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Il mito della giovinezza

1. I fattori culturali alla base del mito della giovinezza

Curiamo i nostri disagi psichici e non invece, come suggerisce Hillman, le "idee malate"con cui visualizziamo noi stessi e gli aspetti della nostra vita. Queste idee generano falsi miti. Uno di questi è il mito della giovinezza, idea malsana che accorcia la nostra vita in quel breve arco in cui siamo biologicamente forti, economicamente produttivi ed esteticamente belli, gettando nell'insignificanza e nella tristezza tutti gli anni che seguono questa età felice, la quale, una volta assunta come paradigma della vita, declina nella forma della triste sopravvivenza tutto il tempo che ancora ci resta. A sostegno del mito della giovinezza ci sono idee come il fattore biologico, economico ed estetico che, divenuti egemoni nella nostra cultura, gettano sullo sfondo tutti gli altri valori, per cui la vecchiaia appare inutile e l'inutilità si connette all'attesa della morte. Nasce da qui la tendenza, sempre più diffusa tra anziani, a non esporre la propria faccia o a nasconderla grazie agli interventi chirurgici o artifici della cosmesi. La maschera dietro cui si nasconde un volto, trattato con la chirurgia o con la cosmesi, è una falsificazione che lascia trasparire l'insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi con la propria faccia. Chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente all'erta per cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino. Ansia, ipocondria e depressione diventano le compagne di viaggio dei suoi giorni, mentre sue ossessioni sono specchio, bilancia, dieta, palestra, profumeria e quanto può dare l'illusione di ridurre la distanza dalla giovinezza. Quel che si nasconde dietro il culto del corpo è l'idea malata che la nostra cultura si è fatta della vecchiaia, come di un tempo inutile che ha nella morte il suo fine, in attesa del quale, grazie alla chirurgia e alla cosmesi, sopravvive tutta quella schiera di "mummie animate", come le chiama Hillman, di "paradossi sospesi" in quella zona crepuscolare in cui non si riesce a reperire altro senso se non l'attesa della morte. Basta guardare la televisione per accorgerci che tutta la religione della spontaneità, della libertà, della creatività, della giovinezza, della bellezza, della sessualità gronda del peso del produttivismo, anche le funzioni vitali si presentano immediatamente come funzioni del sistema. E così, anche nello splendore della sua bellezza e della sua giovinezza, il nostro corpo non riesce più a nascondere i segni univoci che lo marchiano, i bisogni indotti dalla nostra cultura e i desideri da essa manipolati, a cui il nostro corpo è stato piegato, e ridotto a supporto. Sarebbe opportuno, per Hillman, spostare questi tratti dal primo piano sullo sfondo e riordinare la scala delle priorità, perché, se è vero che la vecchiaia è un'afflizione, ci piacerebbe sapere se questa afflizione non è generata, o incrementata, dall'idea che ci siamo fatti della vecchiaia.



2. Le considerazioni di Freud e Jung sulla vecchiaia

Jung scrive: "Della salute non mi posso lamentare, e divento sempre più vecchio, con i miei migliori saluti". Dunque vecchiaia come destino biologico, ma anche storico-culturale, nonché differente da individuo a individuo. Ci ricorda Esiodo, chi aveva vissuto di più sapeva di più. Per questo "conoscere=ricordare", come annota Platone e il vecchio, nell'accumulo del suo ricordo, è ricco di conoscenza. Nel mondo antico la saggezza della vecchiaia era il risultato della concezione ciclica del tempo, che faceva del vecchio, che molto aveva visto, il depositario del sapere. Oggi con la concezione progressiva del tempo, la vecchiaia non è più deposito di sapere, ma ritardo, inadeguatezza. La prima destrutturazione è tra l'Io e il suo corpo: non più veicolo per essere al mondo ma ostacolo da superare per continuare a essere al mondo. Un mondo che, per il vecchio, perde la sua fisionomia, perché diminuisce o si interrompe, quel dialogo corpo-mondo. Seconda destrutturazione tra l'Io e il mondo circostante che impoverisce la relazione e rende convenzionale e perciò falsa l'affettività. Per Freud la vecchiaia segna il puro e semplice ritorno all'inorganico, avverte che negli anni della vecchiaia la pulsione di morte prevale su quella della vita. A caratterizzare quest'età non è la tristezza, ma noia perché, per quante novità succedano, scopri che ognuna di esse altro non è che una riformulazione di qualcosa di già visto. E questa noia disaffeziona dal tempo a venire e ti rende più familiare e quasi amica la fine. La saggezza, è la somma delle esperienze fatte che non puoi trasmettere, perché l'esperienza degli altri non serve a nessuno, tanto meno ai giovani che devono fare la propria.

