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UNA VILLA NEI PRESSI DI NEW YORK 6 page

«Deve salutarla», gli fece eco il signor Pollunder, che si era alzato anche lui. Si sentiva che queste parole non gli uscivano dal cuore, lasciava pendere le mani lungo i fianchi e continuava ad abbottonare e a sbottonare la giacca, che secondo la moda del momento era molto corta e arrivava appena ai fianchi, quindi non era certo adatta a un uomo grosso come il signor Pollunder. Del resto, quando stava così vicino al signor Green, si aveva la chiara impressione che la sua pinguedine fosse malsana; la sua schiena massiccia era un po' curva, il ventre aveva un aspetto molle e flaccido, come se fosse un vero e proprio peso, e il viso appariva pallido e tormentato. Invece il signor Green era forse anche più grasso del signor Pollunder, ma era di una grassezza solida e compatta, i suoi piedi erano rigidamente uniti alla maniera dei soldati, la sua testa dritta e agile; sembrava un grande ginnasta, un vero e proprio maestro.

«Dunque per prima cosa vada dalla signorina Klara», continuò il signor Green. «Le farà senz'altro piacere ed è in perfetto accordo con il mio programma. In effetti, prima che lei se ne vada da qui, ho qualcosa di interessante da dirle, qualcosa che può essere molto importante anche per il suo ritorno. Ma purtroppo sono costretto da un ordine superiore a non dirle nulla prima di mezzanotte. Come può immaginare, dispiace anche a me, perché ritarda il momento del mio riposo, ma voglio tener fede al mio incarico. Ora sono le undici e un quarto, posso dunque terminare la mia discussione d'affari con il signor Pollunder, e lei, che con la sua presenza disturberebbe soltanto, può trascorrere un momento piacevole con la signorina Klara. Alle dodici in punto si presenti qui, dove le comunicherò il dovuto».

Karl non poteva non acconsentire: lo esigevano un minimo di gentilezza e di gratitudine per il signor Pollunder, tanto più che la richiesta gli veniva da un uomo in genere indifferente e rozzo, mentre il signor Pollunder, l'interessato, era estremamente discreto nelle parole e negli sguardi. E qual era la cosa interessante, che avrebbe saputo soltanto a mezzanotte? Dato che ritardava di tre quarti d'ora il suo ritorno a casa, anziché anticiparlo, lo interessava poco. Ma soprattutto si chiedeva se doveva andare da Klara, che era senz'altro sua nemica. Se almeno avesse avuto con sé lo scalpello, che lo zio gli aveva regalato come fermacarte! La stanza di Klara poteva essere un antro davvero pericoloso. Ma ora era del tutto impossibile dire la minima cosa contro Klara, perché era la figlia di Pollunder, e, come aveva appena saputo, anche la fidanzata di Mack. Se solo si fosse comportata in modo un po' diverso con lui, l'avrebbe ammirata sinceramente per le sue relazioni. Ma già mentre faceva tutte queste riflessioni, si accorse che erano inutili, perché Green aprì la porta e disse al servitore, che subito scattò dal piedistallo: «Accompagni questo giovanotto dalla signorina Klara».



«Così si eseguono gli ordini», pensò Karl, mentre il servitore lo guidava verso la stanza di Klara per una via molto più breve, quasi di corsa e ansimando per l'età. Passando davanti alla sua stanza, la cui porta era ancora aperta, Karl voleva entrare un momento, forse per tranquillizzarsi. Ma il servitore lo trattenne.

«No», disse, «deve andare dalla signorina Klara, l'ha sentito anche lei».

«Vorrei stare nella mia stanza solo per un momento», disse Karl, meditando di stendersi un poco sul divano per distrarsi e per far passare più in fretta il tempo fino a mezzanotte.

«Non mi renda più difficile il mio compito», disse il servitore.

«La mia visita alla signorina Klara gli sembra quasi una punizione», pensò Karl facendo qualche passo, ma fermandosi subito dopo per dispetto.

«Venga dunque, signorino», disse il servitore, «tanto ormai è arrivato. Voleva andar via questa notte, ma non tutto va secondo i desideri, gliel'avevo già detto che sarebbe stato difficile».

