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Il mito dell'intelligenza

1. La pluralità delle intelligenze

Quando si parla di una persona non si dovrebbe mai usare l'aggettivo intelligente perché la qualità che vorrebbe designare non ha significato univoco e perciò non è subito determinabile/misurabile. L'intelligenza non si dà in una forma unica, ma in una moltitudine di forme. È noto, ad esempio, che i superdotati vanno male a scuola, perché il modello di intelligenza che i professori e i programmi ministeriali hanno in mente e con cui vengono misurati i rendimenti scolastici è costruito sulla categoria della flessibilità, che nel caso dell'intelligenza equivale a mediocrità. "Flessibile" è infatti quell'intelligenza che, versata in ogni direzione, non presenta una particolare inclinazione per nulla. L'intelligenza convergente è quella forma di pensiero che non si lascia influenzare dall'immaginazione, ma tende all'univocità della risposta a cui tutte le problematiche vengono ricondotte, tipica dei creativi, capaci di soluzioni molteplici e originali perché, invece di accontentarsi della soluzione dei problemi, tendono a riorganizzare gli elementi, fino a ribaltare i termini del problema per dar vita a nuove ideazioni. Ogni forma di intelligenza, infatti, è percorsa dal genio, che non è una prerogativa solo di Leonardo da Vinci, ma di tutte le menti che sempre sono inclinate in una certa direzione a partire dalla quale scaturisce per ognuno la sua particolare ed esclusiva visione del mondo. L'intelligenza musicale materializza la geometria nel suono. Allo stesso modo c'è un'intelligenza linguistica per la quale le parole non hanno profondità, ma superficialità. C'è un'intelligenza logico-matematica che sulla terra non vede cose, ma analogie e rapporti per la quale le cose diventano rapporti e i numeri che li esprimono diventano la spiegazione del mondo. C'è anche un'intelligenza spaziale che dispiega un mondo che sfugge alle coordinate geometriche, per offrirsi alle azioni che disegnano quella spazialità visiva, sonora, emotiva che è anteriore alla distinzione dei sensi, perché il valore sensoriale di ogni elemento è determinato dalla sua funzione nell'insieme e varia con questa funzione. C'è poi un'intelligenza corporea che guarda il mondo non per scoprirlo, ma per abitarlo. C'è infine un'intelligenza psicologica, per la quale il mondo è uno specchio di sé. Agli uomini della scuola l'invito a non demolire quelle diverse forme di intelligenza in cui è custodito un potenziale di umanità diversa da quella oggi dispiegata sotto il segno della tecnica, che ci ha abituato a pensare in quel modo esclusivamente calcolante e funzionale a cui oggi sembra abbiamo ridotto l'uso dell'intelligenza. È necessario che la scuola, se non vuole mortificare le diverse forme di intelligenza, si declini al plurale e insegua, attraverso un'articolazione più aperta, tutte le forme di intelligenza in cui sono custodite quelle possibilità che, in un mondo sempre più strutturato in modo funzionale, diventano gli unici ricettacoli del senso. Un senso trovato in sé, nella forma della propria intelligenza.