3. Fenomenologia della vecchiaia

La vecchiaia, prima che un decadimento, è uno stile di vita imposto dagli altri, che ai vecchi concedono uno spazio espressivo molto ridotto. Il neuropsichiatra Mario Barucci, avanza l'ipotesi secondo cui le condizioni affettivo-emotive incidano sull'inizio dell'invecchiamento e sulla sua qualità. Per le culture primitive il vecchio era il depositario del sapere e dell'esperienza e, quando moriva, come dice Max Weber, moriva sazio e non stanco della vita. Oggi scienza e tecnologia possono sostituire con maggiore efficacia il ruolo del vecchio come depositario di informazioni. Dalla fotografia ai media, dai computer a internet, disponiamo di archivi di informazioni che spiazzano la saggezza senile che perciò diventa superflua e i vecchi, che non ne sono più i depositari, diventano inutili. Eppure, se nell'età della tecnica il vecchio è inutile per il suo patrimonio cognitivo, continua a essere significativo per il suo patrimonio etico-affettivo. Abbiamo quello che Barucci chiama invecchiamento psicologico dove l'efficienza cognitiva diminuisce e si estingue per mancanza di risposte affettivo-emotive. Negli ultimi tempi la vecchiaia è uscita dall’intimo delle persone che invecchiano, per diventare materia di pubblica discussione e riflessione, non perché siamo diventati più teneri con i vecchi e neppure perché la nostra cultura ha fatto cadere tutti i tabù, ma perché l'aumento della speranza di vita minaccia una catastrofe sociale dai devastanti effetti previdenziali, sanitari e assistenziali. Ma questo interessamento ai problemi della vecchiaia non deve trarre in inganno. I consigli, pianificazioni, ricette, farmaci non hanno come scopo quello di riportare il vecchio al centro, o almeno all'interno della dinamica sociale da cui è stato escluso, ma semplicemente quello di neutralizzarlo con una serie di comfort che lo fanno sentire solo e inutile come prima, ma accudito. Solo e inutile per il paradosso della vecchiaia: da un lato i progressi della medicina e delle condizioni sociali di vita hanno allungato la vecchiaia e accresciuto il numero dei vecchi, dall'altro il progresso tecnico che caratterizza la nostra cultura ha fatto del vecchio un incompetente, non più all'altezza dei tempi e quindi inutile.

4. La vecchiaia e la forza del carattere

James Hillman ne La forza del carattere prefigura un'altra prospettiva, là dove sostiene che il fine di invecchiare non è quello di morire, ma di svelare il nostro carattere che ha bisogno di una lunga gestazione per apparire, a noi stessi prima che agli altri, in tutta la sua singolarità. La mentalità che, connettendo la vecchiaia all'improduttività, all'emarginazione sociale e all'insignificanza, rende in Occidente la vecchiaia terribile, non solo per il singolo, ma anche per la società che si dà da fare per ridurre le cause dell'invecchiamento o ritardarne l'arrivo. Se nella vecchiaia possiamo conoscere quel che davvero in fondo siamo, "vecchio" non vuol più dire "rudere in attesa della morte", ma può assumere quel carattere unico e tipico delle cose che ammiriamo, nella loro unicità e non riproducibilità. Questo è il nesso vero da cogliere nella vecchiaia. "Invecchiando," per Hillman, "io rivelo il mio carattere, non la mia morte". E allora il lifting facciamolo non alla nostra faccia, ma alle nostre idee e scopriremo che tante idee convenzionali, che in noi sono maturate guardando ogni giorno in tv lo spettacolo della bellezza, della giovinezza, della sessualità e della perfezione corporea, in realtà servono per nascondere a noi stessi e agli altri la qualità della nostra personalità, a cui magari per tutta la vita non abbiamo prestato la minima attenzione, perché sin da quando siamo nati ci hanno insegnato che apparire è più importante che essere, con il risultato di rischiare di morire sconosciuti a noi stessi e agli altri.

