva un traffico sempre più incalzante che, visto dall'alto, si configurava come un'accozzaglia, di volta in volta diversa, di figure umane distorte e di tetti di veicoli d'ogni specie, da cui a sua volta si levava un'altra accozzaglia, ancora più caotica e complessa, di rumori, polvere e odori, e tutto questo era investito e pervaso da una luce possente, che sempre era infranta, allontanata e poi subito riportata dalla moltitudine degli oggetti, e l'insieme, all'occhio confuso, appariva di concretezza tale, come se al di sopra della strada venisse spezzata ad ogni momento con estrema forza una lastra di vetro che ricopriva il tutto.

Lo zio, prudente com'era sempre, consigliò a Karl di non impegnarsi seriamente in niente per il momento. Certo, doveva studiare ed esaminare ogni cosa, ma senza lasciarsi catturare. In fondo i primi giorni di un europeo in America erano paragonabili a una nascita, e anche se lì, tanto perché Karl non si lasciasse prendere da inutili paure, ci si abituava più in fretta di quanto farebbe chi dalla vita ultraterrena entra in questa, bisognava tenere ben presente che il primo giudizio è sempre opinabile e che forse non dovrebbe turbare tutti gli altri giudizi futuri utili per regolare la propria vita nel paese. Lui stesso aveva conosciuto certi nuovi arrivati che ad esempio, anziché attenersi a questi sani principi, erano stati per giorni sul balcone a guardare la strada al disotto, come pecore smarrite. Chiunque ne sarebbe rimasto confuso! L'inattività e la solitudine, che accendono l'entusiasmo per un attivo giorno di New York, potevano essere concessi a qualche turista e forse, anche se non senza riserve, consigliati, ma per uno destinato a restare in America erano una rovina, in questo caso si poteva tranquillamente usare questa parola, anche se era esagerata. E in effetti lo zio faceva una smorfia di dispetto quando trovava Karl sul balcone durante una delle sue visite, che si verificavano sempre soltanto una volta al giorno e sempre nelle ore del giorno più disparate. Karl se ne accorse presto e di conseguenza si vietò il piacere, per quanto poteva, di stare sul balcone.

D'altra parte questo non era certo il solo piacere che avesse. Nella sua stanza c'era una scrivania americana della migliore qualità, come suo padre aveva desiderato per anni e come aveva cercato di acquistare a varie aste a un prezzo basso, a lui accessibile, senza però mai riuscirvi dati i suoi scarsi mezzi. Naturalmente questa scrivania non era paragonabile alle cosiddette scrivanie americane, che si vedono in giro nelle aste europee. Ad esempio, nella sua alzata c'erano cento scomparti di diversa grandezza, e persino il presidente degli Stati Uniti avrebbe trovato il posto giusto per ognuno dei suoi documenti, ma in più a fianco della scrivania c'era un regolatore, e girando una manovella era possibile effettuare a piacere e secondo il bisogno tutti i cambiamenti e gli spostamenti possibili. Sottili paretine divisorie si abbassavano lentamente e costituivano il fondo o il soffitto di tanti nuovi scomparti; già dopo un giro di manovella l'alzata aveva un aspetto del tutto diverso, e a seconda di come si girava la manovella, tutto avveniva in modo lento o incredibilmente rapido. Era un'invenzione molto recente, ma a Karl ricordava vivamente i presepi che in patria alla fiera di Natale venivano mostrati ai bambini in ammirazione, e anche Karl, infagottato nei suoi vestiti invernali, spesso si era fermato a guardarli e aveva confrontato di continuo i movimenti della manovella, azionata da un vecchio, con le trasformazioni che avvenivano nel presepio, con l'incedere a scatti dei tre Re Magi, l'illuminarsi della stella e la vita raccolta nella sacra stalla. E sempre gli era sembrato che la madre, alle sue spalle, non seguisse tutti gli avvenimenti con sufficiente attenzione; allora se la tirava accanto finché la sentiva contro la propria schiena, e con esclamazioni concitate le mostrava i piccoli avvenimenti secondari, come un leprotto che si acquattava tra l'erba per poi prepararsi alla corsa, finché la madre gli chiudeva la bocca e ricadeva probabilmente nella stessa disattenzione di prima. Certo quella scrivanianon era stata fatta soltanto per ridestare simili memorie, ma nella storia di quelle invenzioni c'era senz'altro un certo oscuro rapporto come nei ricordi di Karl. A differenza di Karl lo zio non approvava affatto quella scrivania, aveva soltanto pensato di comprargli una scrivania normale, ma ora tutte le scrivanie erano dotate di quel nuovo dispositivo, il cui vantaggio consisteva anche nel poter essere applicato senza grosse spese a scrivanie più vecchie. In ogni caso lo zio consigliava a Karl di non usare mai, se possibile, il regolatore; per rendere ancora più plausibile il consiglio, affermava che il meccanismo era molto delicato e facile da guastarsi, e l'aggiustatura molto costosa. Non era difficile capire che queste osservazioni erano soltanto pretesti, ma d'altra parte bisogna anche dire che era molto facile bloccare il regolatore, cosa che però lo zio non fece.