«Sì, voglio andarmene e me ne andrò», disse Karl, «ora voglio solo salutare la signorina Klara».

«Ah, sì?» disse il servitore, e Karl gli lesse in viso che non credeva una parola. «E allora, perché non lo fa subito? Venga, dunque».

«Chi c'è nel corridoio?» risuonò la voce di Klara, e la si vide sporgersi da una porta vicina, con in mano una grande lampada da tavolo dal paralume rosso. Il servitore si avviò in fretta verso di lei e riferì la sua comunicazione. Karl lo seguì lentamente.

«È venuto tardi», disse Klara.

Senza risponderle per il momento, Karl disse al servitore, a voce bassa ma in tono severo e imperativo, poiché ormai conosceva la sua natura: «Mi aspetti qui, davanti alla porta!».

«Stavo già per andare a dormire», disse Klara, e posò la lampada sul tavolo. Come aveva già fatto in sala da pranzo, anche qui il servitore chiuse con cautela la porta dall'esterno. «Sono già le undici e mezzo passate».

«Le undici e mezzo passate?» ripeté Karl in tono interrogativo, come spaventato da questi numeri. «Allora devo congedarmi subito, perché alle dodici in punto devo essere giù in sala da pranzo».

«Che affari urgenti ha!» disse Klara, sistemando distrattamente le pieghe della vestaglia aperta. Aveva il viso infuocato e continuava a sorridere. Karl cominciò a pensare che non c'era pericolo di litigare un'altra volta con Klara. «Non può suonare un poco il pianoforte, come mi ha promesso ieri papà, e oggi anche lei?».

«Ma non è già troppo tardi?» chiese Karl. Avrebbe voluto compiacerla, perché era molto diversa da prima, come se in un certo senso fosse entrata nella sfera di Pollunder e in quella futura di Mack.

«Sì, è davvero tardi», rispose, come se la voglia di ascoltare la musica le fosse già passata. «Poi qui ogni nota risuona in tutta la casa, sono convinta che se lei suona, si sveglia anche la servitù su in soffitta».

«Dunque è meglio che rinunci, tanto più che spero senz'altro di ritornare; tra l'altro, se non le è di troppo disturbo, venga una volta a trovare mio zio, e all'occasione dia un'occhiata anche alla mia stanza. Ho uno splendido pianoforte. Me l'ha regalato lo zio. Allora, se vuole, le suonerò tutti i miei pezzi: purtroppo non sono molti, e non sono neppure adatti a uno strumento così grande, che dovrebbe essere suonato soltanto da virtuosi. Ma potrà avere anche questo divertimento se mi avvisa prima della sua visita, perché lo zio vuole assumere per me un famoso maestro (può immaginare la mia gioia), e sentirlo la ricompenserà per essermi venuta a trovare durante l'ora della lezione. Se devo essere sincero, sono contento che sia troppo tardi, perché per ora so suonare pochissimo, si stupirebbe del poco che so. E adesso mi permetta di salutarla, perché tra l'altro è già ora di andare a dormire». E poiché Klara lo guardava con indulgenza e sembrava che non gli serbasse alcun rancore per la lite, le tese la mano sorridendo e aggiunse: «Al mio paese dicono: "Dormi bene e sogni d'oro"».

«Aspetti», disse lei senza dargli la mano, «forse potrebbe suonare comunque». E sparì attraverso una porticina laterale accanto al pianoforte.

«Che storia è questa?» pensò Karl. «Non posso aspettare tanto, anche se è così gentile». Si sentì bussare alla porta del corridoio e il servitore, che non osava spalancare la porta, bisbigliò attraverso una fessura: «Mi scusi, sono appena stato chiamato e non posso più aspettare».

«Vada pure», disse Karl, che pensava di poter ritornare da solo in sala da pranzo. «Mi lasci soltanto la lanterna davanti alla porta. Che ora è?».

«Quasi un quarto alle dodici», disse il servitore.

«Come passa lento il tempo!» disse Karl. Il servitore stava già chiudendo la porta quando Karl si ricordò che non gli aveva ancora dato la mancia, prese degli spiccioli dalla tasca dei pantaloni - ora portava sempre in tasca degli spiccioli sparsi che tintinnavano, secondo l'uso americano, mentre teneva le banconote nella tasca del gilè - e li porse al servitore dicendogli: «Per la sua gentilezza».

