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Il mito della crescita

1. La crescita come processo infinito

Un senso di inquietudine pervade sia i singoli sia le imprese che si sentono impotenti a modificare l'andamento dell'economia, la quale, per effetto della globalizzazione e forse della supremazia dell'aspetto finanziario (e virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni nessuno conosce. Tutto ciò comporta, come dicono gli economisti, un rallentamento della crescita, quando non addirittura una crescita 0 o sotto 0. Qui l'economia tace perché il problema non è di sua competenza, e con l'economia tacciono anche le voci degli uomini che alle leggi dell'economia si devono piegare. La "crescita 0" sarà sempre più il nostro futuro perché, quando la crescita non ha altro scopo che continuare a crescere, è l'uomo stesso del mondo privilegiato a divenire semplice funzionario di questa idea fissa che, se diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e seppellisce il senso della vita, il suo significato per noi. L'impoverimento collettivo ha un'implicazione positiva: cominciamo a riflettere sul senso che va assumendo la nostra esistenza sulla spinta di quell'idea folle che è la crescita all'infinito. L'umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un'umanità da buttar via.

2. L'autolimitazione della crescita e la trasformazione del concetto di lavoro

Forse è necessario mutare la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri comportamenti così anche il profilo del lavoro potrebbe mutare. Oggi, infatti, sotto l'imperativo della crescita, il lavoro è visualizzato nel solo ambito dell'economia, che però, in una società che si fa sempre più tecnologica, comporta un'inevitabile riduzione dei posti di lavoro. E così, paradossalmente, quello che è sempre stato il sogno più antico dell'uomo, la liberazione dal lavoro, si sta trasformando in un incubo. Non c'è altra via d'uscita se non quella di ripensare il concetto di lavoro, che l'economia globalizzata da un lato e l'apparato tecnico dall'altro hanno identificato con l'esistenza da rendere a tutti evidente che dal punto di vista sociale, chi non lavora non esiste. In un mondo sempre più regolato dalla tecnica che tende al dominio della terra, ogni azione, anche quella di svago, assume le sembianze del lavoro che copre l'intero arco delle 24 ore, e non ha più nel riposo e nell'ozio il suo contrario, perché anche lo sport, il divertimento, il tempo libero, il fine settimana sono "un contrappeso dalle tinte giocose all'interno del lavoro, ma in nessun caso il contrario del lavoro". E così "lavoro" diventa anche l'attività di sovrani, presidenti, primi ministri che considerano "lavoro" le loro funzioni, come lavoro è diventata l'attività dei medici, dei giudici, degli intellettuali che sempre meno rispondono ai valori della salute, della giustizia, della cultura, perché anche la salute, anche la giustizia, anche la cultura sono diventate campi di applicazione del lavoro. L'ideologia della crescita non ha in vista alcuna finalità che non sia il suo semplice autopotenziamento, e il lavoro e l'uomo che lavora non hanno altro fine se non quello di concorrere alla crescita infinita della produzione di mezzi. La regia della storia oggi non è più nelle mani della politica, ma in quelle dell'economia il ha subordinato a sé l'agire, ossia la scelta dei fini a cui da sempre sono deputate l'etica e la politica, a cui spetta decidere quale orientamento dare al "fare", e quali delle azioni politiche sono da "fare". Allora è evidente che il problema del lavoro, in cui trova espressione il fare produttivo, non può essere considerato limitatamente all'ambito dell'economia, perché ciò vorrebbe dire che solo l'economia è in grado di dare espressione all'uomo, il quale, a sua volta, non avrebbe come suo riferimento altro orizzonte di senso se non quello determinato dal fare produttivo. Bisognerebbe passare dal lavoro come produzione al lavoro come servizio, dove la produzione non ha in vista solo beni e merci ma anche erogazione di tempo, cura e relazione. Nel mondo dell'opulenza compriamo, in modo maniacale e compulsivo, merci per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di relazioni, che siano vere e non solo funzionali come esige la logica del lavoro.



