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UNA VILLA NEI PRESSI DI NEW YORK 16 page

«Che cosa succede?» chiese Karl affannato, voltandosi verso i suoi guardiani.

«Come si eccita il piccolo!» disse Brunelda a Delamarche, e prese Karl per il mento, attirandolo a sé. Ma Karl provò un senso di fastidio, e reso più ardito dagli avvenimenti della strada, fece uno scatto tale che non solo Brunelda allentò la presa, ma indietreggiò lasciandolo completamente libero. «Ora hai visto abbastanza», disse evidentemente irritata per il contegno di Karl, «va' nella stanza, fa' i letti e prepara tutto per la notte», e indicò la stanza con la mano. Era proprio la direzione in cui Karl voleva andare già da ore, quindi non fece obiezioni. In quel momento giunse dalla strada il rumore di molti vetri rotti. Karl non poté fare a meno di balzare rapidamente verso la ringhiera per guardar giù ancora una volta. Gli avversari avevano effettuato con successo un attacco, e forse anche decisivo, perché i fari dei sostenitori del candidato, che con la loro luce intensa avevano illuminato per il pubblico almeno gli avvenimenti principali, mantenendoli quindi entro certi limiti, erano stati fracassati tutti insieme, e il candidato ed il suo portatore si distinguevano appena nella luce incerta della strada, che d'un tratto sembrava non illuminare più nulla. Ora non si poteva stabilire neppure approssimativamente dove si trovava il candidato, e il disorientamento causato dall'oscurità fu accresciuto da un coro improvviso, sonoro ed omogeneo, che si avvicinava dal basso, dove c'era il ponte.

«Non ti ho forse detto quel che devi fare?», disse Brunelda. «Sbrigati, sono stanca», aggiunse alzando le braccia, sicché il suo petto s'inarcò ancora più del consueto. Delamarche, che la teneva sempre abbracciata, la trascinò con sé in un angolo del balcone. Robinson li seguì per spingere da parte i resti della sua cena, che erano rimasti per terra.

Karl doveva approfittare di quest'occasione propizia, non c'era più tempo di guardar giù, dalla strada avrebbe seguito gli avvenimenti molto meglio che non lì in alto. In due salti corse attraverso la stanza illuminata dalla luce rossastra, ma la porta era chiusa e la chiave era stata tolta. Doveva trovarla subito, ma chi poteva trovare una chiave in quel disordine e per giunta nel poco tempo prezioso di cui Karl disponeva! Avrebbe già dovuto essere sulle scale, correre e correre. E invece cercava la chiave! La cercò in tutti i cassetti aperti, rovistò tutt'attorno sul tavolo dov'erano sparsi stoviglie, tovaglioli e ricami incominciati, fu attirato da una poltrona carica di vecchi vestiti gettati alla rinfusa l'uno sull'altro e tra i quali poteva nascondersi la chiave, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte, e infine si buttò sul divano, che emanava un pessimo odore, per cercarla in tutti gli angoli e in tutte le pieghe. Poi smise di cercare e si fermò in mezzo alla stanza. Si disse che probabilmente Brunelda portava la chiave appesa alla cintura, in quella stanza c'erano troppe cose, qualsiasi ricerca era inutile.



Allora prese due coltelli a caso e li infilò tra i battenti della porta, uno in alto e l'altro in basso, per avere due punti d'appoggio distanti tra loro. Non appena cominciò a forzare, naturalmente le lame si spezzarono, ma era proprio quello che voleva, perché i due monconi, che erano più solidi, avrebbero tenuto meglio. E li puntò tirando con tutte le sue forze, a braccia tese e a gambe divaricate, ansimando e fissando con ansia la porta che non avrebbe potuto resistere a lungo, sentì con gioia che il catenaccio stava cedendo, e quanto più lentamente, tanto meglio, la serratura non doveva assolutamente saltare, altrimenti sul balcone se ne sarebbero accorti, doveva invece staccarsi a poco a poco, quindi Karl lavorò con la massima prudenza, senza smettere di fissare la serratura.