Nei primi giorni, durante i quali ovviamente Karl e lo zio avevano conversato più di frequente, Karl aveva anche raccontato che a casa aveva suonato il pianoforte, di rado ma volentieri, e che era riuscito a farlo soltanto con i primi rudimenti insegnatigli dalla madre. Capiva perfettamente che il racconto di quell'episodio equivaleva alla richiesta di un pianoforte, ma si era già guardato attorno abbastanza per sapere che lo zio non aveva alcun bisogno di risparmiare. Tuttavia questa richiesta non fu esaudita subito: circa otto giorni dopo lo zio, quasi sotto forma di una riluttante ammissione, disse che il pianoforte era appena arrivato e che Karl, se voleva, poteva sorvegliare il trasporto. Si trattava comunque di un lavoro poco impegnativo, non certo più impegnativo del trasporto stesso, poiché in casa esisteva un montacarichi per mobili in cui poteva comodamente trovar posto un intero furgone, e in questo montacarichi il pianoforte salì fino alla stanza di Karl. In verità anche Karl avrebbe potuto salire nel montacarichi insieme al pianoforte e ai facchini, ma poiché lì accanto c'era un ascensore, salì con quest'ultimo, azionando una leva si tenne sempre alla stessa altezza del montacarichi e attraverso le pareti di vetro continuò a fissare il bello strumento che ora era di sua proprietà. Quando lo vide nella sua stanza e suonò le prime note, provò una gioia così folle che, invece di continuare a suonare, balzò in piedi e restò fermo ad ammirare il pianoforte da una certa distanza, con le mani sui fianchi. Anche l'acustica della stanza era eccellente e contribuì a cancellare del tutto il suo piccolo disagio iniziale di abitare in una casa di ferro. E in effetti, per quanto l'edificio dall'esterno apparisse in ferro, gli elementi costruttivi metallici nella stanza non si notavano affatto, e nell'arredamento nessuno avrebbe potuto indicare anche solo un minimo dettaglio che in qualche modo turbasse la totale armonia del tutto. Nei primi tempi Karl si riprometteva molto dalla sua musica, e non si vergognava di ensare, almeno prima di addormentarsi, alla possibilità di influenzare in un certo modo le condizioni di vita in America suonando il pianoforte. Certo faceva una strana impressione, quando lui davanti alle finestre aperte sul chiasso suonava una vecchia canzone militare della sua patria, di quelle che i soldati la sera, appoggiati sui davanzali della caserma a guardar fuori sulla piazza buia, si cantano l'un l'altro da finestra a finestra - ma quando poi guardava la strada, la vedeva immutata e soltanto come una piccola parte di un grande circuito, che di per sé era inarrestabile senza conoscere tutte le forze che agivano attorno. Lo zio tollerava il suono del pianoforte senza muovere obiezioni, tanto più che Karl, anche secondo il suo ammonimento, soltanto di rado si concedeva il piacere di suonare, anzi, gli portò persino le note delle marce americane e naturalmente anche dell'inno nazionale, ma non fu certo soltanto per il piacere della musica che un giorno chiese seriamente a Karl se non voleva imparare a suonare anche il violino o la cornetta.