3. Il mercato dell'intimità

Il modello di sviluppo senza limiti ci ha portati a commercializzare persino la nostra vita intima, come è evidente tutte le volte che affidiamo i bambini alle baby-sitter, i vecchi alle badanti, ecc. L'indebolimento della famiglia e dell'appartenenza a una comunità ha creato un vuoto culturale che è stato riempito dal mercato, il quale oggi offre servizi che si incaricano di trovarci l'anima gemella, di organizzarci nozze, feste di compleanno, visite agli anziani, e altro a cui più o meno siamo soliti ricorrere, per cui tutto ciò che il mercato ci toglie con l'allungamento degli orari di lavoro o con l'impiego di entrambi i componenti la coppia genitoriale, poi ce lo offre in vendita sotto forma di servizi a pagamento. E noi accettiamo, perché la dipendenza degli individui dal mercato è mascherata dall'ideologia dell'indipendenza. Potendo pagare, recita l'ideologia dell'indipendenza, uno può realizzare se stesso, affidando al mercato la cura della famiglia. Il denaro può tutto, può restituirci a pagamento tutto quello che non abbiamo acquisito vivendo. A dissolvere la famiglia è stato il capitalismo. Il mito dell'efficienza, che all'inizio del secolo scorso Taylor aveva applicato alla catena di montaggio per eliminare i "tempi morti", oggi si è trasferito dalla fabbrica alla famiglia, dove gli adulti non hanno tempo. E allora viene in soccorso il mercato, con i suoi prodotti già pronti: il mercato individua subito il problema e propone una merce come soluzione. Quando non c'è la merce, il mercato vende quella che Hochschild chiama l'ideologia del "tempo qualità", per cui non è necessario che, in occasione del compleanno del suo bambino, la madre prepari la torta ecc ma è sufficiente che si affidi a un'agenzia di servizi che, oltre a farle guadagnare tempo, le regala quel "tempo qualità" che consiste nel godersi la festa insieme al suo bambino. Ma il tempo non è qualità!

4. Il mondo del lavoro e il mondo della vita

Il lavoro sembra sia diventato rimedio all'angoscia. La nostra interiorità, dove dovremmo riconoscerci, più non risuona e non sa rispondere a quelle domande che chiedono: che rapporti abbiamo con i nostri familiari, chi siamo per loro, ecc. Questo perché, nella nostra cultura, il lavoro sembra diventato l'unico indicatore della riconoscibilità dell'uomo. Il quale prende a delineare la sua identità a partire dalle sue capacità in termini di funzionalità ed efficienza, a misurare la sua libertà a partire dalle possibilità che gli offre la sua competenza tecnica, ad acquisire stima di sé a partire dal riconoscimento che gli proviene dall'apparato di appartenenza, fino ad annullare la sua interiorità, nell'omologazione richiesta dalla cultura dell'efficienza e della produttività. E questo soprattutto in un regime di economia globalizzata, dove si vince solo se si è tecnicamente più avanzati e dove la concorrenza esasperata chiede ogni anno un'accelerazione dei ritmi di prestazione. E di questo la nostra anima soffre e forse anche il nostro sistema nervoso. Recenti ricerche hanno rilevato che tra quanti lavorano, c'è la tendenza a mettere al primo posto, tra le richieste, non più il denaro o i benefit, ma il tempo libero, quasi ci si fosse resi conto che, se è vero che per vivere occorre lavorare, non è più vita quella totalmente assorbita dal lavoro. Lo spostamento dell'auto-realizzazione nel mondo del lavoro, con conseguente derealizzazione nel mondo della famiglia e degli affetti, ha fatto crollare anche l'ideologia del "tempo qualità", che poi non è altro che il modo con cui, ingannandoci, si chiama il tempo che si dedica agli affetti quando non si ha tempo. Chiedere tempo libero e non più solo denaro e benefit è un modo per recuperare l'umano e non soccombere a quell'atrofia emotiva in cui uno non solo non è più in grado di riconoscere l'altro, ma alla fine neppure se stesso.

5. Da un'economia per la crescita a un'economia per l'uomo

Un modo per emancipare l'uomo dai condizionamenti economici, e riconsegnargli la sua dignità, è stato pensato e attuato nei paesi sottosviluppati da Muhammad Yunus, per aver fondato la Grameen Bank, un istituto di credito che pratica alle donne del 3° e 4° mondo un prestito senza garanzie, oggi diffuso in 80 paesi di ogni parte del mondo e in quarantamila villaggi del Bangladesh (paese natale di Yunus). La banca fondata nel 1977, oggi è in grado di raggiungere 100 milioni di famiglie poverissime, presta denaro solo ai più poveri, a coloro che non hanno nulla da offrire in garanzia, e quindi sono respinti dagli istituti di credito tradizionali. La carità può avere effetti devastanti. Infatti, chi raccoglie denaro mendicando non è motivato a migliorarsi. Così nacque Grameen, la Banca dei poveri, a partire dalla persuasione che: i poveri sono solvibili e si può prestare loro del denaro in un'ottica commerciale, cioè ricavandone un profitto. Le banche potrebbero e dovrebbero servire i diseredati, non solo per altruismo, ma per interesse commerciale.


Date: 2015-12-24; view: 641


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