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Il mito della razza

1. Il falso mito dell'etnia e dell'identità culturale

Ma esistono davvero le etnie, le identità culturali con le loro radici o sono invenzioni che mascherano altri interessi? A sollecitare il dubbio, l’antropologo Marco Aime, sostiene che a incontrarsi e a scontrarsi non sono mai le culture ma le persone, e che insistere sull'identità locale, nazionale o sovranazionale significa creare recinti che alimentano nuove forme di razzismo. Viviamo in mezzo a flussi di persone, idee, merci che si muovono in contesti sempre più svincolati dal territorio, e noi continuiamo a pensare ai territori come agli unici contenitori delle culture, quando non solo il presente, ma anche il passato è stato attraversato da una miriade di persone in movimento. Queste hanno a tal punto mescolato usi, costumi e credenze, che parlare ancora di "etnie" o "identità culturali" ha di arcaico, se non addirittura di artificialmente ideato per marcare il territorio o per giustificare i conflitti scatenati da ragioni difficilmente confessabili come gli interessi economici, o da cose che non vogliamo vedere come la disperazione degli uomini.

2. La sfida del multiculturalismo

Come nel secolo scorso è accaduto per gli Stati Uniti, ora anche per gli europei si pone il problema di reperire un codice comune di convivenza un po' più evoluto. Le ipotesi finora praticate sono una di matrice illuminista: alle differenze "si taglia la testa", le differenze sono misconosciute, perché si guarda all'uomo per ciò che ha di comune con l'altro uomo. L'altra ipotesi è quella praticata dalla tradizione americana che, prospetta una soluzione per addizione, dove le differenze sono riconosciute, registrate di fatto e tra loro sommate a partire da regole procedurali di convivenza, che hanno il loro epicentro nel vantaggio economico, per cui ogni esistenza è giustificata e, pur nella sua differenza, ammessa se concorre al profitto. Sia la soluzione illuminista sia quella americana soffrono di etnocentrismo, perché la prima propone il tipo di razionalità che gli occidentali hanno raggiunto come "ragione universale", la seconda propone la razionalità economica, che vige nella cultura occidentale, come ciò in cui tutti devono convenire. Queste 2 vie oggi si rivelano impraticabili, perché l'Occidente, il cui stile di vita è caratterizzato da un alto livello di consumi, porta dentro di sé, un alto "coefficiente entropico" dovuto alla sua struttura, che è dissipativa, perché assorbe da ogni angolo del pianeta energia viva per restituirla degradata quando non del tutto consumata. Gli uomini e le donne delle altre culture vengono da noi, perché sia loro che noi siamo persuasi che il nostro modello di vita non può essere condiviso da tutti, perché il pianeta non dispone delle risorse energetiche necessarie. Un nuova sfida è rappresentata dallo sviluppo tecnologico che, riducendo sempre più la quota dei lavoratori necessari, fino a raggiungere, il 20% degli abitanti del pianeta, costringerà l'uomo occidentale e non ad aumentare i tempi non produttivi e a recuperare il tempo esistenziale, che non è il tempo del produttore e del mercante. Oggi non c'è altra modalità di convivenza se non quella del reciproco riconoscimento, che non è l'assimilazione che dice: "Tu sei un uomo come noi, dunque non ti resta che elevarti al nostro modo di essere", né l'integrazione che priva l'altro della sua alterità e quindi del costitutivo della sua identità, ma il sostegno dell'alterità, che evita alle relazioni multiculturali di precipitare nella somma indifferente delle identità puramente accostate e rese smorte nel loro potenziale creativo. È evidente che, come agli albori dell'età moderna gli individui hanno deciso di rinunciare a una parte della loro libertà per garantire una più pacifica convivenza, così oggi sia gli occidentali sia i non-occidentali sono chiamati a rinunciare a una parte della loro identità originaria per una identità utopica, da intendersi non come un sogno, ma come un lavoro che impegna l'uomo a scoprire, al di sotto della sua identità elaborata all'interno della sua particolare cultura, le possibilità che, in quell'identità, ancora non hanno trovato espressione.