2. La mimetizzazione dell'intelligenza

Se siamo tutti intelligenti, ognuno a suo modo, sarà tendenza di ciascuno mostrare la specificità della propria intelligenza. Il risultato di solito è: o la mortificazione di quanti sono costretti ad assistere all'esibizione dell'altrui abilità mentale o l'invidia che trova sfogo nella maldicenza intorno ad altri aspetti della personalità di chi fa sfoggio della propria intelligenza o infine il disinteresse per ciò che la persona intelligente va dicendo, creando un vuoto intorno al suo discorso che ricade su se stesso senza i riscontri attesi. È allora più intelligente non tanto chi eccelle in una determinata abilità mentale, ma chi è in grado di percepire in anticipo l'effetto che un'eventuale esibizione di intelligenza può produrre in chi ascolta. E siccome l'effetto è quasi sempre deprimente, più intelligente sarà chi è capace di mimetizzare la propria intelligenza. Mimetizzare la propria intelligenza significa allora saperne modulare l'espressione a seconda del contesto in cui ci si trova, percependo in anticipo il livello di comprensione di coloro che ci ascoltano e le possibili reazioni che l'intervento può produrre. A condizionare la comprensione non sono solo fattori culturali, ma soprattutto fattori emotivi, per cui, ad esempio, se una classe di studenti si sente amata dal suo professore l'apprendimento sarà facilitato, se un messaggio viene veicolato da un testimonial apprezzato dal pubblico, sarà più facilmente recepito. Ciò significa che un'intelligenza che si accompagna a una competenza emotiva riduce le sue possibilità enunciative a favore della trasmissibilità dei messaggi. In una parola, mimetizza la sua intelligenza a misura della recettività di chi ascolta, per favorire l'acquisizione delle informazioni. All'intelligenza che sa mimetizzarsi compete quella virtù altruismo, come percezione di ciò che è altro da me, perché consapevole che gli altri, con le loro obiezioni, possono costituire uno stimolo a un ulteriore ricercare e intendere e trovare. Dimensioni tutte impedite alle intelligenze narcisistiche che, non percependo nulla dell'altro, del suo livello di comprensione e del valore delle sue obiezioni (che i narcisisti scambiano per attacchi), irrigidiscono la loro intelligenza.

3. L'intelligenza informatica

La mimetizzazione dell'intelligenza non va confusa con quella mimesi o imitazione dell'intelligenza oggi rappresentata dall'intelligenza informatica. L'intelligenza informatica è, tra le forme di intelligenza, la più elementare, perché lavora con il più semplice dei codici: quello binario. Il guaio è che l'enorme influenza che la mentalità informatica esercita nei posti di lavoro e oggi anche nelle scuole, attiva quell'intelligenza binaria che rischia di diventare la più diffusa, se non l'unica forma di intelligenza, abilissima nel calcolo, ma sempre più in difficoltà a formulare un pensiero. Ciò che è inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Più inquietante è che l'uomo non è affatto preparato a questo mutamento del mondo, non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.

4. La capacità di "intendere e volere"

Che rapporto c'è tra intelligenza e follia? Che significato hanno queste 2 categorie "intendere" e "volere"? Anni di psichiatria hanno dimostrato che tutti i "malati di mente" sono in grado di "intendere" e "volere", salvo quando la loro mente è obnubilata da una crisi che può durare un attimo, alcuni giorni, alcuni mesi. Infermità mentale o seminfermità mentale, che si è soliti addurre per evitare l'ergastolo non significa nulla, perché "infermo" o "seminfermo" sono categorie che non appartengono neppure al repertorio medico, ma al linguaggio popolare. Se come insegna Eugenio Borgna, la "malattia mentale" non è una condizione stabile e definitiva che interdice perennemente la mente, impedendo alla persona di "intendere" e "volere", allora va ammesso che anche gli esecutori dei peggiori delitti "senza movente" dispongono della loro mente e della loro volontà, anche se in occasione del delitto non ne dispongono liberamente per l’influsso di passioni che, come insegna Platone "ottundono la mente". Le "passioni", infatti, come dice la parola, sono forze che si "patiscono" e che non sempre si riesce a dominare, come ognuno di noi sperimenta quando, in uno stato di crisi, compie atti inconsulti, pur essendo solitamente in grado di "intendere" e "volere". Una giustizia che non fa tesoro delle competenze scientifiche è una giustizia che finisce con l'essere "primitiva", perché si limita a soddisfare i sentimenti di vendetta o di risarcimento. Di fronte agli spettacoli truci che la cronaca ogni giorno riferisce, forse quel che più angoscia non è tanto la loro truculenza, quanto sapere se noi non siamo del tutto immuni dai moti d'animo che provocano queste tragedie. E il nostro linguaggio lo rivela quando si abbandona a espressioni che, senza freni, tradiscono i nostri vissuti carichi di odio. Ma dal linguaggio solitamente non passiamo all'azione. A fermarci non è tanto l'uso della ragione, già messa fuori gioco dall'odio, ma quella dimensione sentimentale che registra la differenza tra il bene e il male, tra la gravità di un'azione e la sua irrilevanza. Ed è grazie alla dimensione sentimentale che impediamo al nostro amore di soffocare e al nostro odio di uccidere. Psicopatia: termine coniato dalla psichiatria dell'800 per designare una psiche apatica, incapace di registrare, a livello emotivo, la differenza tra ciò che è consentito e ciò che è anomalo, tra un'azione senza conseguenze e un'azione irreparabile. Il sentimento è ciò che ci consente di distinguere cos'è bene e cos'è male, per cui Kant arriva a dire che è inutile definire cos'è buono e cos'è cattivo, perché ognuno lo "sente" da sé. Questo criterio, che valeva al tempo di Kant, oggi vale molto meno, perché gli stimoli sono eccessivi rispetto alla capacità di elaborarli. Illustrare questi casi è opportuno per capire dove può arrivare la nostra condotta quando non è accompagnata dal sentimento, e quindi richiamare l'attenzione sui processi di crescita dei figli, onde evitare che l'intelligenza si sviluppi disancorata dal sentimento e diventi intelligenza lucida, fredda, cinica, e potenzialmente distruttiva.