Klara era già ritornata, passandosi le mani tra i capelli ben pettinati, quando a Karl venne in mente che non avrebbe dovuto mandar via il servitore, perché adesso chi l'avrebbe accompagnato alla stazione della ferrovia urbana? Pazienza, forse il signor Pollunder ne avrebbe trovato un altro, o forse il servitore che era stato chiamato in sala da pranzo in seguito sarebbe stato disponibile.

«Mi suoni dunque qualcosa, per favore. Qui si sente così di rado la musica che non bisogna perdere l'occasione di ascoltarla».

«In tal caso è ora di cominciare», disse Karl, e senza esitare oltre si sedette al pianoforte.

«Vuole gli spartiti?» chiese Klara.

«Grazie, ma non so neppure leggere bene le note», rispose Karl mettendosi a suonare. Era una canzoncina che, come Karl sapeva, avrebbe dovuto essere suonata piuttosto lentamente per poter essere capita, soprattutto dagli stranieri, tuttavia la strimpellò in gran fretta a tempo di marcia. Quando ebbe finito, il silenzio della casa, che era stato infranto, risubentrò come una greve oppressione. Rimasero seduti con un certo impaccio, senza fare un movimento.

«Molto bella», disse Klara, ma non c'era formula di cortesia che potesse lusingare Karl, dopo aver suonato in quel modo.

«Che ora è?» chiese.

«Un quarto alle dodici».

«Allora ho ancora un po' di tempo», disse Karl, pensando tra sé: «O una cosa o l'altra. Non sono certo obbligato a suonarle tutte le dieci canzoni che conosco, però posso sempre cercare di suonargliene una bene». E attaccò la sua canzone militare prediletta. Suonava così lentamente, da provocare in chi l'ascoltava il desiderio quasi tormentoso di udire la nota successiva, che Karl teneva in sospeso ed eseguiva poi quasi a fatica. In effetti sempre, quando suonava, doveva prima cercare i tasti con gli occhi, ma per giunta si sentiva nascere dentro un tormento che si prolungava oltre la fine della canzone, cercava un'altra fine e non riusciva a trovarla. «Non so proprio suonare», disse Karl quando ebbe terminato, e guardò Klara con le lacrime agli occhi.

In quel momento dalla stanza accanto risuonò un forte applauso. «C'è qualcun altro che ascolta!» esclamò Karl con un sussulto.

«Mack», disse Klara a bassa voce. E già si sentiva Mack gridare: «Karl Rossmann, Karl Rossmann!».

Subito Karl scavalcò d'un balzo il seggiolino del pianoforte e aprì la porta.

Nell'altra stanza vide Mack semidisteso in un grande letto a baldacchino, con la coperta gettata sopra le gambe. Il baldacchino di seta blu era l'unico lusso un po' fiabesco di quel letto spigoloso, peraltro semplice, costruito in legno massiccio. Sul comodino c'era soltanto una candela accesa, ma le lenzuola e la camicia di Mack erano così bianche che alla luce della candela mandavano un riflesso quasi accecante; anche il baldacchino luccicava, per lo meno ai bordi, con la sua seta lievemente ondulata, non del tutto tesa. Ma appena dietro a Mack il letto e tutto il resto erano immersi nella totale oscurità. Klara si appoggiò alla colonnina del letto tenendo gli occhi fissi su Mack.

«Salve», disse questi tendendo la mano a Karl. «Lei suona proprio bene, finora conoscevo solo la sua abilità di cavallerizzo».

«Sono scadente in entrambe le cose», disse Karl. «Se avessi saputo che lei stava ascoltando, non avrei certo suonato. Ma la sua...» si interruppe, esitava a dire «fidanzata», perché evidentemente Mack e Klara dormivano già insieme.

«Del resto lo sospettavo», disse Mack, «per questo Klara ha dovuto attirarla qui da New York, altrimenti non sarei riuscito a sentirla suonare. Certo, suona da principiante, e anche in queste canzoni, che lei ha senz'altro studiato e che sono molto elementari, ha fatto qualche errore, tuttavia mi ha fatto molto piacere sentirla, a parte il fatto che non disprezzo nessuno quando suona. Ma non vuole sedersi e restare con noi ancora un poco? Klara, dagli una sedia».

