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IL TEATRO NATURALE DI OKLAHOMA

 

All'angolo di una strada Karl vide un cartellone con la scritta seguente: «Oggi, all'ippodromo di Clayton, dalle sei di mattina fino a mezzanotte si assume personale per il Teatro di Oklahoma! Il grande Teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama solo oggi, solo una volta! Chi perde l'occasione adesso la perde per sempre! Chi pensa al suo avvenire è con noi! Chiunque è benvenuto! Chi vuole diventare artista, si presenti! Siamo il teatro che può impiegare chiunque, ognuno al suo posto! Ci congratuliamo fin d'ora con chi ha deciso di seguirci! Ma affrettatevi, per essere accettati entro mezzanotte! A mezzanotte si chiude per non aprire più! Chi non ci crede, si pentirà! Venite tutti a Clayton!».

C'era molta gente davanti al cartellone, che però non sembrava incontrare molti consensi. C'erano troppi cartelloni, e ai cartelloni non crede più nessuno. E questo poi era ancora più inverosimile del solito. Ma soprattutto aveva il difetto di non accennare minimamente al pagamento, e l'avrebbe nominato di certo, se fosse stato appena decente; non si dimentica il dato più allettante.

Tuttavia per Karl quel cartellone aveva una grossa attrattiva. «Chiunque è benvenuto!» diceva. Chiunque, quindi anche Karl. Tutto ciò che aveva fatto fino allora era dimenticato, nessuno gli avrebbe più mosso rimproveri. Poteva presentarsi per un lavoro che non era motivo di vergogna, anzi, invitavano pubblicamente a presentarsi! E sempre pubblicamente promettevano di accettare chiunque. Karl non chiedeva niente di meglio, voleva cominciare finalmente una carriera decorosa, e forse questa era l'occasione buona. Anche se le parole allettanti scritte sul cartellone fossero state una bugia, e anche se il grande Teatro di Oklahoma fosse stato un piccolo circo ambulante, accettava però la gente, e questo bastava. Karl non lesse neppure tutto il cartellone una seconda volta, si limitò a cercare la frase: «Chiunque è benvenuto!».

Dapprima pensò di recarsi a Clayton a piedi, ma ci sarebbero volute tre ore di marcia pesante per poi magari arrivare e sentirsi dire che tutti i posti disponibili erano già occupati. Secondo il cartellone la disponibilità d'assunzione era illimitata, ma in genere queste offerte di lavoro sono formulate così. Karl capì che se non voleva rinunciare, doveva andare con un mezzo di trasporto. Contò il suo denaro, senza quel viaggio gli sarebbe bastato per otto giorni, soppesò le monetine sul palmo della mano. Un signore che l'aveva osservato gli batté sulla spalla e disse: «Molti auguri per il viaggio a Clayton». Karl annuì in silenzio e continuò a contare. Ma ben presto si decise, mise da parte il denaro occorrente per il viaggio e corse verso la metropolitana. Appena scese a Clayton, udì subito il suono di molte trombe. Era un clangore confuso, le trombe non erano in accordo, ognuna suonava per conto suo. Questo però non disturbò Karl, accrebbe piuttosto la sua convinzione che il Teatro di Oklahoma fosse una grande impresa. Ma quando uscì dall'edificio della stazione e vide dinanzi a sé l'ippodromo in tutta la sua estensione, capì che tutto era ancora più grande di quello che avrebbe potuto pensare, e si chiese come mai un'impresa potesse sostenere simili spese al solo scopo di assumere personale. Davanti all'ingresso dell'ippodromo c'era un podio lungo e basso su cui centinaia di donne, vestite da angeli, con vesti bianche e grandi ali sulla schiena, suonavano lunghe trombe dai riflessi dorati. Però non stavano direttamente sul podio, ma ognuna su un basamento che non si vedeva perché restava completamente nascosto dalle ampie vesti ondeggianti da angelo. Poiché i basamenti erano molto alti, anche fino a due metri, le figure delle donne apparivano gigantesche, solo le loro piccole teste erano un po' sproporzionate rispetto alla grandezza dell'insieme, e i loro capelli sciolti, in mezzo a quelle grandi ali, sembravano quasi ridicoli. Per evitare un'impressione di monotonia, i basamenti avevano altezze diverse, c'erno quindi donne che apparivano molto piccole, pur essendo di altezza più o meno normale, e accanto a loro altre che arrivavano a un'altezza tale da sembrare in pericolo al minimo soffio di vento. E tutte queste donne suonavano la tromba. Non c'erano molti spettatori. Circa dieci ragazzi, piccoli in confronto a quelle grandi figure, passeggiavano su e giù davanti al podio guardando le donne. Si indicavano reciprocamente questa o quella, ma non sembravano intenzionati ad entrare per farsi assumere. C'era un solo uomo di una certa età, che si teneva un poco in disparte. Aveva portato con sé anche la moglie e un bambino in carrozzina. La moglie teneva la carrozzina con una mano, e con l'altra si appoggiava alla spalla del marito. Anche se ammiravano lo spettacolo, si capiva che in fondo erano delusi. Probabilmente si erano aspettati di trovar lavoro, ma erano sconcertati da tutte quelle trombe. Karl era nella stessa situazione. Si avvicinò all'uomo, ascoltò un poco il suono delle trombe e poi disse: «Si viene assunti qui, vero, per il Teatro di Oklahoma?».



«Lo credevo anch'io», disse l'uomo, «ma stiamo aspettando già da un'ora e non sentiamo altro che le trombe. Non si vede da nessuna parte né un cartellone, né un annunciatore, né qualcuno che dia informazioni».

Karl disse: «Forse aspettano che ci siano più persone. A dire il vero ce ne sono ancora molto poche».

«Forse», disse l'uomo, e tacquero di nuovo. Era anche difficile capire qualcosa con il fracasso delle trombe. Poi la donna sussurrò qualcosa al marito, che annuì, e subito dopo gridò a Karl: «Non potrebbe entrare lei nell'ippodromo e chiedere dove si viene assunti?».

«Sì», disse Karl, «ma dovrei attraversare il podio passando fra gli angeli».

«È così difficile?» disse la donna.

Le sembrava facile per Karl, però non voleva mandarci suo marito.

«Va bene», disse Karl, «andrò».

«Lei è molto gentile», disse la donna, e sia lei che il marito gli strinsero la mano.

I ragazzi accorsero per vedere da vicino Karl che saliva sul podio. Sembrava che le donne suonassero più forte, come per dare il benvenuto al primo aspirante. Ma quelle davanti a cui passò Karl si tolsero persino la tromba di bocca e si girarono a guardarlo. All'altra estremità del podio Karl vide un uomo che camminava inquieto su e giù, come se fosse in attesa di poter dare alla gente tutte le informazioni desiderate. Stava già per dirigersi verso di lui, quando si sentì chiamare dall'alto.

«Karl!» gridò l'angelo. Karl alzò gli occhi e cominciò a ridere contento per la sorpresa. Era Fanny.

«Fanny!» gridò, alzando la mano in segno di saluto.

«Vieni qui!» gridò Fanny, «non vorrai scappare via sotto il mio naso!». E allargò i bordi della sua veste scoprendo una scaletta che portava in alto.

«È permesso salire?» chiese Karl.

«Chi vuoi che ci vieti di stringerci la mano?», gridò Fanny guardandosi attorno adirata alla sola idea che qualcuno potesse opporsi. Nel frattempo Karl stava già salendo la scala.

«Più adagio», gridò Fanny. «Altrimenti precipiteremo entrambi con il basamento!». Tuttavia non accadde nulla e Karl arrivò felicemente fino all'ultimo gradino. «Ma guarda che lavoro ho trovato!».

«È proprio bello», disse Karl guardandosi attorno. Tutte le donne più vicine avevano già visto Karl e ridacchiavano. «Sei quasi la più alta», disse Karl tendendo la mano per misurare l'altezza delle altre.

«Ti ho visto subito arrivare dalla stazione», disse Fanny, «ma purtroppo qui, nell'ultima fila, non mi si vede, e non potevo neppure chiamare. Ho provato a suonare più forte, ma non mi hai riconosciuto».