5. L'intelligenza del futuro

Howard Gardner, è persuaso che l'intelligenza convergente, tipica delle nostre scuole e a cui si uniformano gli insegnamenti previsti dai programmi ministeriali, non sia più sufficiente per affrontare le sfide del futuro. A suo parere il futuro richiederà la versatilità di 5 figure di intelligenza, a partire dall'intelligenza disciplinare che, con chiari messaggi che consentono di acquisire la differenza tra il vero e il falso, il reale e il fantastico, l'astratto e il concreto, si consegue nei primi 10 anni di vita. Su questa base deve impiantarsi l'intelligenza sintetica, capace di assemblare informazioni che provengono da più fonti in modo da pervenire a una sintesi unitaria. Acquisita la disciplina e la capacità di sintesi, resta da addestrare l'intelligenza creativa, che può essere allenata non ripetendo quello che il professore ha spiegato come avviene nelle interrogazioni, ma ponendo domande inusuali e non previste dal contesto culturale da cui si prendono le mosse, per sollecitare risposte inesplorate. L'intelligenza creativa non è in contrasto con l'intelligenza disciplinata, perché senza disciplina non si perviene alla creatività, ma si resta a quello stadio infantile che è la spontaneità. L'intelligenza creativa predispone all'intelligenza rispettosa, che è tale perché non teme e non si ripara di fronte alla differenza e all'alterità. Senza questa disposizione mentale nessun dialogo è possibile. Infine occorre promuovere l'intelligenza etica, che si fa carico delle esigenze della società.

Il mito della moda

1. Il simbolismo dell'abbigliamento

Hegel scrive che "vestire non è altro che ricoprire", ricoprire la materialità del corpo, che "in quanto semplicemente sensibile, è senza significato”. In realtà il corpo rappresenta il mondo non nascondendosi nelle vesti, ma esponendosi con una varietà di vesti che riproducono la varietà degli aspetti del mondo, per cui più congruo diventa l'abbigliamento, più chiara la corrispondenza corpo-mondo. Le vesti, adeguando l'identità corporea alla varietà degli aspetti mondani, sono uno dei più interessanti veicoli in cui il corpo manifesta la sua intenzionalità nel mondo e per il mondo. In origine l'abbigliamento era uniforme perché il mondo non era differenziato. La metamorfosi comincia quando il valore protettivo delle vesti cede il posto a quello simbolico, per cui ogni variazione delle vesti del corpo rinvia a una variazione del mondo."Facendo variare l'indumento," scrive Barthes, "si fa variare il mondo e viceversa" per cui, assistiamo, prima che a un gioco della moda, a un costante rapporto tra il segno vestimentario e il mondo significato da quel segno per cui, facendo variare l'indumento, il corpo che lo indossa fa variare il mondo. Le vesti significano il mondo, la sua storia, la sua geografia, la sua natura, la sua arte.