«Grazie», disse Karl esitando. «Non posso restare, anche se mi farebbe piacere. Ho visto troppo tardi che in questa casa ci sono stanze così confortevoli».

«Sto facendo ricostruire tutto in questo modo», disse Mack.

In quel momento risuonarono dodici rintocchi uno dopo l'altro, molto rapidi, ognuno ancora nell'eco del precedente. Karl sentiva quasi alitare sulle guance lo spostamento d'aria causato dalle campane. Chissà com'era un villaggio che aveva simili campane!

«È ora che vada», disse Karl, tese soltanto la mano a Mack e a Klara senza stringere la loro e corse fuori sul corridoio. Lì non trovò la lanterna e rimpianse di aver dato la mancia al servitore troppo presto. Tastando la parete, cercava di trovare la porta aperta della sua stanza, ma era appena a metà strada quando vide il signor Green dirigersi oscillando verso di lui a passo di corsa, tenendo alta una candela. Nella mano che reggeva la candela c'era anche una lettera.

«Rossmann, perché non viene? Perché mi fa aspettare? Che cosa ha combinato con la signorina Klara?».

«Troppe domande!» pensò Karl, «e per giunta adesso mi spinge anche contro la parete», perché in effetti Green stava addosso a Karl, che era appoggiato con la schiena contro la parete. In quel corridoio Green appariva di un'enormità quasi grottesca, e Karl si chiese scherzosamente se non avesse per caso divorato il buon signor Pollunder.

«Non si può dire che lei sia un uomo di parola. Promette di scendere alle dodici e invece sta qui ad aggirarsi intorno alla porta della signorina Klara, mentre io le avevo promesso qualcosa d'interessante per mezzanotte e quindi eccomi qua». Così dicendo porse la lettera a Karl. Sulla busta era scritto: «A Karl Rossmann, da consegnarsi personalmente a mezzanotte, dovunque si trovi».

Mentre Karl apriva la lettera, il signor Green disse: «Dopo tutto mi sembra già apprezzabile esser venuto fin qui da New York per causa sua, quindi lei non dovrebbe costringermi anche a inseguirla per i corrodoi».

«È dello zio!» disse Karl, subito dopo aver dato un'occhiata alla lettera. «Me l'aspettavo», disse rivolto al signor Green.

«Che lei se l'aspettasse o no, mi è del tutto indifferente. Ma la legga!» disse, tendendo a Karl la candela.

Alla sua luce Karl lesse:

«Caro nipote! Come avrai già notato durante il nostro periodo di convivenza, purtroppo breve, io sono essenzialmente un uomo di principi. Ed è molto difficile e triste non soltanto per coloro che mi circondano, ma anche per me. Però ai miei principi devo tutto quello che sono, e nessuno può pretendere che io rinneghi me stesso sparendo dalla faccia della terra, nessuno, neanche tu, mio caro nipote, anche se proprio tu saresti il primo della fila - posto che mai mi venisse in mente di tollerare un attacco generale contro di me. Allora saresti proprio tu quello che afferrerei e alzerei di peso, con queste due mani con cui tengo la carta e scrivo. Ma poiché al momento nulla lascia supporre che questo un giorno possa accadere, dopo ciò che è accaduto oggi sono costretto ad allontanarti da me, e ti prego vivamente di non cercarmi più e di non tentare di metterti in contatto con me, né per lettera né tramite intermediari. Stasera hai deciso di allontanarti da me contro la mia volontà, e dunque attieniti a questa decisione per tutta la vita, perché solo così sarà una decisione virile. Ho scelto come latore di questa notizia il signor Green, il mio migliore amico, il quale senz'altro troverà per te le opportune parole di consolazione, che in effetti al momento io non so trovare. È un uomo influente, e se non altro per amor mio ti aiuterà nei primi passi della tua vita indipendente con le parole e con i fatti. Per poter capire la nostra separazione, che ora, alla fine di questa lettera, mi sembra inconcepibile, devo continuare a ripetermi: dalla tua famiglia, Karl, non viene niente di buono. Se il signor Green dimenticasse di consegnarti la valigia e l'ombrello, ricordaglielo. Con i migliori auguri per il tuo futuro,

il tuo fedele zio Jakob».