«Suonate tutte male», disse Karl, «lascia che provi io».

«Ma certo», disse Fanny porgendogli la tromba, «però non rovinare il coro, altrimenti mi licenziano».

Karl cominciò a suonare; aveva pensato che fosse una tromba mediocre, capace solo di far rumore, invece risultò che era uno strumento in grado di eseguire qualsiasi finezza. Se gli altri strumenti erano della stessa qualità, li usavano proprio male. Senza lasciarsi disturbare dal rumore degli altri, Karl suonò con tutto il suo fiato una canzone che aveva sentito una volta in una taverna. Era contento di aver trovato una vecchia amica e di avere il privilegio di suonare la tromba davanti a tutti, con la possibilità di poter ottenere presto un buon posto. Molte donne smisero di suonare per ascoltarlo, e quando s'interruppe, solo una metà delle trombe suonava ancora, poi a poco a poco si ristabilì il fracasso di prima.

«Sei davvero un artista», disse Fanny quando Karl le porse di nuovo la tromba. «Fatti assumere come trombettiere».

«Assumono anche uomini?» chiese Karl.

«Sì», disse Fanny. «Noi suoniamo per due ore. Poi subentrano gli uomini, vestiti da diavoli. Metà di loro suona la tromba, l'altra metà il tamburo. È molto bello, e tutta la messinscena è grandiosa. Non trovi che sia bello anche il nostro vestito? E le ali?» disse guardandosi.

«Credi», disse Karl, «che possa ottenere anch'io un posto?».

«Senz'altro», disse Fanny, «è il più grande teatro del mondo. Che gioia poter essere di nuovo insieme! Ma dipende dal posto che otterrai. Perché potremmo lavorare entrambi qui e non vederci mai».

«È così grande tutto l'insieme?» chiese Karl.

«È il più grande teatro del mondo», ripeté Fanny, «personalmente non l'ho ancora visto, ma alcune colleghe, che sono già state ad Oklahoma, dicono che è quasi sconfinato».

«Però si presentano in pochi», disse Karl indicando i ragazzi e la famigliola in basso.

«È vero», disse Fanny, «ma considera che assumiamo gente in tutte le città, che la nostra compagnia di reclutamento è sempre in viaggio e che esistono molte altre compagnie come la nostra».

«Quindi il teatro non è ancora aperto?» chiese Karl.

«Oh, sì», disse Fanny, «è un vecchio teatro, ma si espande sempre più».

«Mi meraviglio», disse Karl, «che non ci sia più gente».

«Sì», disse Fanny, «è strano».

«Forse», disse Karl, «tutto questo dispendio di angeli e diavoli spaventa la gente, anziché attirarla».

«Che cosa vai a immaginare!» disse Fanny. «Però è possibile. Dillo al nostro capo, potresti rendergli un favore».

«Dov'è?» disse Karl.

«Dentro l'ippodromo», disse Fanny, «nella tribuna dei giudici».

«Anche questo mi sorprende», disse Karl. «Perché le assunzioni avvengono nell'ippodromo?».

«Facciamo grandi preparativi ovunque in vista del massimo afflusso», disse Fanny. «E appunto nell'ippodromo c'è molto posto. In tutti i botteghini dove in genere si accettano le scommesse sono stati installati gli uffici assunzioni. Devono esserci duecento uffici diversi».

«Ma», esclamò Karl, «il Teatro di Oklahoma ha incassi tali da poter mantenere simili compagnie di reclutamento?».

«Non è cosa che ci riguardi», disse Fanny. «Ma ora va', Karl, o farai tardi, e io devo ricominciare a suonare. Cerca comunque di ottenere un posto in questa compagnia e vieni subito a dirmi com'è andata. Ricordati che aspetto con ansia tue notizie!». Gli strinse la mano, raccomandandogli di scendere con prudenza e si rimise la tromba alle labbra, ma non riprese a suonare finché non vide Karl al sicuro sul podio. Quando fu in basso, Karl risistemò i bordi della veste attorno al basamento e Fanny lo ringraziò con un cenno del capo; quindi, facendo varie riflessioni su quanto aveva appena udito, Karl si diresse verso l'uomo che l'aveva già visto in alto accanto a Fanny e che si era avvicinato al basamento per attenderlo.

«Vuole venire a lavorare da noi?» chiese l'uomo. «Sono il capo del personale di questa compagnia e le do il benvenuto». Stava costantemente proteso in avanti come per cortesia, saltellava sui piedi, pur senza muoversi dal suo posto, e giocherellava con la catena del suo orologio.

«La ringrazio», disse Karl, «ho letto il cartellone della sua compagnia e sono venuto a presentarmi com'è richiesto».

«Molto bene», disse l'uomo con un cenno d'approvazione, «purtroppo non tutti si comportano con tanta correttezza».

Karl pensò alla possibilità di fargli notare che forse il suo sistema di reclutamento non era il più indicato, proprio per via delle sue promesse grandiose. Ma non lo disse, perché quell'uomo non era il capo della compagnia, e inoltre non sarebbe stato molto opportuno da parte sua fare subito proposte di miglioramento quando non era ancora stato assunto. Quindi disse soltanto: «Fuori c'è un'altra persona che vuole presentarsi e mi ha mandato avanti. Posso andare a chiamarla?».

«Naturalmente», disse l'uomo, «più gente viene, meglio è».

«Ha con sé anche la moglie e un bambino in carrozzina. Possono venire anche loro?».

«Naturalmente», disse l'uomo, accennando un sorriso per i dubbi di Karl. «Possiamo impiegare tutti».

«Ritorno subito», disse Karl, e corse indietro fino ai margini del podio. Fece un cenno alla coppia gridando che potevano venire tutti. Li aiutò a issare la carrozzina sul podio e si avviarono insieme. I ragazzi, che erano stati a guardare, si consultarono tra loro, e poi, dopo molte esitazioni, salirono lentamente sul podio con le mani in tasca per seguire infine Karl e la famiglia. In quel momento dalla stazione della metropolitana uscirono altri passeggeri, che vedendo il podio con gli angeli alzarono le braccia sorpresi. Comunque sembrava che la richiesta d'impiego diventasse più animata. Karl era molto contento di essere arrivato così presto, forse per primo, mentre i due sposi erano preoccupati e gli fecero varie domande nel timore che il teatro avesse troppe esigenze. Karl rispose che non sapeva nulla di certo, ma aveva avuto l'impressione che tutti, senza eccezione, sarebbero stati accettati, e quindi si poteva sperare. Il capo del personale si dirigeva già verso di loro, si rallegrò vedendo tante persone, si fregò le mani, salutò ognuno accennando un inchino e li dispose tutti in fila. Karl era il primo, poi veniva la coppia e quindi gli altri. Quando tutti furono al loro posto - i ragazzi dapprima crearono un po' di confusione, ci volle un certo tempo prima che si mettessero tranquilli -, il capo del personale fece smettere le trombe e disse: «In nome del Teatro di Oklahoma vi do il benvenuto. Siete arrivati presto» (ma era già quasi mezzogiorno), «non c'è ancora troppa folla, quindi le formalità della vostra assunzione saranno sbrigate in fretta. Naturalmente ognuno di voi ha con sé i suoi documenti d'identità». I ragazzi presero subito dei documenti dalle tasche e li sventolarono verso il capo del personale, il marito diede una gomitata alla moglie, che sollevò il piumone della carrozzina prendendo un pacco intero di documenti. Karl invece non aveva niente. Sarebbe stato un ostacolo per la sua assunzione? Sapeva comunque che, quando si è abbastanza decisi, si possono aggirare facilmente disposizioni d questo genere. Non era così improbabile. Il capo del personale passò in rassegna con lo sguardo tutta la fila, si convinse che tutti avevano i documenti, e poiché anche Karl aveva alzato la mano, peraltro vuota, pensò che anche lui fosse in regola.