«Ma guardate», sentì dire da Delamarche. Tutti e tre erano nella stanza, con la tenda già richiusa dietro di loro, probabilmente Karl non li aveva sentiti arrivare, e a quella vista gli caddero di mano i coltelli. Ma non ebbe neanche il tempo di dire qualche parola di spiegazione o di scusa, perché in un attacco d'ira sproporzionato per la circostanza Delamarche gli balzò addosso, e la cintura sciolta della sua vestaglia volteggiò nell'aria. Karl gli sfuggì all'ultimo istante, avrebbe potuto togliere i coltelli dalla porta e usarli per difendersi, ma non lo fece, chinandosi in avanti con un salto afferrò invece l'ampio risvolto della vestaglia di Delamarche, lo sbatté in alto, continuò a tirarlo verso l'alto - la vestaglia era davvero troppo grande per Delamarche - e riuscì a coprire la testa di Delamarche. Questi, colto di sorpresa, dapprima agitò le mani alla cieca e solo dopo un momento cominciò a tirar pugni, sia pur non con tutta la sua energia, sulla schiena di Karl, che per proteggersi il viso si era gettato contro il petto di Delamarche. Karl sopportava i pugni, anche se si torceva dal dolore e i colpi diventavano sempre più forti, ma come poteva non resistere, vedendo dinanzi a sé la vittoria! Tenendo fra le mani la testa di Delamarche e premendogli i pollici sugli occhi, lo trascinò davanti a sé nel punto in cui i mobili erano più ammassati, e intanto, con la punta dei piedi, cercava di avvolgergli attorno alle gambe la cintura della vestaglia per farlo cadere.

Essendo tutto preso dalla lotta, e poiché sentiva crescere sempre più la resistenza dell'avversario con quel suo corpo ostile, dimenticò che non c'era solo Delamarche. Ma glielo fecero ricordare anche troppo presto, perché tutt'a un tratto si sentì mancare i piedi, che Robinson gli aveva afferrato urlando e gettandosi a terra dietro di lui. Con un sospiro Karl lasciò andare Delamarche, che indietreggiò ancora di un passo. Brunelda stava in mezzo alla stanza, con tutta la sua mole puntata sulle gambe divaricate e le ginocchia piegate, e seguiva gli avvenimenti con gli occhi che mandavano lampi. Respirava pesantemente come se partecipasse alla lotta, prendeva la mira con gli occhi e muoveva lentamente i pugni. Delamarche riabbassò il bavero della sua vestaglia per poter vedere di nuovo, e naturalmente da quel momento la lotta cessò per dar luogo alla punizione. Afferrò Karl per il risvolto della camicia, lo sollevò quasi di peso, e senza neppure guardarlo per il disprezzo lo scaraventò con violenza contro un armadio a qualche passo di distanza. In un primo momento Karl pensò che i suoi dolori lancinanti alla schiena e alla testa non fossero causati dal colpo all'armadio, bensì dai pugni di Delamarche. «Farabutto!» sentì gridare ancora Delamarche nell'oscurità che sorgeva dinanzi ai suoi occhi tremanti. E mentre cadeva sfinito davanti all'armadio gli risuonarono ancora debolmente all'orecchio le parole: «Aspetta e vedrai!».