5. La vecchiaia e la verità dell'amore

Che ne è dell'amore per il vecchio che, misconosciuto come soggetto erotico, può affidarsi solo alla memoria/ricordo/rimpianto? Per Sgalambro, né il fanciullo, né il giovane, né l'adulto hanno età perché "in essi la vita scorre come il corso di un fiume", solo il vecchio ha età, perché nel vecchio finisce il tempo intimo, il tempo vissuto, il tempo che scorre e al suo posto entra potente il tempo esterno, il tempo del mondo, il tempo della materia, il tempo che non passa, "il tempo che si scontra con l'individuo come tempo non suo", che scolpisce sulla faccia del vecchio il suo tratto metafìsico, non psicologico. Solo il vecchio ha età, perché in lui l'età non si evolve. E quindi la vecchiaia non è l'ultima tappa della vita, ma la prima e l'unica in cui si esce dal tempo proprio, dal tempo vissuto, per essere abbracciati dal tempo esterno, quello dell'orologio, quello del mondo che procede con regole sue e non più nostre. La figura del vecchio che Sgalambro ritrae: non il vecchio che aspetta la morte o decide la sua morte ma il vecchio "come essere terribile e noumenico", portavoce del "tempo del mondo", del "tempo perduto", del tempo che non è più. L'apice dell'amore è nella conoscenza del tempo, non del tempo passato che si avvinghia a quello futuro, ma di quel tempo dei tempi dove l'amore e la morte trovano il loro modo ineffabile di abbracciarsi finalmente senza maschere e fraintendimenti.

4. Il mito della felicità

1. L'utopia della felicità

La felicità attrae, non perché si conosce la sua forma o il suo contenuto, ma perché lo stato abituale di infelicità in cui gli uomini ritengono di trascorrere la loro vita è in grado di definirsi solo in relazione a quel balenare della felicità che talvolta tocca la vita come illusione di un giorno. 2 sono gli itinerari percorsi da Torno alla ricerca delle matrici dell'infelicità: l'itinerario della conoscenza e l'itinerario del desiderio. L'Occidente non ha ascoltato il messaggio della tragedia greca e perciò ha un tipo d'uomo che, promosso dalle esigenze del suo Io, ha innescato quel desiderio infinito, quell'eccesso di desiderio che, come insegna Freud, è macchina di dolore. Che dire allora di quelle ipotesi che spostano la felicità dall'individuo al sociale, dal chiuso dell'anima all'aperto della città o nella forma rivoluzionaria indicata da Marx o in quella utopica che il sogno rinascimentale di Campanella, Tommaso Moro e Bacone indicavano nella Città del sole, in Utopia e nella Nuova Atlantide? "Eu" è il prefisso che in greco indica tutto ciò che ha attinenza con la felicità, per concludere che: "Utopia" è un luogo che non esiste e per questo è felice; oppure: i luoghi felici sono solo quelli che non esistono. Le pagine di Torno sono percorse dal motivo secondo il quale la felicità dipende dall'idea che uno se ne fa e siccome le idee sono storiche e stratificate nel tempo, quando si parla di felicità o di infelicità si parla della cultura del tempo e all'interno di questa cultura, dei modi personali di sentirsi felici o infelici.

2. L'esperienza della felicità

Eppure la felicità esiste, scrive Natoli, "non perché gli uomini ne possiedono il concetto, ma perché talvolta ne sperimentano la condizione". Infatti: una volta vissuta, la felicità non può essere dimenticata. Eppure la felicità, prosegue Natoli, è più originaria del dolore perché è impossibile sperimentare una perdita là dove non c'è stato un possesso, così come non è possibile sperimentare la negatività là dove non c'è stata positività. In quanto evento che ci possiede, non possiamo definire la felicità, ma solo viverla. La felicità differisce dal dolore, pur essendo altrettanto coinvolgente. Chi soffre, infatti, non solo si interroga sulle ragioni del proprio soffrire, ma tramite la sofferenza eleva se stesso a problema e per tal via si interroga in sul senso dell'esistenza. Chi è felice ignora l'esistenza come problema, perché inerisce e aderisce per intero alla propria condizione e non ha motivo di rifiutarla. La felicità non dimenticata diventa un modello inconscio che ne motiva di nuovo la ricerca. "La cecità con cui il dolore colpisce è pari alla gratuità con cui la felicità è assegnata": la felicità non è mai sicura, così come il dolore non è mai definitivo. Entrambi accadono quando accadono e sono sottoposti al tempo che ci fa sopravvivere al dolore così come consuma la felicità. È allora possibile, seguendo il percorso di Natoli, descrivere le figure della felicità, intesa sia come esperienza sia come idea. Per i Greci la felicità consisteva nella capacità di controllare il proprio destino. "Eu-daimonía", come i Greci chiamavano la felicità, vuol dire "buon demone", in parte dato dalla sorte in parte acquisibile, adottando uno stile di vita capace di meritarsi lo sguardo benevolo del destino. Per i cristiani invece la felicità è proiettata nell'altro mondo e promessa a chi, attraverso il dolore, la guadagna in questo mondo. In pratica: accettazione dell'esistente con speranza di felicità futura. Per noi oggi, la felicità sembra collocarsi nella rivendicazione individuale, nell'affermazione di sé anche a scapito degli altri e nell'esercizio incondizionato della libertà intesa come revocabilità di tutte le scelte. Quindi una felicità del tutto individuale, dove il godimento privato del benessere e la concezione soggettiva di bene si affermano come misure non negoziabili di felicità. Per le neuroscienze, la felicità risulta dall’armonia dei 3 cervelli: quello rettiliano,(funzioni vitali del bere, mangiare, dormire e fare l'amore); quello limbico, (azioni che compiamo senza pensare); e infine quello corticale (con cui ragioniamo, calcoliamo, disegniamo, creiamo musica o poesia).