«Va bene», disse allora il capo del personale, e allontanò con un gesto della mano i ragazzi che volevano far controllare subito i documenti, «ora i documenti saranno esaminati negli uffici assunzioni. Come avrete già letto sul nostro cartellone, possiamo impiegare chiunque. Ma naturalmente dobbiamo sapere che professione avete esercitato finora, per potervi impiegare in un posto che valorizzi le vostre capacità».

«Ma se è un teatro!» pensò Karl, colto da dubbi, mentre ascoltava con attenzione.

«Quindi», proseguì il capo del personale, «abbiamo allestito gli uffici assunzione nei botteghini degli allibratori, un ufficio per ogni categoria professionale. Ora ognuno di voi mi indicherà la sua professione, in genere la famiglia appartiene allo stesso ufficio assunzioni del marito. Vi condurrò agli uffici dove si esamineranno prima i vostri documenti e poi le vostre cognizioni specifiche, sarà un esame brevissimo, non c'è di che preoccuparsi. Lì sarete assunti subito e riceverete ulteriori istruzioni. Dunque, cominciamo. Il primo ufficio, come dice l'insegna, è destinato agli ingegneri. C'è forse un ingegnere tra voi?».

Karl alzò la mano. Dato che non aveva documenti, credeva di essere tenuto a sbrigare al più presto tutte le formalità, ed era anche abbastanza giustificato a presentarsi, perché un tempo aveva pur pensato di diventare ingegnere. Quando i ragazzi videro Karl farsi avanti, colti da invidia si fecero avanti anche loro; si presentarono tutti. Il capo del personale si alzò in tutta la sua statura e chiese ai ragazzi: «Siete ingegneri?». Allora tutti abbassarono lentamente le mani, tranne Karl, che rimase com'era. Il capo del personale lo guardò con aria incredula, perché Karl gli sembrava vestito troppo poveramente ed era anche troppo giovane per poter essere ingegnere, tuttavia non disse niente, forse per gratitudine, dato che Karl, o almeno così credeva, gli aveva portato gli aspiranti. Lo invitò solo con un cenno a entrare in ufficio e Karl entrò, mentre il capo del personale si rivolgeva agli altri.

Nell'ufficio per ingegneri due signori erano seduti ai due lati di un banco disposto ad angolo retto e confrontavano due grossi elenchi che avevano davanti. L'uno leggeva ad alta voce, l'altro cancellava i nomi letti sul suo elenco. Quando Karl si avvicinò a loro salutandoli, misero subito da parte gli elenchi e presero dei grossi registri aprendoli dinanzi a sé.

Uno dei due, che evidentemente era solo uno scrivano, disse: «I suoi documenti d'identificazione, prego».

«Purtroppo non li ho con me», disse Karl.

«Non li ha con sé», disse lo scrivano all'altro signore, scrivendo subito la risposta sul suo registro.

«Lei è ingegnere?» chiese allora l'altro, che sembrava il capufficio.

«Non lo sono ancora», disse in fretta Karl, «ma...».

«Basta così», disse il signore ancora più in fretta, «allora non è destinato a quest'ufficio. Legga il cartello, prego». Karl strinse i denti, e quel gesto non passò inosservato, poiché il signore disse: «Non c'è motivo di preoccuparsi, possiamo impiegare tutti». E chiamò con un cenno uno degli inservienti che giravano sfaccendati tra le barriere dicendo: «Accompagni questo signore all'ufficio per il personale con cognizioni tecniche».

L'inserviente interpretò l'ordine alla lettera prendendo per mano Karl. Attraversarono molte baracche, e in una di queste Karl vide uno dei ragazzi che era già stato assunto e salutava i funzionari ringraziandoli. Nell'ufficio in cui fu condotto si svolse un procedimento analogo a quello di prima, come Karl prevedeva, con una sola differenza: sentendo che aveva frequentato una scuola media, lo inviarono all'ufficio per ex-scolari di scuole medie. Ma lì, quando disse di aver frequentato una scuola media europea, dichiararono di non essere competenti, e lo inviarono all'ufficio per scolari di scuole medie europee. Era una baracca ai margini dell'ippodromo, non soltanto più piccola, ma anche più bassa di tutte le altre. L'inserviente che l'aveva accompagnato era furioso per il lungo tragitto e per tutti i giri che, secondo lui, avevano fatto unicamente per colpa di Karl. Non aspettò neppure più le domande, ma corse subito via. Probabilmente quell'ufficio era anche l'ultima possibilità. Quando Karl vide il capufficio, fu quasi spaventato dalla sua somiglianza con un professore che aveva avuto in Europa, il quale probabilmente insegnava ancora alla scuola tecnica. Comunque risultò subito che la somiglianza consisteva soltanto in singoli particolari, ma gli occhiali appoggiati sul grande naso, la barba bionda, curata come un oggetto in esposizione, la schiena leggermente curva e la voce che si alzava d'un tratto inaspettata stupivano Karl di continuo. Per fortuna non dovette prestarvi attenzione a lungo perché tutto si svolse più semplicemente che negli altri uffici. Anche lì registrarono la sua mancanza di documenti, e il capufficio dichiarò che si trattava di una negligenza imperdonabile, ma lo scrivano, che lì aveva il sopravvento, non dette alcuna importanza alla cosa, e dopo alcune brevi domande del capufficio, proprio mentre questi si accingeva a porre una domanda più importante, dichiarò che Karl era assunto. Il capufficio si girò a bocca aperta verso lo scrivano, ma questi fece un gesto conclusivo con la mano, isse: «Assunto», e trascrisse subito questa decisione sul registro. Evidentemente lo scrivano pensava che avere frequentato una scuola media europea fosse così poco gratificante, che non c'era da dubitare di chi lo affermava. Per parte sua Karl non aveva niente da obiettare, e gli si avvicinò con l'intento di ringraziarlo. Ma ci fu ancora un breve indugio quando gli chiesero il suo nome. Non rispose subito, aveva timore di dichiarare il suo vero nome e di farlo registrare. Appena avesse ottenuto anche il più umile degli impieghi e avesse svolto il suo lavoro in modo soddisfacente, avrebbe dichiarato il suo nome, ma non prima; l'aveva taciuto troppo a lungo per poterlo rivelare in quella circostanza. Quindi, poiché al momento non gli veniva in mente altro, diede il nome con cui l'avevano chiamato negli ultimi posti di lavoro: «Negro».

«Negro?» chiese il capufficio voltandosi e facendo una smorfia, come se Karl avesse toccato il vertice dell'inattendibilità. Anche lo scrivano lo guardò per un momento con aria inquisitoria, ma poi ripeté: «Negro», e trascrisse il nome.

«Non avrà scritto Negro!» lo investì il capufficio.

«Sì, Negro», disse tranquillamente lo scrivano, e fece un gesto con la mano come se il resto fosse compito del capufficio. Questi cercò di dominarsi, si alzò e disse: «Dunque, per il Teatro di Oklahoma lei è ...», ma non riuscì a proseguire, non poteva agire contro coscienza, si sedette e disse: «Non si chiama Negro».

Lo scrivano inarcò le sopracciglia, si alzò in piedi a sua volta e disse: «Allora le comunico io che è stato assunto per il Teatro di Oklahoma e che ora sarà presentato al nostro capo».

Di nuovo fu chiamato un inserviente che condusse Karl alla tribuna dei giudici. Ai piedi della scala Karl vide la carrozzina, e in quel momento scesero anche gli sposi, la donna con il bambino in braccio.

«È stato assunto?» chiese l'uomo; era molto più vivace di prima, anche la donna lo guardava sorridendo oltre la spalla. Quando Karl rispose che era appena stato assunto e andava a presentarsi, l'uomo disse: «Allora mi congratulo. Anche noi siamo stati assunti. Sembra una buona impresa, certo non si può sentirsi subito a proprio agio, ma è così dappertutto». Si dissero ancora arrivederci e Karl salì sulla tribuna. Camminava lentamente, perché il piccolo spazio su in alto sembrava sovraffollato, e non aveva voglia di entrare nella ressa. Si fermò persino un momento a guardare il grande ippodromo, che si estendeva in tutte le direzioni fino ai boschi lontani. Fu colto dal desiderio di vedere una volta una corsa di cavalli, in America non ne aveva ancora avuto occasione. In Europa era stato portato a una corsa una volta da bambino, ma riusciva a ricordare soltanto di essere stato trascinato da sua madre in mezzo a una folla che non li lasciava passare. Quindi in realtà non aveva mai visto una corsa. Dietro a lui cominciò a cigolare un macchinario, si volse e vide che stava salendo il cartellone, su cui durante le corse appaiono i nomi dei vincitori, con la scritta seguente: «Negoziante Kalla con moglie e bambino». Così dunque si comunicavano agli uffici i nomi degli assunti.