«Ha finito?» chiese Green.

«Sì» disse Karl. «Mi ha portato la valigia e l'ombrello?» chiese poi.

«Eccola», disse Green, e posò a terra vicino a Karl la vecchia valigia che finora aveva tenuto nascosta dietro la schiena con la mano sinistra.

«E l'ombrello?» chiese ancora Karl.

«C'è tutto», disse Green, e prese anche l'ombrello, che aveva appeso a una tasca dei pantoloni. «Li ha portati un certo Schubal, un capo macchinista della linea Amburgo-America, che dice di averli trovati sulla nave. Se le capita, lo può ringraziare».

«Almeno ho ricuperato il mio equipaggiamento», disse Karl, posando l'ombrello sulla valigia.

«Ma in avvenire deve curarsene di più, le manda a dire il signor senatore», osservò il signor Green, e poi chiese, evidentemente per curiosità personale: «Come mai ha una valigia così strana?».

«È la valigia usata dai soldati del mio paese quando partono per il servizio militare», rispose Karl, «è la vecchia valigia di mio padre. Del resto è molto pratica», aggiunse sorridendo, «sempre che uno non la dimentichi da qualche parte».

«Credo che lei abbia imparato abbastanza», disse il signor Green, «e non avrà certo un altro zio in America. Eccole anche un biglietto di terza classe per San Francisco. Ho pensato a questo viaggio per lei perché in primo luogo nell'ovest avrà molte più possibilità di guadagnare, e in secondo luogo qui suo zio è coinvolto in tutti i lavori che lei potrebbe prendere in considerazione, e un vostro incontro va assolutamente evitato. A San Francisco potrà lavorare con la massima tranquillità; incominci pure con i lavori più umili e poi cerchi di farsi strada a poco a poco».

Karl non sentì alcuna cattiveria in queste parole; la cattiva notizia che il signor Green aveva tenuto nascosta tutta la sera, era stata trasmessa e ora il signor Green sembrava innocuo, anzi, forse si poteva parlare più apertamente con lui che con chiunque altro. Anche l'uomo migliore, che senz'alcuna colpa da parte sua sia stato scelto come messaggero di una decisione così segreta e tormentosa, sembra sempre sospetto, finché la tiene per sé. «Lascerò subito questa casa», disse Karl, in attesa di una conferma da quell'uomo esperto, «perché sono stato accolto qui soltanto come nipote dello zio, mentre come estraneo non ho più motivo di restare. Sarebbe così gentile da indicarmi l'uscita e mettermi sulla strada che porta alla locanda più vicina?».

«Però si sbrighi», disse Green. «Lei mi procura non poche seccature».

Vedendo che Green si era avviato subito a grandi passi, Karl si fermò, perché quella fretta gli sembrava sospetta, e prendendo Green per il fondo della giacca capì all'improvviso come stavano i fatti e disse: «Deve ancora spiegarmi una cosa: sulla busta della lettera che lei doveva consegnarmi c'è scritto soltanto che devo riceverla a mezzanotte, dovunque mi trovi. E allora perché mi ha trattenuto qui con il pretesto di questa lettera, quando io volevo andarmene già alle undici e un quarto? Lei ha ecceduto nel suo incarico».

Green fece subito un gesto con la mano per indicare con enfasi l'inutilità dell'appunto di Karl, quindi rispose: «C'è forse scritto sulla busta che devo affannarmi come un pazzo a causa sua, e il contenuto della lettera indica forse che la scritta dev'essere interpretata così? Se non l'avessi trattenuta, avrei dovuto consegnarle la lettera a mezzanotte sulla strada maestra».

«No», disse Karl irremovibile, «non è proprio così. Sulla busta c'è scritto: "Da consegnarsi a mezzanotte". Se lei fosse stato troppo stanco, forse non avrebbe neppure potuto seguirmi, o forse io a mezzanotte sarei già stato da mio zio, sebbene il signor Pollunder l'abbia negato, oppure lei, come in fondo sarebbe stato suo dovere, avrebbe potuto riaccompagnarmi da mio zio con la sua automobile, di cui tutt'a un tratto non si è parlato più, dal momento che avevo manifestato il desiderio di ritornare. La scritta sulla busta non dice forse molto chiaramente che la scadenza era per mezzanotte? E se io non l'ho rispettata, la colpa è sua».