2. La valenza biologica ed etnica dell'abbigliamento

I segni vestimentari sono uno dei tratti biologici della specie umana con profondi legami con il mondo zoologico. La guerra, la conquista di una posizione gerarchica e l'amore condizionano l'abbigliamento di tutti i popoli. A questo proposito già Herbert Spencer aveva riconosciuto il ruolo importante rappresentato dal trofeo, per cui chi uccideva il proprio nemico appendeva al collo parti del suo corpo per ostentare la vittoriaà primi gradi di distinzione e di riconoscimento sociale. Si deve aggiungere il valore etnico che, sancisce l'appartenenza a un gruppo. Scegliere di vestirsi all'europea, ad esempio, è da almeno un secolo il segno di volere appartenere alla civiltà considerata egemone, se non addirittura alla personalità sociale idealmente umana. L'evoluzione tecnico-economica della civiltà industriale e post-industriale ha modificato il sistema tradizionale dei simboli per cui, con l'aumento della permeabilità sociale e l'influsso dei mezzi di comunicazione di massa, sono diminuiti i modelli etnici. La simbologia europea, infatti, ha sostituito un po' ovunque il tipo di abbigliamento regionale, provocando una sorta di disintegrazione etnica, che ha portato con sé la perdita di quei legami con la struttura di un gruppo all'interno del quale l'individuo era integrato. Individui, sempre meno legati alla loro tradizione, all'acquisizione di una coscienza planetaria con la conseguente perdita dei tratti tipici della propria etnia, alla riduzione dell'umanità a un solo tipo d'uomo sempre più identificato dalla sua funzione all'interno di apparati produttivi.

3. La valenza sociale dell'abbigliamento

Alla riduzione della valenza biologica ed etnica del segno vestimentario fa riscontro un incremento della sua valenza sociale, che fa dell'indumento l'espressione di una funzione o l'asserzione di un valore che rinviano al mondo istituzionalizzato in cui l'individuo è inserito. Fra le barriere infrante dall'indumento giovanile la più significativa è senz'altro quella che divide il maschile dal femminile. "L'abbigliamento femminile," osserva Barthes, "può assorbire quasi tutto quello maschile, mentre quello maschile respinge certi tratti di quello femminile, perché sulla femminilizzazione dell'uomo c'è ancora un divieto sociale." Il tabù dell'altro sesso non ha invece la stessa forza sul giovane che, a livello di abbigliamento, tende all'androgino.

4. La valenza seduttiva dell'abbigliamento

La seduzione si esercita lasciando vedere il nascosto o come dice Barthes "attraverso l'evidenza del sotto". La regola è "di far vedere il nascosto senza però distruggere il suo carattere segreto". Il sistema delle vesti gioca sulla fondamentale ambivalenza degli indumenti, incaricati di indicare una nudità nel momento stesso in cui la nascondono, di sottolineare i caratteri sessuali primari e secondari che ricoprono. Proprio per il fatto che il vestito copre, suscita il desiderio di scoprire. Se il corpo nudo è la realtà, il corpo che si lascia intravedere sotto la trasparenza delle vesti non è abbastanza definito per bloccar l'immaginazione, e non è abbastanza nascosto per non suscitarla. La trasparenza delle vesti non è quindi un percorso che, partendo dall'avidità del nostro sguardo, giunge a toccare il corpo dell'altro, ma è ciò che deopacizza il corpo dell'altro per trasformarlo in uno specchio che riflette il nostro desiderio. Sembra infatti che non possiamo conoscere i nostri desideri se il corpo dell'altro non ce li riflette, ma per questo è necessario che il corpo dell'altro rinunci alla sua opacità, che avidamente assorbe ogni sguardo senza restituirlo, e si faccia superficie di riflesso, in modo da consentire al desiderio di chi guarda di trasparire.