In quel momento scendevano di corsa per le scale alcuni signori discutendo animatamente, con matite e taccuini in mano, Karl si spinse contro la ringhiera per lasciarli passare e poi salì, dato che ora in alto c'era posto. In un angolo della piattaforma, munita di una ringhiera di legno - l'insieme sembrava il tetto piatto di una torretta -, era seduto un signore con le braccia appoggiate lungo la ringhiera, che portava di traverso sul petto una larga fascia di seta bianca con la scritta: «Capo della decima compagnia di reclutamento del Teatro di Oklahoma». Accanto a lui su un tavolino c'era un apparecchio telefonico usato senz'altro anche per le corse, con cui evidentemente il capo apprendeva tutte le indicazioni necessarie sui singoli aspiranti ancor prima della presentazione, poiché non rivolse nessuna domanda a Karl, ma disse a un signore che sedeva vicino a lui con le gambe incrociate e la mano appoggiata sul mento: «Negro, studente di una scuola media europea». E come se avesse finito con Karl, che gli fece un profondo inchino, si mise a guardare se qualcun altro saliva per la scala. Ma poiché non arrivava nessuno, a tratti ascoltava la conversazione tra Karl e l'altro signore, sempre fissando per lo più l'ippodromo e tamburellando con le dita sulla ringhiera. Quelle dita delicate eppure robuste, lunghe e vivaci, di tanto in tanto attiravano l'attenzione di Karl, anche se l'altro signore lo impegnava a sufficienza.

«Lei è stato disoccupato?» fu la prima domanda. Era una domanda molto semplice e priva di insidie, come quasi tutte quelle che seguirono, e anche le risposte di Karl non venivano verificate con altre domande; tuttavia quel signore sapeva caricarle di significato fissandolo negli occhi mentre gliele poneva, studiandone l'effetto col busto piegato in avanti, attendendo le risposte col capo chino sul petto, ripetendole ad alta voce ogni tanto, e anche se l'interrogato non capiva il motivo, si sentiva cauto ed impacciato. Spesso avveniva che Karl desiderasse ritirare la risposta data per sostituirla con un'altra che forse sarebbe stata più gradita, ma ogni volta si tratteneva perché sapeva che l'incertezza avrebbe prodotto un'impressione negativa e per giunta non era in grado di calcolare l'effetto delle sue risposte. Inoltre la sua assunzione sembrava già decisa, e questa consapevolezza gli dava come un punto di appoggio.

Alla domanda se fosse stato disoccupato rispose con un semplice «sì».

«Dove ha svolto il suo ultimo lavoro?», chiese il signore. Karl stava già per rispondere quando il signore alzò l'indice e ripeté: «L'ultimo!».

Karl aveva capito subito la domanda, per cui istintivamente scosse il capo come per significare che la ripetizione era inutile, e rispose: «In un ufficio». Questa era ancora la verità, ma se il signore avesse chiesto informazioni più precise sul tipo d'ufficio, Karl avrebbe dovuto mentire. L'altro però non lo fece, gli pose invece una domanda a cui era molto facile rispondere sinceramente: «Era soddisfatto del posto?».

«No!» gridò Karl, quasi interrompendolo, e con un'occhiata di lato colse un cenno di sorriso nel capo. Karl rimpianse l'avventatezza della sua ultima risposta, ma quel «no!» gli era venuto dal cuore, per tutto il suo ultimo periodo di servizio aveva desiderato tanto che un altro datore di lavoro gli ponesse quella domanda. Ma la sua risposta poteva nuocergli anche perché il signore avrebbe potuto chiedergli le ragioni del suo scontento. Invece gli chiese: «Per quale lavoro pensa di essere adatto?». Forse quella domanda era davvero una trappola, perché a che scopo porgliela, se Karl era già stato assunto come attore? Ma sebbene se ne rendesse conto non riuscì a dichiarare di sentirsi adatto alla professione di attore. Quindi eluse la domanda, e a rischio di sembrare arrogante disse: «Ho letto il cartellone in città, e poiché c'era scritto che si poteva impiegare chiunque mi sono presentato».

«Questo lo sappiamo», disse il signore, e tacque, mostrando così di non aver rinunciato alla domanda precedente.

«Sono stato assunto come attore», disse Karl esitando, per far capire al signore la difficoltà causatagli dall'ultima domanda.

«Giusto», disse il signore, e tacque di nuovo.

«No», disse Karl, e tutta la sua speranza di aver trovato un posto cominciò a vacillare, «non so se sono adatto a fare l'attore. Ma mi sforzerò e cercherò di eseguire qualsiasi incarico».

Il signore si girò verso il principale, annuirono entrambi, a Karl sembrò di aver dato la risposta giusta, riprese coraggio e attese sollevato la domanda seguente, che fu: «Che cosa voleva studiare all'inizio?».

Per precisare meglio la domanda - il signore teneva molto alla precisione -, aggiunse: «In Europa, intendo!». Così dicendo tolse la mano dal mento e fece un rapido gesto come per significare che l'Europa era molto lontana, e i progetti concepiti allora contavano ben poco.

Karl disse: «Volevo diventare ingegnere». Diede questa risposta con molta riluttanza, perché ben sapendo che cosa aveva fatto fin allora in America, era ridicolo ricordare che un tempo aveva voluto diventare ingegnere - ci sarebbe poi riuscito, anche in Europa? -, ma lo disse perché non gli veniva in mente altra risposta.

Il signore però la prese sul serio, come prendeva sul serio tutto. «Ora», disse, «non potrà diventare subito ingegnere, forse per il momento potrebbe svolgere qualche lavoro tecnico più modesto».

«Certo», disse Karl. Era molto contento, anche se, accettando l'offerta, sarebbe passato dalla categoria degli attori a quella dei tecnici, ma forse dopo tutto sarebbe riuscito meglio in quel lavoro. Del resto, continuò a ripetersi, non importava tanto il tipo di lavoro, quanto il fatto di aver trovato un lavoro fisso.

«È abbastanza robusto per un lavoro pesante?» chiese il signore.

«Oh, sì», disse Karl.

Il signore gli fece cenno di avvicinarsi e gli tastò il braccio.

«È un ragazzo robusto», disse poi tenendolo per il braccio e portandolo vicino al capo. Questi annuì sorridendo, porse la mano a Karl senza alzarsi e disse: «Allora abbiamo finito. Ad Oklahoma riesamineremo meglio tutto. Faccia onore alla nostra compagnia di reclutamento!».

Karl s'inchinò per congedarsi, voleva salutare anche l'altro signore, ma questi, come se avesse portato a termine il suo lavoro, si era già messo a passeggiare su e giù per la piattaforma guardando in alto. Mentre Karl scendeva la scala, di fianco venne alzato il tabellone degli annunci con la scritta: «Negro, tecnico».

Poiché le cose erano ben avviate, a Karl non sarebbe più dispiaciuto leggere il suo vero nome sul tabellone. Tutto era organizzato con grande cura, perché ai piedi della scala lo attendeva già un inserviente che gli mise una fascia intorno al braccio. E quando Karl alzò il braccio per guardare la scritta sulla fascia, in effetti lesse la dicitura «Tecnico».

Per prima cosa Karl voleva informare Fanny della sua destinazione e raccontare che tutto era andato bene. Ma apprese con rincrescimento dall'inserviente che gli angeli e i diavoli erano già partiti per la prossima meta della compagnia di reclutamento al fine di annunciare l'arrivo della truppa il giorno seguente.