Quando tornò in sé tutto era buio attorno a lui, poteva essere ancora notte piena, perché dal balcone sotto la tenda penetrava nella stanza il lieve chiarore della luna. Si udiva il respiro tranquillo dei tre addormentati, il più rumoroso era quello di Brunelda, che ansimava nel sonno come faceva talvolta parlando; ma non era facile stabilire dove si trovasse ognuno dei tre, perché tutta la stanza risuonava dell'ansito del loro respiro. Solo dopo aver studiato un poco lo spazio attorno a sé, Karl si ricordò del suo stato e provò un grosso spavento, poiché, anche se si sentiva tutto rattrappito dai dolori, non gli era passato per la mente di poter essere gravemente ferito. Ma ora si sentiva la testa pesante, e tutto il viso, il collo e il petto sotto la camicia erano umidi come di sangue. Doveva esaminarsi alla luce, forse l'avevano storpiato a furia di botte e allora Delamarche non avrebbe avuto difficoltà a lasciarlo, ma andandosene ridotto così non avrebbe avuto davvero più prospettive. Gli tornò in mente il ragazzo con il naso smangiato che aveva visto nel passo carraio, e per un momento si prese il viso tra le mani.

Poi si diresse istintivamente verso la porta, camminando carponi e tastando il vuoto dinanzi a sé. Ben presto le punte delle sue dita incontrarono una scarpa e quindi una gamba. Era Robinson, chi altri dormiva con le scarpe? Senza dubbio gli avevano ordinato di stendersi di traverso davanti alla porta per impedire una fuga di Karl. Ma non avevano visto in che stato era? Per il momento non voleva fuggire, voleva solo arrivare alla luce. Dunque, se non riusciva a uscire dalla porta, doveva uscire sul balcone.

Trovò il tavolo da pranzo in una posizione completamente diversa da quella della sera prima, e con sua sorpresa il divano, a cui ovviamente si avvicinò con molta prudenza, era vuoto; invece al centro della stanza urtò contro un mucchio di vestiti, coperte, tende, cuscini e tappeti accatastati l'uno sull'altro. Dapprima pensò che fosse solo un mucchietto simile a quello che aveva trovato sul sofà la sera prima e che fosse rotolato per terra, ma con suo stupore, procedendo lentamente, si accorse che era un intero carico di roba probabilmente tolta per la notte dall'armadio in cui era custodita di giorno. Strisciò attorno al mucchio e ben presto si rese conto che era stato trasformato in una specie di giaciglio in cima al quale, come constatò tastando attorno con cautela, dormivano Delamarche e Brunelda.

Così ora aveva scoperto dove dormiva ciascuno dei tre, e si affrettò ad uscire sul balcone. Al di là della tenda si alzò in piedi rapidamente e si trovò in un mondo completamente diverso. Nella fresca brezza notturna, alla luce della luna piena, fece qualche passo su e giù per il balcone. Guardò la strada in basso, tutto era silenzio; dalla locanda arrivava ancora l'eco della musica, ma smorzato, davanti alla porta un uomo spazzava il marciapiede, e in quella stessa strada, in cui la sera prima nel fracasso generale le grida del candidato si perdevano tra mille altre voci, ora si udiva chiaramente la scopa che raspava sul selciato.

Un tavolo spostato sul balcone vicino attirò l'attenzione di Karl; qualcuno era seduto a quel tavolo e studiava. Era un giovane con una barbetta a punta, che arricciava di continuo mentre leggeva, muovendo rapidamente le labbra. Sedeva a un tavolino coperto di libri con il viso rivolto verso Karl, aveva tolto la lampadina dalla parete e l'aveva sistemata tra due grossi volumi, sicché si trovava in piena luce.

«Buona sera», disse Karl, poiché gli sembrava che il giovane avesse guardato dalla sua parte.

Ma probabilmente si era sbagliato, il giovane non si era ancora accorto di lui, perché mise la mano a visiera sulla fronte per ripararsi dalla luce e constatare chi l'aveva salutato, quindi, non riuscendo ancora a vedere, alzò la lampadina per illuminare anche il balcone vicino.

«Buona sera», rispose poi, fissando per un momento il balcone con uno sguardo severo, e aggiunse: «Che altro vuole?».

«La disturbo?» chiese Karl.