5. La valenza economica della moda

Il tema della seduzione oggi ha acquistato rilevanza perché il corpo è stato liberato da 2 catene che hanno sempre accompagnato il suo passo nella storia, che ha sempre conosciuto un corpo di fatica e un corpo di riproduzione. Maschile il primo, femminile il secondo, il corpo era segnato da queste 2 mansioni che scandivano il suo senso per la vita. Ora invece la sessualità è sempre meno legata alla riproduzione e la fatica è sempre più delegata alla macchina, per cui per il corpo, libero da codici, si apre un campo di libertà espressiva finora sconosciuta che la moda usa come energia produttiva, mettendo in scena lo spettacolo della se-duzione in vista della pro-duzione. Nella nostra società ogni corpo "liberato" è liberato solo perché è già stato catturato dalla rete del mercato e dall'ordine delle sue parole, che la moda diffonde allucinando il desiderio con bisogni da soddisfare quali bellezza, giovinezza, salute, sessualità, che sono poi i nuovi valori da vendere. Diventando cultura di massa, la moda, scrive Barthes, "dà in uso, a classi che non possiedono le disponibilità economiche per consumarli, prodotti di cui, molto spesso, esse non consumano che le immagini". La moda ricorre alla "parola mitica" per equiparare il nostro bisogno di beni con il bisogno dei beni di essere consumati. Per questo i suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che "non si può non avere". In una società opulenta come la nostra ogni invito della moda è un appello alla distruzione. La moda rende obsoleti i suoi prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un'esistenza, ma fin dall'inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la moda usa i consumatori come suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che è poi garanzia della sua immortalità.

6. L'onnipotenza della moda

La moda è una dea creatrice che può permettersi di parlare di corpi mal fatti perché ha l'onnipotenza di aggiustarli. L'indumento esprime "forze vestimentarie", come le chiama Barthes, slanciando corpi tarchiati, accorciando corpi alti, e riducendo quelli larghi, in modo che in nessun caso si oltrepassino le frontiere del tabù estetico. Su questa libertà gioca la moda e il suo potere di seduzione. Barthes, basta "un particolare per dare una personalità", la moda conferisce al nulla un potere semantico che si irradia a distanza fino a significare tutto, fino a "trasformare il fuori-senso in senso, il fuori-moda in moda".

7. La moda e i giochi di società

Giocando sulla psico-sociologia dei ruoli, la moda risolve problemi di identità: "se volete esser questo, vestitevi nel dato modo". E così, senza la fatica dell'azione, compie il miracolo per cui non è più necessario agire, ma è sufficiente vestirsi per esibire l'essere dell'azione senza assumerne la realtà.