«Peccato», disse Karl, era la prima delusione che aveva da quando si era messo in quell'impresa, «avevo una conoscente tra gli angeli».

«La rivedrà ad Oklahoma», disse l'inserviente, «ma ora venga, lei è l'ultimo».

Lo guidò lungo il lato posteriore del podio che prima era stato occupato dagli angeli, e dove ormai erano rimasti soltanto i basamenti vuoti. Ma l'ipotesi di Karl, che senza la musica degli angeli si sarebbe presentato un maggior numero di aspiranti non si rivelò esatta, perché ora davanti al podio non c'erano più adulti, ma solo pochi ragazzi che si disputavano una lunga penna bianca, probabilmente caduta dall'ala di un angelo. Un ragazzo la teneva nella mano alzata, mentre gli altri tentavano con una mano di spingergli la testa all'indietro e con l'altra di prendere la penna.

Karl indicò i ragazzi all'inserviente, ma questi disse senza guardare: «Si sbrighi, ci hanno messo molto tempo ad accettarla. Avevano qualche dubbio?».

«Non lo so», disse Karl stupito, ma non gli era sembrato. Sempre, anche nelle circostanze più chiare, si trovava qualcuno disposto a causare preoccupazioni al suo prossimo. Ma davanti al piacevole spettacolo della grande tribuna degli spettatori a cui si stavano avvicinando, Karl dimenticò ben presto l'osservazione dell'inserviente. In questa tribuna era stata apparecchiata una tavola grande e lunga, coperta con una tovaglia bianca; tutti quelli che erano stati assunti sedevano sulla panca sottostante con la schiena rivolta verso l'ippodromo e venivano rifocillati. Tutti erano allegri ed eccitati, e proprio mentre Karl si sedeva sulla panca per ultimo senza dar nell'occhio, molti si alzarono levando i bicchieri, e uno fece un brindisi al capo della decima compagnia di reclutamento chiamandolo il «padre di coloro che cercano un impiego». Qualcuno fece notare che si poteva vederlo anche da lì, e in effetti la tribuna dei giudici su cui stavano i due signori non era molto lontana. Tutti alzarono i bicchieri in quella direzione, anche Karl prese il suo, ma per quanto gridassero e cercassero di farsi vedere, nella tribuna dei giudici nulla faceva pensare che avessero notato o almeno volessero notare l'ovazione. Il capo della compagnia stava nel suo angolo appoggiato alla ringhiera come prima, e l'altro signore era in piedi accanto a lui con la mano sul mento. Un po' delusi, si sedettero di nuovo; di tanto in tanto qualcuno si girava verso la tribuna dei giudici, ma ben presto si occuparono soltanto del lauto pranzo; sul tavolo giravano polli enormi - Karl non ne aveva mai visti di simili - con una quantità di forchette infilzate nella carne arrostita e croccante, i servitori mescevano il vino di continuo, si aveva appena il tempo di chinarsi sul piatto che già nel bicchiere zampillava il vino rosso, e chi non voleva partecipare all'intrattenimento poteva guardare le fotografie del Teatro di Oklahoma, che erano ammucchiate a un'estremità del tavolo e passavano di mano in mano. Ma nessuno si interessava molto a quelle imagini, e così una sola fotografia arrivò fino a Karl, che era l'ultimo. A giudicare da quella, tutte le altre dovevano essere molto interessanti. Rappresentava il palco del presidente degli Stati Uniti. A prima vista si poteva pensare che non fosse un palco ma uno scenario, tanto il parapetto svettava ardito nello spazio aperto. Ogni elemento di questo parapetto era d'oro puro. Tra le colonnine, che sembravano ritagliate da forbici estremamente sottili, erano stati collocati l'uno accanto all'altro medaglioni con i ritratti degli ex-presidenti, uno di questi aveva il naso incredibilmente diritto, le labbra sporgenti e gli occhi infossati sotto le palpebre inarcate. Attorno al palco, ai lati e dall'alto, piovevano raggi di luce; la parte anteriore del palco era soffusa di una tenue luce bianca, mentre il suo sfondo, dietro a tende di velluto rosso che si dispiegavano in molteplici tonalità, ricadenti tutt'attorno e trattenute da cordoni, appariva come una cavità oscura dai bagliori rossastri. Era difficile immaginare persone in quel palco, tanto l'insieme era regale. Pur senza dimenticare il cibo, Karl guardava di continuo la fotografia posata accanto al suo piatto.

Avrebbe guardato molto volentieri anche le altre, ma non osava andare a prenderle perché un servitore vi aveva appoggiato sopra la mano e probabilmente bisognava rispettare la successione; e quindi si limitò ad allungare lo sguardo sul tavolo per controllare se fossero in arrivo altre fotografie. In quel momento - quasi stentava a crederci -, tra i molti visi chini sui piatti scorse con stupore un volto ben noto, Giacomo. Corse subito verso di lui gridando: «Giacomo!».

Questi, timido come sempre quand'era colto di sorpresa, alzò il capo, si girò nell'esiguo spazio tra la tavola e la panca e si pulì la bocca con la mano, dimostrandosi però molto contento di vedere Karl. Lo pregò di sedersi accanto a lui oppure lui stesso sarebbe andato vicino a Karl; avevano tante cose da raccontarsi e dovevano restare sempre insieme. Karl non voleva disturbare gli altri, quindi per il momento giudicò più opportuno che ciascuno restasse al suo posto; presto il pranzo sarebbe finito, e poi naturalmente sarebbero rimasti insieme. Tuttavia si trattenne ancora un poco accanto a Giacomo, guardandolo con piacere. Quanti ricordi dei vecchi tempi! Dov'era la capocuoca? Che cosa faceva Therese? Giacomo era cambiato ben poco, la previsione della capocuoca, che in sei mesi sarebbe diventato un americano robusto, non si era avverata; era gracile come sempre, con le guance cadenti come sempre, anche se in quel momento erano rotonde perché aveva in bocca un enorme pezzo di carne, che stava lentamente spolpando per poi buttare le ossa sul piatto. Come Karl poté leggere dalla sua fascia sul braccio, anche Giacomo non era stato assunto come attore, bensì come addetto all'ascensore, sembrava proprio che il Teatro di Oklahoma potesse impiegare chiunque! Assorto nella vista di Giacomo, Karl rimase a lungo assente dal suo posto. Stava appunto per ritornarvi, quando arrivò il capo del personale, salì su una panca più alta, batté le mani e fece un breve discorso durante il quale si alzarono quasi tutti, e quelli che erano rimasti seduti e non riuscivano a staccarsi dal loro piatto alla fine ricevettero tali colpi dagli altri che dovettero alzarsi anche loro.

Karl era già ritornato al suo posto in punta di piedi, quando il capo del personale disse: «Voglio sperare che siate soddisfatti del nostro pranzo di ricevimento. In genere il cibo della nostra compagnia di reclutamento viene apprezzato. Purtroppo devo già far sparecchiare, perché il treno che vi porterà a Oklahoma parte fra cinque minuti. È un lungo viaggio, ma vi accorgerete che le comodità non mancano. Ora voglio presentarvi il signore che guiderà il vostro trasferimento, a cui dovete obbedienza».

Un signore piccolo e magro s'arrampicò sulla panca del capo del personale, si prese appena il tempo di fare un rapido inchino e allungando concitato le mani cominciò a indicare come tutti dovevano riunirsi, disporsi con ordine ed avviarsi. Ma non fu obbedito subito, perché uno della compagnia, che già prima aveva tenuto un discorso, batté la mano sul tavolo e iniziò un lungo discorso di ringraziamento, sebbene, con grande inquietudine di Karl, fosse appena stato detto che il treno era in partenza. L'oratore non notò neppure che il capo del personale, invece di ascoltarlo, dava istruzioni varie al responsabile del trasporto, ma fece un gran discorso enumerando tutte le portate che erano state servite ed esprimendo il suo giudizio su ognuna, e infine, a titolo di conclusione, esclamò: «Illustri signori, così ci conquistano!». Risero tutti, tranne coloro a cui era diretta l'allusione, ma in quelle parole scherzose c'era davvero molta verità.