Karl guardò fisso Green e riconobbe senz'ombra di dubbio che era combattuto tra la vergogna di essere stato smascherato e la gioia di essere riuscito nel suo intento. Infine si dominò e disse in un tono come se avesse interrotto il discorso di Karl, che invece stava zitto già da tempo: «Non una parola di più!». E lo spinse fuori, con la valigia e l'ombrello già in mano, da una porticina di fronte a lui.

Con suo stupore, Karl si trovò all'aperto. Davanti a lui una scala senza ringhiera annessa alla casa conduceva in giardino. Si limitò a scendere e svoltò un poco a destra fino a raggiungere il viale che portava alla strada maestra. Alla luce chiara della luna non ci si poteva sbagliare. Sotto, in giardino, sentì abbaiare più volte dei cani che correvano liberi nel buio tra gli alberi. Nel silenzio che lo circondava si sentiva distintamente il frusciare dell'erba dopo i loro salti.

Senza essere disturbato dai cani, Karl uscì finalmente dal giardino. Non riusciva a stabilire con certezza in che direzione si trovasse New York. Durante il viaggio di andata non aveva prestato molta attenzione ai particolari, che ora avrebbero potuto essergli utili. Infine si disse che non era obbligato a recarsi a New York, dove non lo aspettava nessuno, anzi, c'era persino qualcuno che non voleva vederlo. Scelse quindi una direzione qualunque e si mise in cammino.

 

VERSO RAMSES

 

Nella piccola locanda in cui arrivò dopo un breve cammino e che in realtà era soltanto un'ultima piccola stazione di sosta per il traffico dei veicoli in arrivo e in partenza da New York e quindi di rado veniva usata per trascorrervi la notte, Karl chiese il letto più economico che si poteva avere, poiché pensava di dover cominciare subito a risparmiare. Alla sua richiesta il locandiere gl'indicò con un cenno, come se lui fosse un suo dipendente, di salire la scala, dove lo ricevette una donna anziana dai capelli arruffati, seccata perché il suo sonno era stato interrotto, e quasi senza ascoltarlo, tra continue esortazioni a non far rumore, lo condusse in una stanza, chiudendo poi la porta non senza prima averlo ammonito con un ultimo sst!.

In un primo momento Karl non riuscì a capire se le tende della finestra erano calate o se la stanza era del tutto priva di finestre, tanto era buio, ma poi vide un finestrino coperto da un panno che tirò da parte, lasciando entrare un po' di luce. La stanza era dotata di due letti, che però erano già occupati. Karl vide due giovani immersi in un sonno profondo che gl'ispirarono poca fiducia, soprattutto perché, senza un motivo comprensibile, dormivano vestiti; uno indossava persino le scarpe.

Nel momento in cui Karl scoprì il finestrino, uno dei due addormentati alzò un poco le braccia e le gambe in modo così buffo che Karl, nonostante le sue preoccupazioni, rise fra sé.

S'accorse subito che, a prescindere dal fatto che non c'era altro luogo ove dormire, né un divano né un sofà, non sarebbe riuscito a prender sonno, perché non poteva rischiare di perdere la valigia appena ritrovata e il denaro che portava con sé. Ma non voleva neppure andarsene, perché non osava lasciare subito la casa passando davanti alla donna e al locandiere. E poi forse quel luogo non era più pericoloso della strada maestra. Certo era ben strano che in tutta la stanza, come risultava da quel poco di luce, non ci fosse un solo bagaglio. Ma forse, anzi con tutta probabilità, i due giovani erano i servitori, che dovevano alzarsi presto per via dei clienti e quindi dormivano vestiti. Non era certo un onore dormire con loro, ma in compenso era meno pericoloso. Comunque non si sarebbe assolutamente messo a dormire finché non avesse chiarito i suoi dubbi.