8. La moda e i giochi di identità

Sartre osserva che come la persona produce l'indumento, nel senso che si esprime attraverso di esso, così l'indumento produce la persona, per cui trasformando l'indumento, si trasforma il proprio essere. Grossi problemi di identità si possono ludicamente risolvere componendo diversamente i tratti vestimentari, in modo da apparire contemporaneamente "dolci/fieri", "rigidi/teneri", "severi/disinvolti". Questi paradossi psicologici testimoniano un sogno di totalità dove non è necessario scegliere perché si può essere tutto. La moda dà un saggio della sua onnipotenza, "recupera il tema della maschera, attributo essenziale degli dèi", e la offre agli uomini. Giocando con le maschere senza rischio, perché il gioco delle vesti non è il gioco dell'essere, la moda scherza con il tema più grave della coscienza umana, il tema dell'identità, incessantemente proposto dall'interrogativo: "Chi sono?". Quali sono gli effetti della moda sulla costruzione e sul mantenimento dell'identità personale? Disastrosi, perché là dove le cose perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e con il mondo la nostra identità. Privi di consistenza, di durata, e al limite di utilità, i prodotti della moda esistono solo per essere consumati e, dove resistono al consumo, per essere sostituiti da prodotti "nuovi e migliori" che l'innovazione tecnologica porta con sé. L'individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quell'ordine di riferimenti costanti, che è alla base della propria identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la cultura della moda diffonde come immagine del mondo. Diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto. Declinandosi sempre più nell'apparire, l'individuo impara a vedersi con gli occhi dell'altro. Impara che l'immagine di sé è più importante della sua personalità. E dal momento che verrà giudicato da chi incontra in base a ciò che possiede e all'immagine che rinvia e non in base al carattere o alle sue capacità, tenderà a rivestire la propria persona di teatralità, a fare della sua vita una rappresentazione e soprattutto a percepirsi con gli occhi degli altri, fino a fare di sé uno dei tanti prodotti di consumo da immettere sul mercato.

9. La moda e la frantumazione del tempo

"Rifiutando la moda che l'ha preceduta," osserva Barthes, "la nuova moda rifiuta il proprio passato"; facendosi gioco del tempo, afferma il diritto assoluto del presente, dell'eterno presente che è prerogativa degli dèi. Infedele a se stessa e al proprio passato, per sfuggire alla carica colpevolizzante di questo sentimento, la moda "aggredisce il tempo col ritmo delle vendette, affondando ogni anno l'intero presente nel nulla del passato". Si conferma così il tratto nichilista della moda che eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. Barthes menziona i "limiti della memoria umana", che la moda utilizza per confondere il ricordo delle mode passate con l'orgia delle creazioni continue, che danno un senso di rigoglio incontenibile e di vitalità eterna.

10. I modelli proposti dalla moda e la loro influenza sociale

Che influenza sociale hanno i modelli proposti dalla moda? In che modo condizionano stili di vita e comportamenti? Se il modello di riferimento è la donna-copertina che gli stilisti propongono, di quella donna c'è da aver paura. Si tratta, infatti, di una donna che gli stilisti de-sessualizzano nel momento stesso in cui la rivestono/spogliano, mettendo così in scena una sorta di spettacolo della paura, come se l'erotismo dovesse arrestarsi alle soglie dei loro abiti, portati con quei gesti rituali che vogliono provocare l'idea del sesso e insieme la sua interdizione. Dopo aver ridotto il pubblico a semplice rappresentante di un generico voyeurismo, questo sguardo, che teme la donna, finisce per ridurla all'insignificanza, ostentando la sua bellezza al solo scopo di renderla inaccessibile e al limite esorcizzarla. Nella moda, infatti, tutto ciò che è femminile, seducente e invitante è avvolto in quell'atmosfera di purezza dove la donna è esposta come un gioiello prezioso e, in questa esposizione, irriducibilmente ridotta a oggetto attraente e inaccessibile.