3. L'appello dello straniero

Guardando le nostre leggi, i nostri tribunali, la nostra Costituzione, il nostro Stato, la nostra patria dal di fuori, come stranieri, possiamo capire in che senso i nostri valori possono essere per lo straniero una prigionia e i suoi possono essere per noi inaccettabili. Scrive Barbara Spinelli: Grazie allo straniero siamo portati a chiederci chi siamo, che cosa vogliamo, da dove veniamo. E per effetto di questa domanda siamo portati a trasformarci. 11 09 2001. La figura dello straniero ha preso la forma del terrorista suicida, che è poi colui che non ha nulla da perdere, tranne la propria vita. Qui, secondo Barbara Spinelli, avevamo 2 modi di reagire. Il primo era di dichiarargli guerra riconoscendo allo straniero lo statuto di belligerante, di nemico. Così facendo ci siamo assediati e non abbiamo fatto opera di civiltà perché alla morte inflitta dallo straniero abbiamo risposto infliggendo morte. Lo straniero è diventato il nemico. Si poteva percorrere un'altra strada: io riconosco la differenza tra la mia e la tua cultura, ma riconosco anche le vittime della mia e della tua cultura, del mio e del tuo sistema di valorià ricerca di ciò che ci divide e di ciò che può unire. Questa ricerca non può avvenire tramite la guerra, ma tramite quell'incontro che trova la sua espressione istituzionale nella politica, dove per "politica" non si deve intendere l'accordo tra me e te, che può avvenire su qualsiasi base, ma quell'accordo tra me e te che si fa carico di quel "terzo" che sono le vittime del tuo e del mio sistema.

4. La paura della diversità

Pier Aldo Rovatti, dice che "la follia è la diversità e la paura della diversità". È questa una definizione che ci interessa perché, dopo aver neutralizzato il folle "attraverso la medicalizzazione che ha ridotto la follia a una malattia, con questo stratagemma non abbiamo certo neutralizzato la diversità". E qui vien da pensare alla diversità dell'omosessuale, dell'immigrato, dello "straniero", che a quelli del luogo appare "strano", ma anche alla diversità di ciascuno di noi. In gioco, infatti, non è solo la diversità degli altri che abbiamo la possibilità di confinare e neutralizzare, delegando i folli ai medici, gli stranieri alle forze dell'ordine, ma la nostra diversità che non ammette deleghe, anzi si rinforza proprio nel processo di soppressione e delega. Ogni volta che allontaniamo il problema della diversità, confermiamo la nostra paura del diverso, che è poi la paura di quel diverso che ciascuno di noi è per se stesso, e da cui ogni giorno ci difendiamo per mantenere la nostra identità. Ma come si fa a incontrare davvero l'altro? Sartre nega la praticabilità di questo incontro perché gli altri sono il nostro "inferno". Quel che dice Sartre è vero: la coscienza di ciascuno di noi è sopraffatta dall'incombere dello sguardo dell'altro. Il nostro comune e diffuso sentire, la nostra cultura, e forse anche le nostre leggi tendono all'"integrazione del diverso", cioè alla "negazione della diversità". Le opere assistenziali, messe in atto dal mondo religioso e dal mondo del volontariato, tendono a ridurre la sofferenza dei diversi che, nel sommo disagio, giungono da noi.

5. La vera ragione del razzismo

Essere neri o gialli in una società di bianchi, così come essere ebrei in un passato recente o musulmani oggi, genera sospetto e diffidenza. Il razzismo non scaturisce dal colore della pelle o dalle differenze culturali o religiose, ma è piuttosto un sintomo che caratterizza le società sviluppate, attraversate da processi interni di disgregazione che minacciano l'identità collettiva e le condizioni di benessere che, a causa della disgregazione, della mancanza d'iniziativa e della corruzione dei costumi non si sa come difendere. E perciò, prima di identificare la propria patologia, si preferisce accusare lo straniero di essere causa della propria dissolvenza. A ostacolare l'integrazione non sono tanto Loro, quanto Noi che ci sentiamo minacciati di declassamento se anche loro hanno diritto a una casa, a un'assistenza medica, a una pensione, ai vantaggi di uno stato sociale che Noi, a differenza di Loro, abbiamo conquistato. Come sostiene il politologo Taguieff, lo straniero è ritenuto "inferiore" per il timore che un innalzamento del suo livello di vita comporti per noi un precipitare al suo livello, fino a esserne sommersi. L'ostilità verso lo straniero nasce dal terrore del nostro declassamento, le cui cause vanno invece ricercate nell'indolenza e nella scarsa capacità di sacrificio tipica delle società opulente. Il timore del declassamento e della perdita della nostra identità non vale solo nei confronti dello straniero, ma anche nei confronti dell'universo femminile, la cui emancipazione è vissuta dall'universo maschile come una minaccia. Di qui gli ostacoli che si pongono alle donne quando vogliono fare il loro ingresso ai livelli alti della società. Alla base del razzismo c'è, dunque, sempre il timore di perdere i propri privilegi, guadagnati magari anche con grandi sacrifici nel corso della storia, e che oggi si vogliono mantenere senza sacrifici, per il semplice diritto che ci deriva dall'essere stati i primi ad averli conquistati. Il pregiudizio razzista e l'ostilità per lo straniero che diffonde hanno forse come unica motivazione quella di eliminare la concorrenza di coloro che nella storia sopraggiungono dopo di noi e minacciano il nostro declassamento, siano essi stranieri o donne.