Sotto il letto c'era una candela con i fiammiferi, che Karl andò a prendere a passi furtivi. Non si fece scrupolo di accendere la luce perché il locandiere aveva assegnato la stanza a lui come agli altri due, che oltretutto avevano già dormito tranquilli per metà della notte e rispetto a lui avevano il vantaggio incomparabile di possedere un letto. Tuttavia fece il possibile per non svegliarli, muovendosi per la stanza con una certa cautela.

Anzitutto volle esaminare la sua valigia per ricontrollare le sue cose che ricordava in modo vago, e anche perché aveva motivo di temere che almeno quelle più importanti potessero mancare. Infatti quando uno come Schubal mette le mani su qualcosa, c'è poca speranza di riaverla intatta. A dire il vero dallo zio si era aspettato una grossa mancia, e se poi fosse mancato qualche oggetto, avrebbe sempre potuto dirsi che il responsabile era il vero custode della valigia, il signor Butterbaum.

Non appena aprì la valigia Karl inorridì. Quante ore aveva impiegato durante la traversata a ordinare e riordinare la valigia, e ora tutto era stato stipato dentro in un tale disordine che quando aprì la serratura il coperchio scattò in alto da sé.

Ma subito Karl vide con gioia che il disordine era dovuto a un solo motivo: nella valigia avevano messo anche il vestito da lui indossato durante la traversata, e che prima ovviamente non era stato calcolato. Non mancava proprio niente. Nella tasca segreta della giacca c'erano non soltanto il passaporto, ma anche il denaro portato da casa, per cui, se Karl vi aggiungeva quello che aveva in tasca, per il momento ne aveva più che a sufficienza. Trovò anche la biancheria indossata al momento dell'arrivo, ben lavata e stirata. Subito nascose l'orologio e il denaro nella fida tasca segreta. L'unico fatto spiacevole era che il salame veronese, ancora al suo posto, aveva trasmesso il suo odore a ogni cosa. Se non fosse riuscito a eliminarlo in qualche modo, Karl aveva la prospettiva di andare in giro per mesi avvolto in quell'odore.

Mentre cercava alcuni oggetti che si trovavano sul fondo - e cioè una Bibbia tascabile, il pacco delle lettere e le fotografie dei genitori - il berretto gli cadde dalla testa e andò a finire nella valigia. Vedendolo tra le cose familiari lo riconobbe subito, era il suo berretto, il berretto che la madre gli aveva dato per il viaggio. Ma aveva avuto l'avvertenza di non indossare quel berretto sulla nave poiché sapeva che in America si porta più il berretto che il cappello, per cui non aveva voluto sciuparlo prima dell'arrivo. E senza dubbio il signor Green l'aveva usato per divertirsi alle spalle di Karl. Chissà, forse era stato lo zio a suggerirglielo. Fece un brusco movimento e senza volerlo toccò il coperchio della valigia, che si chiuse da sé con rumore.

Non c'era più niente da fare, i due addormentati erano ormai svegli. Uno dei due si stirò e sbadigliò, e subito dopo anche l'altro. Intanto quasi tutto il contenuto della valigia era rovesciato sul tavolo: se erano ladri, non avevano che da avvicinarsi al tavolo e scegliere. Non soltanto per timore di questa possibilità, ma anche per mettere subito le cose in chiaro, Karl si diresse verso i letti con la candela in mano e spiegò con quale diritto si trovasse lì. La spiegazione sembrò giungere inaspettata ai due, che si limitarono a guardarlo senza dar segno di stupore, ancora troppo assonnati per poter parlare. Erano entrambi molto giovani, ma il duro lavoro e la miseria avevano scavato i loro visi anzitempo, la loro barba era in disordine, i capelli lunghi tutti arruffati, e ora sfregavano e premevano con le nocche delle dita gli occhi infossati cercando di svegliarsi.

Karl pensò di approfittare della loro momentanea debolezza e disse: «Mi chiamo Karl Rossmann e sono tedesco. Poiché abbiamo una stanza in comune, vi prego di dirmi anche il vostro nome e la vostra nazionalità. Voglio chiarire subito che non pretendo di avere un letto, perché sono arrivato tardi e comunque non ho intenzione di dormire. Inoltre non dovete impressionarvi per il mio bel vestito, perché sono molto povero e non mi aspetto niente».


Date: 2015-12-18; view: 625


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