Il mito del potere

1. Le maschere del potere

Il potere è sempre esistito nella forma della tirannide o in quella dello Stato. In entrambi i casi si tratta di un potere visibile, a cui ci si può opporre oppure riconoscerlo. Oggi il potere è diventato più nascosto, ma proprio per questo più pervasivo. Il potere non si presenta mai come tale e dietro queste maschere non è facile riconoscere le 2 leve su cui si fonda: il controllo assoluto delle nostre condizioni di vita e la massima efficienza delle prestazioni che ci sono richieste. Il mito dell'efficienza, che molti sembrano condividere applaudendo i leader politici che promettono di garantirla, fu sperimentato come macchina di potere nei lager nazisti. Celandosi dietro la maschera dell'efficienza, scrive Hillman, il potere ottiene da un lato l'ubbidienza dei subordinati, inducendo in loro un pensiero a breve scadenza, per cui non si guarda più intorno e in avanti e a lungo termine sui valori di fondo della vita con conseguente atrofizzazione dei sentimenti, e dall'altro lato la diffusa insensatezza per cui i "fini" raggiunti diventano "mezzi" per fini ulteriori, dove il semplice "fare" trova la sua giustificazione indipendentemente da ciò che si fa. Oltre un certo livello, "crescere" è dunque sintomo di problemi, quando non addirittura di declino. La psicologia continuerà a dar manforte a quel tipo di potere che toglie ai subordinati la possibilità di capire quale fra le 2 espressioni "sottosviluppato" e "ipersviluppato" sia quella con la "connotazione più negativa". Hillman parla della complicità della psicologia non solo perché è psicologo, ma perché oggi il potere entro i confini dell'Occidente governa con mezzi psicologici che non seducono o ingannano l'inconscio, ma lo costruiscono da cima a fondo. Inconscio è ciò che è meno conosciuto perché è più usuale, più familiare, più quotidiano".

2. Il potere e il controllo delle idee

Se oggi, "la nostra teologia è l'economia, quel tempio che accoglie tutti e dal quale i mercanti non sono stati cacciati" ,come sommo sacerdote di quel tempio, il potere agisce attraverso la pervasività delle sue idee e la civiltà che ne nasce è tenuta insieme non dalle idee di bellezza, verità, giustizia, pace, convivenza di popoli, ma dalle idee di commercio, proprietà, prodotto, scambio, valore, profitto, denaro, che in modo inconscio governano la vita dell'uomo occidentale e, per imitazione, dell'uomo del pianeta. Trattandosi di pervasività inconscia, con cui il potere oggi condiziona la nostra mente, sarebbe allora tempo che la psicologia, la psichiatria, la psicoanalisi si destassero dal torpore profondo in cui sono assopite e capissero che sono le idee dis-funzionali del mondo di oggi ad aver bisogno della nostra cura psicologica, più che le ferite del bambino interiore del passato. I sentimenti di fallimento, impotenza e frustrazione che assalgono una persona possono benissimo essere le angosce dell'anima collettiva che si riflette sull'individuo. Il pensiero degli antichi Greci non immaginava l'anima dell'individuo separata dall'anima della città. Sarebbe opportuno che la psicologia recuperasse questa antica intuizione e cominciasse a curare le idee dis-funzionali che percorrono la nostra società. Anche quando andiamo alla ricerca di nuove idee, le strategie educative messe in atto dal potere fanno di tutto per impedirci di maneggiarle bene, per cui le bruciamo rapidamente, ce ne liberiamo mettendole subito in pratica perché, come scrive Hillman: Sembra che con un'idea sappiamo fare un'unica cosa: applicarla, trasformarla in qualcosa da poter usare, per cui una "buona idea" è buona perché fa risparmiare tempo o denaro. E così l'idea muore proprio nel momento stesso della sua applicazione.