6. La tolleranza imposta dal mercato e dalla tecnica

Il concetto di tolleranza che noi abbiamo è ancora modesto e ricalca gli schemi dei secoli passati dove l'alternativa era: lasciarsi assimilare o andarsene via, che, tradottoàaccogliere gli immigrati senza accogliere la loro differenza. L'assimilazione, infatti, libera gli individui nella misura in cui essi abbandonano i loro gruppi. E ciò comporta la condizione per cui, se lo straniero mantiene la sua identità e il radicamento nel proprio gruppo, non familiarizza con quelli del luogo a cui appare strano, se invece familiarizza fino a confondersi con quelli del luogo, perde la propria identità e il proprio originario radicamento. La sofferenza dello straniero, infatti, non è tanto la distanza dalla sua patria, ma la rinuncia alla propria identità come costo da pagare per l'assimilazione. A ospitare gli stranieri è l'Occidente, e la ragione è la sua ricchezza che, risolvendo il mondo nel mondo del denaro, spoglia la società e l'individuo di ogni valenza qualitativa, riducendo la società a mercato e l'individuo a semplice titolare di interessi. Nel mercato, infatti, sono gli interessi a porre in relazione gli individui, e perciò questi ultimi interagiscono non in quanto individui con le loro specificità e peculiarità, ma in quanto titolari di interessi, in quanto "personificazioni". Le persone esistono qui l'una per l'altra soltanto come rappresentanti di merce, quindi come possessori di merci. Gli individui perdono la loro specificità e, in quanto meri rappresentanti delle cose che possiedono e delle funzioni che svolgono, tendono a diventare sempre più simili gli uni agli altri. Dunque, noi accogliamo stranieri nella nostra terra che però è permeata da quella cultura economica che, visualizzandoci non più come individui, ma come titolari di interessi, ci rende stranieri a noi stessi, ponendoci in una condizione non diversa dalla condizione dello straniero che ospitiamo. Il processo di globalizzazione renderà questo scenario universale. Per effetto di questa estraneità universale, in cui viene a trovarsi ogni individuo nella società globale regolata solo dalla razionalità economica e tecnica, la tolleranza diventa la condizione della convivenza, e l'intolleranza, per quel tanto che intralcia la progressiva espansione dell'economia e della tecnica, verrà soppressa perché ostativa. A questo punto essere intolleranti non è più solo una faccenda di maleducazione, di arretratezza etica, ma è ritardo culturale di chi ancora non ha capito che il mondo in cui vive, essendo ritmato solo da mercato e tecnica, ha spazzato via tutti i valori simbolici di razza, etnia, identità, individualità, religiosità, appartenenza, a favore dei semplici criteri di funzionalità ed efficienza.