Pagarono lo scotto per quel discorso coprendo di corsa il tragitto fino alla stazione. Ma non fu molto faticoso perché - Karl lo notò soltanto al momento - nessuno portava bagagli; l'unico bagaglio in realtà era la carrozzina del bambino, che guidata dal padre in testa alla compagnia sobbalzava pericolosamente su e giù. Quante persone povere e sospette si erano riunite lì, eppure erano state accolte e trattate così bene! E sembrava che anche il responsabile del trasporto li avesse presi molto a cuore. Ora afferrava con una mano il manubrio della carrozzina e alzava l'altra mano per incitare la compagnia, ora passava nell'ultima fila per indurli ad affrettarsi, ora correva di fianco fissando negli occhi i più lenti e agitando le braccia per mostrar loro come dovevano correre.

Quando arrivarono alla stazione il treno era già pronto. La gente si indicava a vicenda la compagnia, si sentiva gridare: «Tutti questi fanno parte del Teatro di Oklahoma!». Sembrava che il teatro fosse molto più conosciuto di quanto Karl avesse supposto, anche se di teatro non si era mai curato molto. Un intero vagone era riservato alla compagnia, il responsabile li incitava a salire ancor più del controllore. Dapprima guardò in ogni singolo scompartimento, sistemò ancora qualcosa qua e là e infine salì anche lui. Per caso Karl aveva avuto un posto vicino al finestrino e aveva portato con sé Giacomo. Così sedevano molto vicini, e in fondo si rallegravano entrambi di partire. In America non avevano mai fatto un viaggio così spensierato. Quando il treno si avviò, fecero cenni di saluto dal finestrino, mentre i ragazzi che avevano di fronte si davano gomitate trovandoli ridicoli.

Viaggiarono per due giorni e due notti, e soltanto allora Karl si rese conto di quanto fosse grande l'America. Guardava instancabile dal finestrino, e Giacomo si sporgeva in avanti per guardare anche lui, finché i ragazzi di fronte, che giocavano sempre a carte, si stancarono e gli cedettero spontaneamente il posto accanto al finestrino. Karl li ringraziò - non tutti capivano l'inglese di Giacomo - e dopo qualche tempo, com'è inevitabile tra compagni di scompartimento, divennero più amici, ma anche la loro amicizia spesso era molesta, perché ad esempio ogni volta che perdevano una carta e si chinavano a terra per cercarla, davano gran pizzicotti sulle gambe a Karl o a Giacomo. E sempre Giacomo, colto di sorpresa, alzava la gamba gridando; una volta Karl tentò di rispondere con un calcio, ma per il resto sopportava tutto in silenzio. Tutto ciò che avveniva nel piccolo scompartimento, pieno di fumo anche con il finestrino aperto, spariva in confronto a ciò che si vedeva fuori.

Il primo giorno passarono in mezzo ad alte montagne. Masse di roccia nero-bluastre si avvicinavano al treno cuneiformi e appuntite, sporgendosi dal finestrino non si riusciva a scorgerne le cime; valli, scure, strette, frastagliate si aprivano allo sguardo, se ne seguiva la direzione col dito finché si perdevano, larghi torrenti di montagna correvano tumultuosi sul fondo diseguale alzando mille piccole creste di schiuma e si precipitavano sotto i ponti su cui passava il treno, così vicini che la loro frescura faceva rabbrividire il viso.

 

FRAMMENTI

 

I

 

 

«Su, su», gridò Robinson la mattina, non appena Karl aprì gli occhi. La tenda era ancora tirata davanti alla porta, ma la luce del sole che penetrava uniforme attraverso le fessure rivelava che la mattina era già inoltrata. Robinson correva su e giù frettoloso con aria preoccupata, ora portava un asciugamano, ora una tinozza piena d'acqua, ora capi di biancheria e di vestiario, e ogni volta, passando davanti a Karl, gli faceva cenno col capo per indurlo ad alzarsi e gli mostrava quanto aveva in mano per fargli capire come si affannava quell'ultimo giorno per lui, che naturalmente, la prima mattina di servizio, non riusciva ancora a capire il funzionamento del medesimo nei suoi particolari.

Ma presto Karl vide la persona che Robinson stava servendo. In uno spazio che non aveva ancora notato, separato dal resto della stanza tramite due armadi, aveva luogo una grande abluzione. Oltre gli armadi si vedevano sporgere la testa di Brunelda, il suo collo scoperto - i capelli le erano ricaduti sulla faccia - e l'inizio della sua nuca, e di tanto in tanto appariva la mano alzata di Delamarche con una spugna da bagno che schizzava acqua dappertutto e con la quale Brunelda veniva lavata e strofinata. Si udivano gli ordini precisi impartiti da Delamarche a Robinson, che non potendo porgere gli oggetti attraverso l'accesso a quello spazio, perché era bloccato, aveva a sua disposizione un'esigua fessura tra un armadio e un paravento, e per giunta ogni volta che porgeva qualcosa doveva allungare il braccio e girare la faccia da un'altra parte.

«L'asciugamano! L'asciugamano!» gridava Delamarche. E non appena Robinson, che stava cercando qualcos'altro sotto il tavolo, sussultava a quell'ordine e la sua testa ricompariva di scatto da sotto il tavolo, si sentiva già gridare: «Dov'è l'acqua, maledizione!», e al disopra dell'armadio si ergeva furioso il viso di Delamarche. Tutto ciò che, secondo Karl, serve in genere solo una volta per lavarsi e per vestirsi, lì era richiesto e portato più volte in ordine sparso. Su una stufetta elettrica era sempre appoggiata una tinozza d'acqua da scaldare e Robinson, a gambe divaricate, doveva portare di continuo quel peso fino allo spazio riservato al bagno. Con un lavoro così gravoso era comprensibile che non sempre eseguisse gli ordini con precisione, e una volta, alla richiesta di un altro asciugamano, si limitò a prendere una camicia dal grosso giaciglio in mezzo alla stanza e a gettarla arrotolata oltre l'armadio.

Ma anche Delamarche aveva un compito faticoso, e forse era così irritato con Robinson - nella sua irritazione ignorava totalmente Karl - solo perché dal canto suo non riusciva a contentare Brunelda. «Ah!» gridava lei, facendo trasalire persino Karl che non c'entrava. «Come mi fai male! Vattene! Preferisco lavarmi da sola, se devo soffrire così! Di nuovo non riesco ad alzare il braccio. Mi sento così male, mi schiacci troppo. Devo avere la schiena coperta di lividi. Naturalmente tu non me lo dirai. Aspetta, voglio farmi guardare da Robinson o dal nostro piccolo. Va bene, non lo faccio, ma cerca di essere un po' più delicato. Abbi riguardo, Delamarche, te lo devo ripetere ogni mattina, ma continui a non avere alcun riguardo. - Robinson!», gridò poi ad un tratto agitando sopra la testa un paio di mutandine di pizzo. «Vieni ad aiutarmi, guarda come soffro, e questa tortura Delamarche la chiama lavare! Robinson, Robinson, dove sei, neanche tu hai un po' di cuore?».

In silenzio Karl fece cenno col dito a Robinson di andare, ma Robinson a occhi bassi scosse il capo con la superiorità di chi ha esperienza. «Che cosa ti viene in mente?» sussurrò all'orecchio di Karl. «Non lo pensa davvero. Solo una volta ci sono andato, e mi basta. Mi hanno preso tutti e due e mi hanno gettato nella vasca, stavo quasi per affogare. E per giorni Brunelda mi ha rimproverato dandomi dello svergognato, e ha continuato a ripetere: "Da tempo non vieni in bagno con me", oppure: "Quando verrai ancora in bagno a guardarmi?". Solo quando le ho chiesto perdono più volte in ginocchio, ha smesso. Non lo dimenticherò mai».

E durante il racconto di Robinson Brunelda continuava a gridare: «Robinson! Robinson! Ma dov'è finito Robinson!».