3. La misura della felicità

La felicità resta una condizione esistenziale a cui tutti ambiscono e incapaci di raggiungerla, attribuiscono il fallimento agli altri o alle circostanze esterne (amore, salute, denaro, aspetto fisico, lavoro, età) e a una serie di fattori su cui non esercitiamo alcun potere di controllo. Ciò ci induce a esonerarci dal compito di essere non felici o almeno propensi alla felicità, perché nulla possiamo fare di fronte alle circostanze che non dipendono da noi. Eppure la propensione alla felicità è accessibile a chiunque, a prescindere dalla sua ricchezza, condizione sociale, capacità intellettuali, condizioni di salute. Perché la felicità non dipende tanto dal piacere, dall'amore, dalla considerazione o dall'ammirazione altrui, quanto dalla piena accettazione di sé, che Nietzsche ha sintetizzato con: Diventa ciò che sei. Sembra un'ovvietà, ma non capita quasi mai, perché noi misuriamo la felicità non sulla realizzazione di noi stessi, ma sulla realizzazione dei nostri desideri, che formuliamo senza attenzione alle nostre capacità e possibilità di realizzazione. Non accettiamo il nostro corpo, il nostro stato di salute, la nostra età, la nostra occupazione, la qualità dei nostri amori, perché ci regoliamo sugli altri o sugli stereotipi che la pubblicità ci offre. Se l'infelicità è il risultato di un desiderio lanciato oltre le nostre possibilitààchi è infelice in qualche modo è colpevole, perché è lui stesso causa della sua infelicità, per aver coltivato un desiderio infinito e incompatibile con i tratti della sua personalità, che non si è mai dato la briga di conoscere. Le conseguenze dell’infelicità: ansia e depressione che diventano condizioni permanenti della nostra personalità, che abbassano il tono vitale della nostra esistenza o il nostro sistema immunitario, disponendoci alla malattia. Aristotele: la felicità si guadagna attenendosi alla giusta misura, che i Greci conoscevano perché si sapevano mortali e i cristiani conoscono meno perché ospitati da una cultura che vuole la felicità eterna. Non si può insegnare la felicità ma si possono insegnare le condizioni per il suo accadimento. Di questo si occupa la filosofia, nella modalità in cui i Greci l'hanno inaugurata innanzitutto come cura dell'anima e governo di sé.

4. La felicità come realizzazione di sé

Gli antichi Greci chiamavano la felicità eu-daimonía, con riferimento al daímon che ciascuno porta dentro di sé come qualità interiore. Se nel corso della vita il proprio demone ha una buona (eu) realizzazione si raggiunge la felicità (eu-daimonía), che dunque non risiede fuori di noi nel raggiungimento delle cose del mondo (piaceri, soddisfazioni, salute, prestigio, denaro), ma nella buona riuscita di sé, perché, come chiarisce Democrito: "Felicità e infelicità sono fenomeni dell'anima la quale prova piacere/dispiacere a esistere a seconda che si senta o non si senta realizzata”. La realizzazione di sé è dunque il fattore decisivo per la felicità. Ma per l'autorealizzazione occorre esercitare quella virtù capace di fruire di ciò che è ottenibile e di non desiderare ciò che è irraggiungibile: la "giusta misura". Per difendersi dall'infelicità causata dall'eccesso del desiderio sono nate 2 morali, stoica e cristiana. La morale stoica tende all'ataraxía, quell'impassibilità che si può raggiungere eliminando il desiderio e instaurando la volontà come capacità di non desiderare. L'ideale etico cristiano, non soddisfatto dei beni e dei piaceri del mondo dove nulla è durevole, aspira a un bene eterno che, non essendo di questo mondo, è ipotizzato in un altro mondo ed è raggiungibile solo con la pratica ascetica del sacrificio e della rinuncia. Quel che manca, sia alla morale stoica sia alla cristiana è "la giusta misura" che tiene lontano l'uomo da ogni eccesso e lo rende capace di raggiungere i beni ottenibili e di rinunciare a quelli impossibili. Non dunque una felicità come soddisfazione del desiderio e neppure una felicità come premio alla virtù, ma virtù essa stessa, come capacità di governare se stessi per la propria buona riuscita, perché questa è la misura dell'uomo.


Date: 2015-12-24; view: 716


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