7. Educare al relativismo culturale

Coltivare l'essere umano nella sua interezza per gli scopi della cittadinanza e della vita, ormai ovunque multietnica, è un concetto che i nostri programmi scolastici devono recepire, prima di orientarsi verso istruzioni tecniche e specialistiche. Perché, ricorda Nussbaum, "diventare un buon cittadino significa conoscere una gran quantità di dati e sapere padroneggiare le tecniche di ragionamento", se non si vuole che la democrazia si estingua. Per vivere infatti all'altezza delle società occidentali, oggi popolate in modo multietnico, occorre che le nostre scuole educhino la capacità di giudicare criticamente se stessi e le proprie tradizioni. Ciò significa non accettare alcuna credenza come vincolante solo perché è stata trasmessa dalla tradizione ed è divenuta familiare con l'abitudine. Significa mettere in gioco tutte le credenze e accettare solo quelle che resistono alle richieste di coerenza e di giustificazione razionale. Si potrebbe definire "immaginazione narrativa" la capacità di immaginarsi nei panni di un'altra persona, di capire la sua storia, intuire le sue emozioni, i suoi desideri e le sue speranze. Quando ci identifichiamo con il personaggio di un romanzo, per esempio, non possiamo fare a meno di giudicarli alla luce dei nostri fini e delle nostre personali aspirazioni. Ma un primo passo verso la comprensione dell'altro è essenziale per ogni giudizio, dal momento che non possiamo ritenere di conoscere ciò che stiamo giudicando, finché non comprendiamo il significato che una determinata azione ha per la persona che la compie, o il significato di un discorso in quanto espressione della storia di questa persona e del suo ambiente sociale. Ci vuole cultura laica e umanistica, l'unica che può fondare quel rapporto tra istruzione e cittadinanza che è un'urgenza nel tempo delle migrazioni dei popoli e della composizione multietnica della nostra società. È qui che si deve cambiare la scuola. Non congedarsi dalla cultura umanistica per quella tecnico-scientifica, ma, accanto a questa, portare la cultura umanistica alla sua altezza.

8. Educare alla fraternità

Accade che bambini delle scuole vengano ritirati perché presi in giro dai compagni per il colore della loro pelle, per il taglio dei loro occhi, per la loro appartenenza etnica o religiosa. E tutto ciò mentre, per effetto dell'immigrazione massiccia, stiamo avviandoci a diventare una nazione multietnica, per vivere nella quale è necessario ampliare il concetto di "uomo", e imparare quella prima virtù della convivenza: tolleranza. Tra religione, famiglia e scuola, una lezione sulla fraternità può venire solo dalla scuola.

9. Per un nuovo umanesimo

La modernità prende avvio con la scoperta dell'America di Colombo, che porta in Occidente tanto oro. I terminali di questo import-export sono connessi. Quello che allora si scoprì, fu la realtà della cultura occidentale e della cristianità che l'aveva fondata, l'una e l'altra incapaci di riconoscere come proprio simile l'uomo non-occidentale. Già le Crociate in Oriente avevano messo a nudo questa verità, con la scoperta del "Nuovo mondo" questa verità non fu più contestabile, e non lo è a tutt'oggi. Infatti, con l'arrivo di Colombo, in America si sono imposti cultura, lingua, religione e valori che erano propri dell'Europa. Più inquietante è che quando Colombo incontrò i primi indigeni l'uomo incontrò se stesso e non si riconobbe. Gli indigeni, per effetto del loro immaginario religioso, scambiarono i conquistatori con gli dèi tornati dopo un esilio. L'una e l'altra cosa fecero sì che l'europeo davanti all'indiano vide uno "schiavo", e l'indiano davanti all'europeo vide un "dio". Nessuno, di fronte all'uomo, riconobbe l'uomo, perché nessuno seppe accogliere la diversità e l'alterità come valori. Nell'Europa di oggi, l'altro resta un altro da evitare o addirittura da combattere. Sotto questo profilo la scoperta del "Nuovo mondo", come allora veniva chiamata l'America, non è il ricordo di un passato da cui ci siamo emancipati, ma la drammatica scoperta di un presente, di un terribile presente che non ci abbandona. Come per Colombo, anche per noi gli altri non ci sono o se ci sono, non sono simili a noi. Allora come ora non si è saputo e non si sa cogliere la possibilità di crescita umana implicita nel confronto con la diversità, preferendo la distruzione o l'integrazione del diverso, conseguenti alla cultura occidentale pensa se stessa come totalità. Così ponendosi, l'Occidente segna la fine della storia, nel senso che segna una storia che non ha più un fine che non sia il mero potenziamento della sua volontà di potenza.


Date: 2015-12-24; view: 621


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