Ma sebbene nessuno accorresse in suo aiuto e nessuno le rispondesse - Robinson si era seduto vicino a Karl ed entrambi guardavano in silenzio gli armadi al di sopra dei quali apparivano ogni tanto le teste di Brunelda o di Delamarche -, Brunelda non smetteva di lamentarsi a gran voce di Delamarche. «Delamarche!» gridava. «Adesso non sento proprio che tu mi lavi. Dove hai messo la spugna? Deciditi a prenderla! Se solo potessi chinarmi, potessi muovermi, ti farei vedere come si lava. Ah, che tempi quand'ero ragazza! Nella tenuta dei miei genitori in Colorado andavo a nuotare ogni mattina e tra tutte le mie amiche ero la più agile. E adesso! Quando imparerai a lavarmi, Delamarche; ti affanni ad agitare la spugna e io non sento niente. Quando ti dicevo di non schiacciare fino a ferirmi, non pensavo di dover stare qui a raffreddarmi. Guarda che salto fuori dalla vasca e scappo via così come sono!».

Ma poi non eseguì la minaccia - da sola non sarebbe neppure stata in grado di farlo -, probabilmente Delamarche, per paura che si raffreddasse, l'aveva presa e cacciata nella vasca, perché si udì un gran sguazzare.

«Questo sai farlo, Delamarche», disse Brunelda un po' più sottovoce. «Carezze e carezze, quando hai fatto male qualcosa». Poi ci fu un momento di silenzio. «Ora la bacia», disse Robinson alzando le sopracciglia.

«Che lavoro bisogna fare adesso?» chiese Karl. Dal momento che ormai si era deciso a restare, voleva anche cominciare subito a lavorare. Lasciò sul divano Robinson, che non rispondeva, e cominciò a sbaraccare il grosso giaciglio, ancora compresso per il peso degli addormentati durante la lunga notte, per poi rimettere in ordine ogni singolo pezzo di quel mucchio, cosa che probabilmente non era avvenuta da settimane.

«Va' a vedere, Delamarche», disse allora Brunelda, «credo che stiano gettando all'aria il nostro letto. Bisogna pensare a tutto, non c'è mai pace. Devi essere più severo con quei due, altrimenti fanno quello che vogliono». «È senz'altro il piccolo con il suo zelo maledetto!» esclamò Delamarche, e probabilmente stava per precipitarsi fuori dallo spazio riservato al bagno, e Karl aveva già rimesso giù quello che aveva in mano, ma per fortuna Brunelda disse: «Non andar via, Delamarche, non andar via. Ah, com'è calda quest'acqua, mi sfinisce! Resta con me, Delamarche!». Soltanto allora Karl si accorse che il vapore continuava a salire da dietro gli armadi.

Robinson si portò la mano alla guancia con spavento, come se Karl avesse fatto qualcosa di male. «Dovevate lasciare tutto com'era!» risuonò la voce di Delamarche. «Non sapete che dopo il bagno Brunelda riposa sempre per un'ora? Che miserabile disorganizzazione! Aspettate che vi prenda! Robinson, probabilmente stai di nuovo sognando! Tu, solo tu sei responsabile di tutto quel che succede. Devi tenere a freno il ragazzo, qui non si sfaccenda di testa propria. Quando si vuole qualcosa, da voi non si può ottenere niente; quando non c'è niente da fare, siete sempre zelanti. Filate da qualche parte e aspettate di poter essere utili!».

Ma subito tutto fu dimenticato, perché Brunelda, come se l'acqua calda l'avesse sfinita, sussurrò con un filo di voce: «Il profumo! Portate il profumo!». «Il profumo!» gridò Delamarche. «Muovetevi!». Già, ma dov'era il profumo? Karl guardò Robinson. Robinson guardò Karl. Questi capì che doveva fare tutto da solo. Robinson non aveva idea di dove fosse il profumo, si limitò a stendersi a terra e a frugare con entrambe le mani sotto il divano, ma non riuscì a cavare fuori altro che grumi di polvere e capelli femminili. Karl si diresse subito verso il lavamano situato accanto alla porta, ma nei suoi cassetti trovò soltanto vecchi romanzi inglesi, riviste e spartiti, ed erano tutti così stracolmi di roba, che una volta aperti non si riusciva più a chiuderli. «Il profumo», sospirava nel frattempo Brunelda, «quanto ci vuole! Chissà se avrò il mio profumo in giornata!». Data l'impazienza di Brunelda, naturalmente Karl non riusciva a fare una ricerca accurata, doveva affidarsi alla prima impressione. Nell'armadietto sotto il lavamano il flacone non c'era, sul piano del lavamano c'erano solo vecchie bottigliette di medicine e unguenti, e tutto il resto era già stato portato nello spazio riservato al bagno. Forse il flacone era nel cassetto del tavolo da pranzo. Ma mentre si dirigeva verso il tavolo da pranzo, pensando unicamente al profumo, Karl ebbe uno scontro violento con Robinson, che alla fine aveva smesso di cercare sotto il divano, e nel presentimento di dove potesse essere il profumo era balzato su alla cieca correndo incontro a Karl. Si udì con chiarezza l'urto delle loro teste, Karl rimase muto, Robinson non smise di correre, ma per sfogare il suo dolore cominciò a urlare con strilli assordanti e prolungati.

«Invece di cercare il profumo fanno la lotta», disse Brunelda. «Questo sistema mi farà ammalare, Delamarche, è certo che morirò fra le tue braccia. Devo avere il profumo!» gridò poi, riprendendo vigore, «devo averlo assolutamente! Non esco dalla vasca finché non me lo portano, a costo di stare qui fino a stasera!». E batté un pugno nell'acqua, si sentirono gli spruzzi.

Ma il profumo non era neppure nel cassetto del tavolo da pranzo, c'erano soltanto oggetti da toilette di Brunelda, come vecchi piumini per la cipria, vasetti di belletto, spazzole per capelli, riccioli e una quantità di cianfrusaglie appiccicate insieme in un groviglio inestricabile, ma non il profumo. E anche Robinson, che sempre strillando si trovava in un angolo dov'erano ammucchiate scatole e cassettine a centinaia e le apriva una dopo l'altra, frugandovi dentro in modo che la metà del contenuto, per lo più corrispondenza e occorrente per il cucito, cadeva sempre a terra e lì restava -, anche Robinson non riusciva a trovare niente, come faceva capire di tanto in tanto a Karl scuotendo la testa e stringendosi nelle spalle.

Allora Delamarche saltò fuori dall'angolo del bagno in mutande, mentre si sentiva il pianto convulso di Brunelda. Karl e Robinson smisero di cercare e guardarono Delamarche che, bagnato fradicio, con l'acqua che gli colava anche dal viso e dai capelli, si mise a gridare: «Adesso fate il piacere di cominciare a cercare!». «Qui!» ordinò prima a Karl, e poi «Là!» a Robinson. In verità Karl cercava controllando anche i posti affidati a Robinson, ma non trovava il profumo come non lo trovava Robinson, che cercava con più zelo di lui lanciando occhiate di lato a Delamarche, il quale andava su e giù per tutta la stanza battendo i piedi con una gran voglia di prendere a bastonate sia l'uno che l'altro.

«Delamarche!» gridò Brunelda. «Vieni almeno ad asciugarmi! Quei due non trovano certo il profumo e non fanno che mettere tutto in disordine. Devono smettere subito di cercare. Ma subito! Che lascino stare tutto! E non tocchino più niente! Probabilmente vorrebbero fare della casa una stalla. Prendili per il collo, Delamarche, se non smettono! Ma eccoli che continuano, è appena caduta una scatola! Di' che non la raccolgano, che lascino stare tutto ed escano dalla stanza! Chiudi la porta dietro di loro con il catenaccio e vieni qui. Da troppo tempo sono nell'acqua, ho già le gambe tutte fredde!».

«Subito, Brunelda, subito!» gridò Delamarche, correndo verso la porta con Robinson e Karl. Ma prima di congedarli li incaricò di andare a prendere la colazione e, se possibile, di farsi prestare da qualcuno un buon profumo per Brunelda.