Ovviamente il primo e più importante compito di Karl era quello d'imparare l'inglese. Un giovane professore di un istituto superiore d'economia compariva la mattina alle sette nella stanza di Karl e lo trovava già seduto alla sua scrivania chino sui quaderni o a passeggiare su e giù per la stanza studiando a memoria qualcosa. Karl capiva bene che per imparare l'inglese la sua fretta non sarebbe stata mai troppa e che gli si offriva inoltre un'ottima occasione per dare a suo zio una grande gioia facendo rapidi progressi. E in effetti, mentre in un primo tempo il suo inglese nei colloqui con lo zio si era limitato ai saluti e a parole di congedo, ben presto riuscì a esprimere in inglese parti sempre più ampie di discorso, per cui cominciarono a introdursi anche argomenti più confidenziali. La prima poesia americana, la descrizione di un incendio, che Karl poté recitare a suo zio una sera, dette a quest'ultimo una profonda soddisfazione. Erano entrambi vicino alla finestra nella stanza di Karl, lo zio guardava fuori, dove tutta la luce del giorno si era spenta, e rapito dai versi batteva lentamente e regolarmente le mani, mentre Karl stava in piedi di fronte a lui e con gli occhi fissi recitava a fatica la difficile poesia.

Quanto più l'inglese di Karl migliorava, tanto più lo zio manifestava il desiderio di farlo incontrare con i suoi conoscenti, e comunque dispose che per il momento in tali occasioni il professore d'inglese si trovasse sempre accanto a Karl. Il primo conoscente presentato a Karl una mattina fu un giovane snello, straordinariamente vivace, che lo zio condusse nella stanza di Karl con molte cerimonie. Evidentemente era uno dei tanti figli di milionari che dal punto di vista dei genitori sono falliti, la cui vita si svolge in modo tale che un uomo comune non può osservare neanche un giorno della loro vita senza provarne dolore. E come se questi lo sapesse o lo intuisse o cercasse di porvi rimedio per quanto poteva, attorno alle sue labbra e ai suoi occhi aleggiava un sorriso perenne di felicità rivolto a se stesso, a chi gli stava di fronte e al mondo intero.

Con questo giovanotto, un certo signor Mack, dopo aver ottenuto l'approvazione assoluta dello zio concordarono di andare a cavalcare insieme alle cinque e mezzo del mattino, o alla scuola d'equitazione o all'aperto. In verità Karl esitò ad acconsentire, poiché non aveva mai montato un cavallo e prima avrebbe voluto saper cavalcare un poco, ma dato che lo zio e Mack erano così persuasivi e gli presentavano la cosa come puro divertimento e sano esercizio e non certo come arte, alla fine cedette. Naturalmente doveva alzarsi già alle quattro e mezza, e questo spesso era un grosso sacrificio perché veniva colto da una forte sonnolenza, probabilmente in seguito all'attenzione costante che doveva applicare durante il giorno, ma il suo dispiacere spariva presto nella stanza da bagno. Il filtro della doccia erogava acqua per tutta la lunghezza e larghezza della vasca - quale suo compagno di scuola, anche se altrettanto ricco, possedeva una cosa simile, e inoltre tutta per sé? - e Karl vi stava disteso, in quella vasca poteva allargare le braccia, e si lasciava scorrere addosso, a piacere, i getti d'acqua tiepida, calda, di nuovo tiepida e infine gelida, che inondavano tutta la superficie o solo una parte della vasca. Stava lì disteso come se godesse ancora una sorta di prolungamento del sonno e aspettava con particolare piacere le ultime gocce d'acqua che gli cadevano sulle palpebre chiuse, poi si allargavano e scorrevano sul viso.