«Certo, certo», disse l'uomo, rimettendo al suo posto la lampadina. Queste parole naturalmente indicavano che egli voleva troncare la conversazione, comunque Karl non abbandonò l'angolo del balcone più vicino all'uomo. Rimase a guardarlo in silenzio mentre leggeva il libro, sfogliava le pagine, di tanto in tanto consultava qualcosa in un altro libro afferrandolo con estrema rapidità, e spesso prendeva appunti in un quaderno, chinandovi sopra il viso quasi fino a toccarlo.

Che fosse uno studente? Sembrava proprio che studiasse. Non molto diversamente - tanto tempo fa - a casa sua Karl aveva fatto i compiti seduto al tavolo dei genitori, mentre il padre leggeva il giornale e registrava i conti o sbrigava la corrispondenza per qualche società, e la madre si dedicava a un lavoro di cucito tirando in alto il filo sopra la stoffa dopo ogni punto. Per non disturbare il padre, Karl teneva sul tavolo solo il quaderno e l'occorrente per scrivere, mentre i libri necessari erano sistemati su due sedie alla sua destra e alla sua sinistra. Quanta pace c'era allora! In quella stanza non erano quasi mai entrati estranei. Già da bambino Karl aveva sempre trovato piacevole il momento in cui la sera sua madre chiudeva a chiave la porta di casa. Certo allora non avrebbe immaginato che Karl un giorno arrivasse al punto di forzare con i coltelli le porte altrui!

E a che cosa erano serviti tutti i suoi studi! Aveva già dimenticato tutto; se avesse dovuto riprenderli avrebbe avuto molte difficoltà. Ricordò che una volta, a casa, era stato ammalato per un mese; con quanta fatica poi aveva ripreso lo studio interrotto! E ora da tempo non aveva più letto un libro, tranne il manuale di corrispondenza commerciale in inglese!

«Senta, giovanotto», si sentì dire all'improvviso Karl, «non potrebbe mettersi da qualche altra parte? Mi disturba terribilmente che lei stia lì a fissarmi. In fondo, alle due di mattina si può anche pretendere di lavorare tranquilli sul balcone. Che cosa vuole da me?».

«Lei studia?» chiese Karl.

«Sì, sì», disse il giovane approfittando di quel momento di pausa per riordinare i suoi libri.

«Allora non voglio disturbarla», disse Karl. «Torno subito in camera. Buona notte».

Il giovane non rispose neppure, dopo aver tolto di mezzo il disturbo con una decisione improvvisa si era rimesso a studiare, appoggiando la fronte sulla mano destra.

Non appena arrivò davanti alla tenda, Karl ricordò il vero motivo per cui era uscito sul balcone, e cioè per appurare quali fossero le sue condizioni. Che cosa gli pesava così sulla testa? Si tastò con la mano e si stupì di non trovare una ferita e del sangue, come aveva temuto nella stanza buia; aveva soltanto una fasciatura a turbante, ancora bagnata. A giudicare dai brandelli di pizzo che pendevano qua e là, doveva essere una striscia strappata da un vecchio capo di biancheria di Brunelda, e probabilmente Robinson gliel'aveva avvolta attorno alla testa alla bell'e meglio. Aveva solo dimenticato di strizzarla e così, mentre Karl era svenuto, tutta l'acqua gli era colata sul viso e sotto la camicia, facendogli prendere un bello spavento.

«È ancora qui?» chiese il giovane, guardando verso di lui con gli occhi socchiusi.

«Adesso me ne vado davvero», disse Karl, «volevo soltanto guardare una cosa, nella stanza non si vede niente».

«Ma lei chi è?» disse il giovane, posando la penna sul libro aperto davanti a sé e avvicinandosi alla ringhiera. «Come si chiama? Com'è arrivato da questa gente? È qui da molto? E che cosa voleva guardare? Accenda almeno la sua lampadina, in modo che possa vederla».

Karl obbedì, ma prima di rispondere chiuse bene la tenda per essere certo che dall'interno non si vedesse niente. «Mi scusi», bisbigliò poi, «se parlo così sottovoce. Ma se dentro mi sentono, ci sarà di nuovo una lite».