3. Il potere senz'anima dei manager

Manager, pronti a fare del bilancio una religione, ma spesso incapaci di comprendere la realtà che li circonda, perché assumono come massimo orizzonte di riferimento l'efficienza e la specializzazione e, a partire da questo scenario, pretendono di proclamare che "ciò che è bene per l'azienda è bene per il paese". Questa persuasione non è solo degli uomini d'azienda, ma anche dei politici. In questo convergere del mondo aziendale e del mondo politico nell'orizzonte ristretto del fare, tecnico, nasce in ambito aziendale l'illusione di poter affrontare la crisi della dinamica produttiva prescindendo dalla complessità e dalla presa di coscienza delle continue e decisive trasformazioni del mondo, e in ambito politico l'illusione di poter semplificare la complessità del mondo da governare attenendosi alle uniche 2 leve del mondo aziendale. La tesi di Pier Luigi Celli, secondo cui è "illusione manageriale" pensare di poter affrontare la crisi del sistema aziendale ragionando con le sole categorie interne al sistema, senza riferimento all'ambiente esterno che è la società, è il principio che troviamo alla base della teoria dei sistemi, secondo la quale ogni sistema che, vivendo in un ambiente, non si lascia influenzare dall'ambiente, per ricostruirsi a un livello superiore proprio a partire da questa influenza e da questo disordine, è destinato a fallire. A meno che anche l'ambiente, che nel nostro caso è l'ambiente sociale, non sia a sua volta strutturato, nelle sue linee di fondo, in modo aziendale, e allora, per il sistema-azienda non c'è alcun bisogno di guardar fuori, perché il "fuori" è già strutturato come il "dentro" e, guardando fuori, il sistema aziendale non vedrebbe altro che la riproduzione, su più ampia scala, di se stesso. L’invito alle imprese ad allargare i propri orizzonti è ribadito anche da David Gutmann: anche le organizzazioni hanno un'anima, soffrono e gioiscono, sono depresse o vitali proprio come gli individui, per cui anche un'istituzione, un partito, un'impresa possono stendersi sul lettino della psicoanalisi per produrre meglio. Il successo e l'insuccesso dell'impresa dipendono sempre più dagli uomini che la compongono e dai modi con cui le élite di comando riescono a tenerli dentro una storia che li faccia sentire protagonisti. Oggi, con l'esplosione dei mercati e la loro globalizzazione, le imprese, secondo Celli, necessitano di una capacità di investimento che non è mai solo intellettuale ma anche passionale, per questo occorre investire sul capitale umano. È necessario che le persone, i lavoratori non diventino solo mezzi per raggiungere il profitto e che i parametri di efficienza e produttività non siano utilizzati solo per valutare il benessere economico di un'organizzazione, ma anche per leggere i rapporti tra le persone, spesso visualizzate in un'ottica solo razionale e strumentale, senza più spazio per desideri, sogni, emozioni, aspirazioni, e tantomeno per una ricerca di senso. E allora verrebbe da consigliare ai manager più scienze umane e meno scienze aziendali, più filosofia e meno tecnica dell'organizzazione.

4. Il potere del leader e la sua patologia

Robert Dilts ritiene che per "creare un mondo al quale le persone desiderino appartenere" occorre passare dai manager ai leader, perché mentre il manager è "uno capace a far fare le cose agli altri", il leader è "uno capace di convincere gli altri a fare le cose". Il leader, a differenza del manager, scrive Giovanni Testa è "un produttore di cultura perché la sua parola e il suo gesto conferiscono significati nuovi". L'opportunità di passare dal management alla leadership è tipica del nostro tempo e viene registrata anche da Giancarlo Trentini, secondo il quale la nostra non è più la stagione dei "capi con i quali l'autorità viene imposta dall'esterno (Headship)", ma dei "leader ai quali l'autorità viene conferita dai seguaci (Leadership)". Nel primo caso l'identificazione del gruppo o dell'organizzazione con il suo capo è basata sul timore, nel secondo caso sull'amore. Nel mondo tutti recitiamo una parte, basta vedere come ci presentiamo in pubblico e come in privato per convenire che siamo tutti degli impostori. Ma se tutti lo siamo il leader è costretto a esserlo perché, obbligato com'è a impersonare un ruolo, stenta a ritrovare le radici profonde del suo Io. Fa trasparire quella impersonalità priva di emozioni, non per sviluppata capacità di controllo, ma per assenza di qualsiasi moto d'anima. Ma i leader hanno l'anima? Sì, a brandelli. Per meglio identificare la sindrome patologica del leader, Kets de Vries recupera il termine allessitimia: soggetti incapaci di trovare le parole per descrivere i propri sentimenti e al di là del funzionamento impeccabile, la sterilità emotiva, la monotonia delle idee e un grave impoverimento dell'immaginazione. I leader sanno di essere amati per ciò che non sono.


Date: 2015-12-24; view: 608


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