Nella scuola d'equitazione, dove lo lasciava l'imponente automobile dello zio, lo aspettava già il professore d'inglese, mentre Mack arrivava invariabilmente più tardi. Ma poteva anche arrivare più tardi senza preoccuparsi, perché il vero e proprio cavalcare cominciava soltanto con il suo arrivo. Non s'impennavano forse i cavalli ridestandosi dal loro dormiveglia, quando lui entrava, la frusta non schioccava con più vigore nell'aria, e nella balconata tutt'attorno non comparivano forse d'un tratto singoli visitatori, spettatori, stallieri, allievi della scuola di equitazione o altri ancora? Ma Karl utilizzava il tempo precedente l'arrivo di Mack per praticare qualche esercizio preparatorio, sia pure dei più elementari. C'era un uomo lungo lungo che con il braccio appena alzato arrivava già al dorso dei cavalli più alti, e che impartiva a Karl questa lezione, sempre della durata di un quarto d'ora appena. I risultati non erano straordinari, e di continuo, durante la lezione, Karl aveva l'occasione di imparare varie esclamazioni di disappunto in inglese gridate con ansia al suo professore, che era sempre appoggiato allo stipite della porta, per lo più bisognoso di sonno. Ma qualsiasi insoddisfazione a proposito del cavalcare spariva con l'arrivo di Mack. L'uomo alto veniva mandato via, e presto nella sala ancora immersa nella penombra non si sentivano che gli zoccoli dei cavalli al galoppo e si vedeva soltanto il braccio alzato di Mack, con cui dava un comando a Karl. Dopo una mezz'ora questo divertimento, che svaniva come un sonno, aveva termine. Mack aveva una gran fretta, si congedava da Karl, talvolta gli dava un buffetto sulla guancia, se era stato particolarmente contento di lui, e spariva, così in fretta da non uscire nemmeno dalla porta insieme a Karl. Quindi Karl saliva in automobile con il professore, e per andare all'ora di inglese spesso facevano un lungo giro, perché il tragitto attraverso il traffico della grande strada, che portava direttamente dalla casa dello zio alla scuola d'equitazione, avrebbe ichiesto troppo tempo. Del resto questo accompagnamento del professore d'inglese ebbe presto termine, poiché Karl, che si rimproverava di affaticare inutilmente quell'uomo stanco alla scuola di equitazione, tanto più che era molto semplice comunicare in inglese con Mack, pregò lo zio di sollevare il professore da questo dovere. Dopo qualche riflessione lo zio acconsentì anche a questa richiesta.

Ci volle invece un certo tempo prima che lo zio decidesse di permettere a Karl di dare anche soltanto un'occhiata alla sua ditta, sebbene Karl gliel'avesse chiesto più volte. Era una specie di ditta di commissioni e di spedizioni di un genere sconosciuto in Europa, a quanto ricordava Karl. Infatti la ditta svolgeva un commercio di commissione, che però non trasportava le merci dai produttori ai consumatori e neppure ai commercianti, ma si curava di fornire tutte le merci e le materie prime ai grandi cartelli industriali e di trasportarle dall'uno all'altro. Si trattava quindi di un'impresa che comprendeva acquisti, depositi, trasporti e vendite di portata gigantesca e che di continuo doveva mantenere contatti telefonici e telegrafici molto precisi con i clienti. La sala dei telegrafi non era più piccola, bensì più grande dell'ufficio telegrafico della città natale di Karl, dove lui era stato una volta per mano a un compagno di scuola che aveva là dei conoscenti. Nella sala dei telefoni, ovunque si guardasse, le porte delle cabine si aprivano e si chiudevano senza interruzione, e il continuo squillare confondeva la testa. Lo zio aprì la porta più vicina e nella scintillante luce elettrica apparve un impiegato, indifferente al rumore della porta, con la testa stretta entro una banda d'acciaio che gli premeva i ricevitori contro le orecchie. Il suo braccio destro era posato su un tavolino come se fosse stato particolarmente pesante, e soltanto le dita che tenevano il lapis guizzavano con una regolarità e una rapidità quasi sovrumane. Le parole che diceva nel megafono erano molto poche, e spesso si vedeva anche che avrebbe avuto qualcosa da obiettare nei confronti di chi parlava, che avrebbe voluto chiedergli qualcosa di più preciso, ma alcune parole che udiva lo costringevano ad abbassare gli occhi e a scrivere prima di poter mettere in pratica il suo proposito. E non occorreva neppure che parlasse, come spiegò a bassa voce lo zio a Karl, perché le comunicazioni ricevute da quell'uomo erano ricevute contemporaneamene da altri due impiegati e quindi messe a confronto, sicché gli errori erano quasi del tutto esclusi.

Nello stesso momento in cui Karl e lo zio uscivano dalla porta, vi scivolò dentro un praticante che tornò subito fuori con degli appunti scritti nel frattempo. In mezzo alla sala c'era un continuo andirivieni di gente che correva qua e là. Nessuno salutava, il saluto era stato abolito, ognuno si adattava al passo di chi lo precedeva e guardava il pavimento, su cui cercava di camminare con la maggior velocità possibile, o fermava lo sguardo su qualche singola parola o numero delle carte che teneva in mano e che sventolavano mentre correva.