«Di nuovo?» chiese il giovane.

«Sì», disse Karl, «non più tardi di stasera ho avuto una grossa lite con loro. Devo avere ancora un tremendo bernoccolo». E si palpò la parte posteriore della testa.

«Una lite, perché?» chiese il giovane, e non ricevendo risposta subito, aggiunse: «A me può confidare tranquillamente quello che le pesa sul cuore a proposito di quei signori. Li odio tutti e tre, e la madama in particolare. Del resto mi stupirei che non l'avessero già aizzata contro di me. Mi chiamo Josef Mendel, e sono studente».

«Sì», disse Karl, «mi hanno già parlato di lei, ma non hanno detto niente di male. Una volta lei ha curato la signora Brunelda, non è vero?».

«Già», disse lo studente ridendo. «C'è ancora quell'odore sul divano?».

«Oh, sì», disse Karl.

«Mi fa piacere», disse lo studente passandosi la mano fra i capelli. «E perché le fanno venire i bernoccoli?».

«C'è stata una lite», disse Karl pensando a come poteva spiegare la cosa allo studente. Poi s'interruppe e chiese: «Ma non la disturbo?».

«In primo luogo», disse lo studente, «lei mi ha già disturbato, e purtroppo sono così nervoso che mi occorre molto tempo per potermi riconcentrare. Da quando ha cominciato a passeggiare sul balcone non riesco più a studiare. In secondo luogo alle tre faccio sempre una pausa. Dunque racconti pure tranquillamente, la cosa mi interessa».

«È molto semplice», disse Karl, «Delamarche vuole che io gli faccia da servitore. Ma io non voglio. Avrei voluto andarmene via già ieri sera. Lui non voleva lasciarmi andare e ha chiuso a chiave la porta, io ho tentato di forzarla e c'è stata una rissa. Sono infelice di essere ancora qui».

«Ma ha un altro posto?», chiese lo studente.

«No», disse Karl, «però non me ne importa, voglio solo andar via di qui».

«Stia a sentire», disse lo studente, «come, non gliene importa?». Tacquero entrambi per un momento. «Perché non vuole restare con loro?» chiese poi lo studente.

«Delamarche è un uomo cattivo», disse Karl, «lo conosco da tempo. Una volta abbiamo fatto insieme un pezzo di strada, per un giorno intero, e quando l'ho lasciato ero ben contento. E adesso dovrei fargli da servitore?».

«Se tutti i servitori fossero difficili come lei nella scelta dei loro padroni!» disse lo studente, e accennò un sorriso. «Vede, durante il giorno faccio il commesso, sono l'ultimo dei commessi, più che altro il fattorino all'emporio di Montly. Ora Montly è senz'altro un farabutto, ma questo non mi tocca affatto, la sola cosa che mi fa rabbia è il mio miserabile stipendio. Dunque, prenda esempio da me».

«Come?» disse Karl, «di giorno fa il commesso e di notte studia?».

«Sì», disse lo studente, «non ho altra scelta. Ho già tentato tutto il possibile, ma questo modo di vivere è ancora il migliore. Qualche anno fa studiavo soltanto, giorno e notte, sa, ma sono quasi morto di fame, dormivo in una vecchia stamberga, e col vestito che avevo non osavo quasi andare alle lezioni. Ma è acqua passata».

«E quando dorme?» gli chiese Karl, guardandolo meravigliato.

«Già, dormire!» disse lo studente. «Dormirò quando avrò finito gli studi. Per ora bevo caffè nero». E si volse e prese da sotto il tavolo una grossa bottiglia, si versò del caffè nero in una tazzina e lo trangugiò in fretta, come si fa con una medicina per cercare di non sentire il sapore.

«Che bella cosa, il caffè nero», disse lo studente. «Peccato che lei è troppo lontano perché possa offrirgliene un poco».