«C'è un disordine, uno sporco da voi!» disse Karl quando furono sul corridoio. «Appena torniamo con la colazione, dobbiamo cominciare a far ordine».

«Se solo non fossi così malato!» disse Robinson. «E il trattamento!». Robinson era senz'altro offeso perché Brunelda non faceva la minima distinzione tra lui, che la serviva da mesi, e Karl, che era entrato in servizio soltanto il giorno prima. Ma era quel che si meritava, e Karl disse: «Devi cercare di fare uno sforzo». Tuttavia, per non lasciarlo in preda alla sua disperazione, aggiunse: «Sarà un lavoro che faremo solo una volta. Ti preparerò un giaciglio dietro gli armadi, e una volta che tutto sarà un po' in ordine, potrai stare a letto tutto il giorno senza preoccuparti di niente e guarirai molto presto».

«Adesso ti rendi conto anche tu delle mie condizioni», disse Robinson girando il viso da un'altra parte per essere solo con se stesso e con il suo dolore. «Ma mi lasceranno mai in pace?».

«Se vuoi ne parlerò io con Delamarche e con Brunelda».

«Credi che Brunelda abbia qualche riguardo?» esclamò Robinson, e aprì col pugno una porta, senza avvisare Karl che erano arrivati.

Entrarono in una cucina, dal cui focolare, che sembrava bisognoso di riparazioni, salivano nuvolette decisamente nere. Di fronte allo sportello del focolare era inginocchiata una delle donne che Karl aveva visto il giorno prima nel corridoio e prendeva in mano grossi pezzi di carbone per metterli sul fuoco, esaminandoli poi da ogni lato. Lavorando in ginocchio, in quella posizione scomoda per una vecchia, sospirava di continuo.

«Ecco di nuovo questo tormento», disse vedendo Robinson, si alzò a fatica appoggiandosi con la mano alla cassetta del carbone e chiuse lo sportello del focolare, non prima di aver avvolto la maniglia nel grembiule. «Adesso, alle quattro del pomeriggio» - Karl guardò stupito l'orologio della cucina -«dovete ancora far colazione? Gentaglia! Sedetevi», disse poi, «e aspettate che trovi il tempo per voi».

Robinson trascinò Karl verso una panchetta vicino alla porta e gli bisbigliò: «Dobbiamo obbedirle perché dipendiamo da lei. Lei ci ha dato la stanza in affitto e naturalmente può disdirlo quando vuole. Ma non possiamo cambiar casa, come faremmo a sgombrare tutta la roba? E soprattutto Brunelda non è trasportabile».

«Non si può avere un'altra stanza qui sul corridoio?» chiese Karl.

«Ma nessuno ci vuole», rispose Robinson. «In questa casa non ci vuole proprio nessuno».

Così rimasero seduti in silenzio sulla panchetta ad aspettare. La donna faceva avanti indietro tra due tavoli, una tinozza e il focolare. Dalle sue esclamazioni appresero che sua figlia stava poco bene, e quindi lei doveva sbrigare da sola tutto il lavoro, cioè provvedere al servizio e al vitto di trenta inquilini. Per giunta il focolare era difettoso, il cibo non finiva mai di cuocere, in due grandi pignatte bolliva una zuppa densa, e per quanto la donna l'assaggiasse con il mestolo e la controllasse facendola colare dall'alto, la zuppa non voleva riuscire, probabilmente dipendeva dalla fiamma che ardeva in modo irregolare, quindi si sedette quasi per terra davanti allo sportello e cominciò a trafficare con l'attizzatoio nel carbone incandescente. Il fumo che invadeva tutta la cucina la faceva tossire, a volte con tale violenza che doveva aggrapparsi a una sedia e per qualche minuto non faceva altro che tossire. Ripeté più volte che per quel giorno non avrebbe più fornito la colazione, dato che non aveva né tempo né voglia di prepararla. Ma dato che Karl e Robinson, anche se avevano ricevuto l'ordine di andare a prenderla, non potevano ottenerla per forza, continuavano a restare seduti in silenzio senza rispondere.

Tutt'attorno, su seggiole e sgabelli, sopra e sotto i tavoli, persino a terra ammassate in un angolo, c'erano le stoviglie sporche degli inquilini. Alcuni bricchi probabilmente contenevano ancora un po' di caffè o di latte, su qualche piattino c'erano resti di burro, una grande scatola di latta era caduta a terra spargendo in giro i biscotti. Con tutti quei resti si poteva mettere insieme una colazione su cui Brunelda, ignorandone la provenienza, non avrebbe avuto niente da ridire. Mentre Karl faceva questa riflessione e guardando l'orologio si era accorto che aspettavano già da mezz'ora (probabilmente Brunelda, furiosa, stava aizzando Delamarche contro i servitori), la donna ebbe un accesso di tosse e con gli occhi fissi su Karl esclamò: «Continuate pure a star qui, ma la colazione non l'avrete. In compenso tra due ore avrete la cena!».

«Vieni, Robinson», disse Karl, «metteremo insieme noi la colazione».

«Come?» esclamò la donna senza alzare la testa.

«Sia ragionevole, per favore», disse Karl, «perché non vuole darci la colazione? Aspettiamo già da mezz'ora, mi pare che basti. In fondo le si paga tutto, e noi paghiamo di certo più di tutti gli altri. Per lei è sicuramente un disturbo che noi facciamo colazione così tardi, ma siamo suoi inquilini, siamo abituati a far colazione tardi, e lei deve pur tener conto un poco anche di noi. Oggi naturalmente ha qualche difficoltà per via della malattia di sua figlia, ma in compenso noi siamo pronti a mettere insieme una colazione di avanzi, se non si può far altro e se lei non ce la può preparare».

Ma la donna non voleva lasciarsi coinvolgere in una conversazione amichevole, comunque per quegli inquilini persino i resti della colazione degli altri le sembravano già troppo buoni e d'altra parte era stufa dell'invadenza dei due servitori, quindi prese un vassoio e lo spinse contro la pancia di Robinson, il quale, solo dopo un momento, con una smorfia di dolore, capì che doveva reggerlo perché la donna avesse il tempo di raccattare il cibo da dargli.

E in gran fretta costei lo caricò di una quantità di cose, ma l'insieme sembrava più un mucchio di stoviglie sporche che una colazione da servire. Mentre la donna li spingeva fuori e loro si affrettavano a raggiungere la porta, curvi come se temessero di ricevere rimproveri o botte, Karl prese il vassoio dalle mani di Robinson, dove non gli sembrava molto al sicuro.

In corridoio, quando furono ad una certa distanza dalla porta, Karl si sedette a terra, per pulire anzitutto il vassoio e sistemare il necessario, come versare il latte in un unico bricco, radunare su un piatto i vari resti di burro e cancellare i segni dell'uso, cioè pulire coltelli e cucchiai e tagliar via le parti rosicchiate dei panini, conferendo così all'insieme un aspetto migliore. Robinson considerava quel lavoro inutile, e dichiarò che spesso aveva portato colazioni dall'aspetto molto peggiore, ma Karl non si lasciò convincere, anzi era contento che Robinson con le sue dita sporche non volesse partecipare al lavoro. Per farlo star quieto gli aveva dato subito alcuni biscotti e il denso rimasuglio in fondo a un pentolino che era stato riempito di cioccolata, dicendogli però che gli doveva bastare.

Quando arrivarono davanti alla loro abitazione e Robinson stava per abbassare la maniglia della porta, Karl lo trattenne, perché non era sicuro che potessero entrare. «Ma sì», disse Robinson, «adesso la sta solo pettinando». E in effetti nella stanza ancora oscurata e non arieggiata Brunelda era seduta in poltrona a gambe divaricate, e Delamarche, dietro di lei, a testa bassa, pettinava i suoi capelli corti e probabilmente molto arruffati. Brunelda indossava un abito come sempre ampio e sciolto, ma questa volta di un rosa pallido, forse un po' più corto di quello del giorno precedente, perché le calze bianche di maglia grossa si vedevano qua


Date: 2015-12-18; view: 1428


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