«Hai fatto davvero molta strada», disse Karl una volta in uno di questi corridoi della ditta, per visitare la quale occorrevano molti giorni, anche se si voleva dare soltanto un'occhiata a ogni reparto.

«E devi sapere che ho messo in piedi tutto da solo trent'anni fa. A quel tempo avevo una piccola azienda nel quartiere del porto, ed era molto se si scaricavano cinque casse al giorno, e io tornavo a casa gonfio d'orgoglio. Oggi possiedo i miei magazzini al porto, sono i terzi per grandezza e quel deposito è la sala da pranzo e la stanza degli attrezzi del sessantacinquesimo gruppo dei miei facchini».

«Sembra quasi miracoloso», disse Karl.

«Tutti gli sviluppi qui sono così rapidi», disse lo zio troncando il discorso.

Un giorno lo zio arrivò poco prima dell'ora di cena, che Karl come al solito pensava di consumare da solo, e lo invitò a vestirsi subito di nero per recarsi con lui alla cena cui avrebbero partecipato due suoi colleghi. Mentre Karl si cambiava nella stanza vicina, lo zio sedette alla scrivania e dette una scorsa al compito d'inglese appena terminato, batté la mano sul tavolo ed esclamò: «Davvero eccellente!».

All'udire quella lode Karl riuscì senz'altro a vestirsi con più cura, ma in effetti era già abbastanza sicuro del suo inglese.

Nella sala da pranzo dello zio, che Karl ricordava ancora dalla prima sera del suo arrivo, due signori grandi e grossi si alzarono per salutare, l'uno un certo Green, l'altro un certo Pollunder, come risultò dalla conversazione a tavola. Lo zio soleva dire poche parole a proposito dei conoscenti, lasciando sempre a Karl il compito di osservare da sé quanto era necessario o interessante. Durante la cena vera e propria furono discusse soltanto questioni d'affari personali, cosa che per Karl costituì una buona lezione d'espressioni commerciali, e i commensali lasciarono che Karl consumasse in silenzio il suo pasto, come un bambino che prima di tutto deve saziarsi a dovere, quindi il signor Green si chinò verso Karl, e sforzandosi in modo evidente di parlare un inglese il più chiaro possibile, gli chiese quali fossero in generale le sue prime impressioni sull'America. Nel silenzio assoluto, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata allo zio, Karl rispose con una certa dovizia di particolari e fece il possibile per rendersi gradito, usando alcune espressioni colorite proprie di New York. A una di queste sue espressioni tutti e tre i signori risero forte, e già Karl temeva di aver commesso un errore grossolano, ma al contrario, come spiegò il signor Pollunder, aveva persino detto qualcosa di molto riuscito. Sembrava proprio che questo signor Pollunder trovasse Karl particolarmente simpatico, e mentre lo zio e il signor Green tornavano a discutere d'affari, il signor Pollunder invitò Karl ad avvicinarsi a lui con la sua sedia, e dapprima gli fece una quantità di domande sul suo nome, sulla sua provenienza e sul suo viaggio, sinché infine, per lasciar riposare Karl, ridendo, tossendo e anche in gran fretta gli raccontò di sé e di sua figlia, con cui abitava in una piccola villa di campagna nei pressi di New York, dove però lui poteva trascorrere soltanto la sera, poiché era un banchiere e la sua professione lo tratteneva tutto il giorno in città. Karl fu anche subito invitato con la massima cordialità a fargli visita n questa villa, poiché un americano novello come Karl talvolta doveva sentire senz'altro il bisogno di riposarsi da New York. Karl pregò subito lo zio di poter accettare questo invito e lo zio sembrò concederglielo di buon grado, senza però fissare una data precisa o almeno discuterne, come Karl e il signor Pollunder si erano aspettati.

Ma già il giorno seguente Karl fu chiamato in uno degli uffici dello zio (solo in quella casa lo zio aveva dieci uffici diversi), dove trovò lo zio e il signor Pollunder seduti in poltrona, piuttosto silenziosi.

«Il signor Pollunder», disse lo zio, riconoscibile a stento nella penombra della stanza, «il signor Pollunder è venuto per portarti con sé nella sua villa, secondo gli accordi di ieri».

«Non sapevo che fosse già per oggi», rispose Karl, «altrimenti mi sarei preparato».

«Se non sei preparato, potremmo rimandare la visita ai prossimi giorni», replicò lo zio.


Date: 2015-12-18; view: 658


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