«A me non piace il caffè nero», disse Karl.

«Neanche a me», disse ridendo lo studente. «Ma non posso farne a meno. Senza il caffè nero Montly non mi terrebbe neppure un giorno. Dico sempre Montly, anche se lui naturalmente non sa neppure che esisto. Non so proprio come mi comporterei al negozio se non tenessi sempre pronta nel banco una bottiglia grossa come questa; non ho mai osato interrompere quest'abitudine, ma mi creda, se non bevessi il caffè mi stenderei subito dietro il banco e mi addormenterei. Purtroppo credo che al negozio lo sappiano, mi chiamano "caffè nero", ed è uno stupido scherzo che certo ha già danneggiato la mia carriera».

«E quando finirà i suoi studi?» chiese Karl.

«Ci vuole tempo», disse lo studente a testa bassa. Si allontanò dalla ringhiera e si sedette di nuovo al tavolo; quindi appoggiò i gomiti sul libro aperto e passandosi le mani tra i capelli disse: «Ci vorranno ancora da uno a due anni».

«Anch'io volevo studiare», disse Karl, come se questo fatto gli desse diritto a una confidenza ancora maggiore di quella già dimostratagli dallo studente, che ora si era ammutolito.

«Ah», disse lo studente, e non si capiva bene se leggeva di nuovo il suo libro o se guardava distrattamente nel vuoto, «si rallegri di aver abbandonato gli studi. Io in realtà studio da anni solo per costanza. Soddisfazione ne ho poca, e prospettive per il futuro ancor meno. Che prospettive potrei avere? L'America è piena di falsi dottori».

«Io volevo diventare ingegnere», disse ancora in fretta Karl allo studente, che sembrava già pensare a tutt'altro.

«E adesso deve diventare il servitore di questa gente», disse lo studente lanciandogli un'occhiata. «Naturalmente non le va».

Questa deduzione dello studente era comunque un errore, ma forse sarebbe potuta tornare a vantaggio di Karl. Quindi gli chiese: «Non potrei ottenere un posto anch'io nel suo emporio?».

Questa domanda distolse completamente lo studente dal suo libro; l'idea di poter aiutare Karl a trovarsi un posto lo coglieva di sorpresa. «Può provare», disse, «ma forse è meglio che non provi. L'aver ottenuto un posto da Montly è stato il successo più grosso della mia vita. Se dovessi scegliere tra lo studio e il posto, naturalmente sceglierei il posto. Faccio tutto il possibile per evitare di dover compiere una simile scelta».

«Dunque è molto difficile trovare lavoro lì», disse Karl quasi pensando ad alta voce.

«Eh, che cosa crede», disse lo studente, «è più facile diventare giudice distrettuale qui che usciere da Montly».

Karl tacque. Quello studente tanto più esperto di lui, che per motivi ancora ignoti a Karl odiava Delamarche, mentre a lui non augurava certo nulla di male, non trovava una sola parola d'incoraggiamento per convincerlo a lasciare Delamarche. E per giunta non sapeva ancora che la polizia minacciava Karl, e che questi poteva sentirsi in parte protetto solo restando con Delamarche.

«Ha visto la dimostrazione di stasera qui sotto? Non conoscendo le circostanze, si potrebbe pensare che questo candidato - si chiama Lobter - abbia qualche probabilità di vittoria, o almeno qualche possibilità, non le pare?».

«Non m'intendo di politica», disse Karl.

«Male», disse lo studente. «Ma a parte questo, ha occhi per vedere e orecchi per sentire. Quell'uomo ha senz'altro amici e nemici, non può non essersene accorto, eppure, rifletta, secondo me non ha la minima probabilità di essere eletto. Per caso so tutto di lui, qui da noi abita uno che lo conosce. Non è un incapace, e per le sue opinioni e per il suo passato politico sarebbe proprio il giudice adatto per questo distretto, ma nessuno pensa che possa essere eletto, farà un fiasco clamoroso, avrà gettato via i suoi pochi dollari per la campagna elettorale, e questo è tutto».

Karl e lo studente si guardarono per un momento in silenzio. Lo studente scosse il capo sorridendo e si premette una mano sugli occhi stanchi.

«Bene, non vuole andare a dormire?» chiese poi. «Io devo rimettermi a studiare. Guardi quanto ho ancora da fare». E sfogliò rapidamente mezzo libro perché Karl avesse un'idea del lavoro che lo attendeva.

«Allora buona notte», disse Karl con un inchino.

«Venga a trovarmi ancora», disse lo studente sedendosi di nuovo al suo tavolo, «naturalmente solo se ne ha voglia. Qui vedrà sempre molta gente. Dalle nove alle dieci di sera ho tempo anche per lei».

«Dunque mi consiglia di restare con Delamarche?» chiese Karl.

«Senz'altro», disse lo studente, già immerso di nuovo nei suoi libri. Pareva che quella parola non fosse stata detta da lui, ma da una voce più profonda della sua, che risuonò ancora a lungo negli orecchi di Karl. Questi si avviò lentamente verso la tenda gettando un'ultima occhiata allo studente, che sedeva del tutto immobile alla luce della sua lampada circondato da una profonda oscurità, e scivolò dentro la stanza. Lo accolse il respiro dei tre addormentati. Cercò a tentoni il divano lungo la parete, e quando lo ebbe trovato, vi si sdraiò tranquillamente, come se fosse il suo letto abituale. Visto che lo studente, che conosceva bene Delamarche e la situazione locale e inoltre era una persona colta, gli aveva consigliato di restare, per il momento Karl non aveva preoccupazioni. Non si prefiggeva mete importanti come quelle dello studente, chissà poi se anche a casa sarebbe riuscito a terminare gli studi, e se già a casa sembrava difficile, nessuno poteva chiedergli di studiare lì, in un paese straniero. Ma se per il momento avesse accettato di servire Delamarche e da quel posto sicuro avesse aspettato un'occasione favorevole, certo avrebbe avuto più speranza di trovare un impiego migliore in futuro e di essere riconosciuto per i propri meriti. Gli sembrava che in quella strada ci fossero molti uffici di media e bassa categoria, che forse all'occorrenza non sarebbero stati troppo esigenti nella scelta del personale. In caso di necessità si sarebbe adattato volentieri a fare il fattorino, ma dopo tutto non era escluso che un giorno potesse essere assunto anche per un lavoro d'ufficio e sedere alla sua scrivania, guardando fuori tranquillamente ogni tanto dalla finestra aperta, come l'impiegato che aveva visto la mattina traversando i cortili. Chiuse gli occhi con il pensiero rassicurante che era ancora giovane, e che un giorno Delamarche l'avrebbe pur lasciato libero; non sembrava davvero che quel regime familiare dovesse durare in eterno. Ma se un giorno Karl avesse lavorato in un ufficio, si sarebbe occupato sotanto del proprio lavoro, senza disperdere le proprie energie come lo studente. Se fosse stato necessario, avrebbe lavorato per l'ufficio anche di notte, come all'inizio avrebbero senz'altro preteso da lui, data la sua scarsa preparazione commerciale. Avrebbe pensato unicamente agli interessi della ditta in cui lavorava, e si sarebbe adattato a qualsiasi lavoro, anche a quelli rifiutati dagli altri impiegati perché indegni di loro. I buoni propositi gli si affollavano nella testa come se il suo futuro principale si trovasse davanti a lui e potesse leggerglieli in viso.

Con questi pensieri Karl si addormentò, e nel primo dormiveglia sentì ancora un profondo sospiro di Brunelda, che si rigirava nel suo giaciglio come se fosse tormentata da sogni angosciosi.

 


Date: 2015-12-18; view: 634


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