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Il mito del mercato

1. La razionalità del mercato: dallo scambio simbolico al valore di scambio

Il mercato, nella sua accezione moderna, ha rappresentato quel passaggio cruciale e decisivo che ha consentito agli uomini di regolare i loro rapporti non più in termini di violenza e sudditanza, ma in termini di razionalità. Ciò è stato possibile visualizzando gli uomini non più come persone, ma come titolari di interessi. Questo processo di progressiva de-personalizzazione delle relazioni sociali è stato compensato da un aumento delle libertà individuali, quindi attraverso una perdita e un guadagno. Prima dell'avvento del mercato, che instaura tra gli uomini relazioni regolate dal valore di scambio, reso possibile dal denaro, gli uomini regolavano i loro rapporti attraverso lo scambio simbolico che si esprimeva nella rapina e nel dono, in cui il vantaggio sta tutto da una parte e la perdita tutta dall'altra. Con l'introduzione del denaro, la soggettività si assenta, e nello scambio entrano in gioco solo gli oggetti e il loro valore espresso in denaro. Nello scambio, l'avere e il voler-avere personali si traducono in un'azione oggettiva che va al di là dell'interazione dei soggetti, prescinde dai rispettivi impulsi e prevaricazioni, perché chi riceve nello stesso tempo dà. In questo modo il mercato diventa autonomo rispetto al sociale, innanzitutto perché riflette il puro valore mercantile delle cose e non più il rapporto degli uomini fra loro, e in secondo luogo perché esprime la forma più alta di razionalità, in quanto spoglia i beni dei loro significati simbolici e adotta come indice di valore non l'attribuzione di appartenenza, ma la loro scambiabilità. Questo capovolgimento, che autonomizza il mercato dal sociale per erigerlo a forma più elevata di razionalità, è indicato da Marx come il tratto rivoluzionario della borghesia, ossia della classe che tramuta tutta la ricchezza in ricchezza mobile, risolvendo il rapporto tra uomini in rapporto tra cose. Il denaro, con la sua oggettività e impersonalità, è la prima macchina di liberazione dai vincoli dell'obbligazione perché, con l'introduzione di questo strumento tecnico, il rapporto di dipendenza non riguarda più la persona di chi è investito dall'obbligo, e neppure il risultato del suo lavoro, né il prodotto in sé e per sé, ma solo quella rappresentazione dei valori produttivi che lascia la persona libera di muoversi come vuole, con l'unico vincolo di attenersi a quei patti che trovano la loro attuazione nello scambio. Lo scambio attraverso il denaro rappresenta, come ricorda Simmel, il più grande progresso della civiltà, perché fa sì che l'appagamento di un bisogno non si colleghi per forza a una rapina o furto. Attraverso questa progressiva oggettivazione dei rapporti, il mercato ha liberato gli uomini dalla sudditanza personale, anche se ha fatto pagare il conto della loro depersonalizzazione. Nelle relazioni umane, infatti, siamo diventati più liberi, ma anche più impersonali, perché entriamo in relazione con i nostri simili non come persone, ma come titolari di interessi. Viene così in luce che ai rapporti di interdipendenza tra uomini si sostituiscono i rapporti di concorrenza mediati dallo scambio delle merci, alla gerarchia sociale espressa da valori qualitativi succede la stratificazione sociale misurata, in termini quantitativi, dalla ricchezza disponibile, all'universo dei simboli, da cui ciascun individuo era circondato dalla nascita alla morte, subentra quel processo di codificazione che riconduce tutto al codice monetario, che meglio risponde alle esigenze di calcolo proprie della razionalità del mercato. In questo modo il mercato non solo si rende autonomo dal sociale, ma imprime al sociale la sua forma, che è poi quella della ragione calcolante, in cui anche l'individuo ha cittadinanza, ma solo come fattore di calcolo.



2. La personificazione dell'individuo e il principio di uniformità

Risolvendo il mondo nel mondo del denaro, l'economia spoglia la nozione di società e la nozione di individuo di ogni valenza qualitativa e, visualizzando l'una e l'altro da un punto di vista solo quantitativo, riduce la società a mercato, e l'individuo a sintesi dei suoi interessi materiali. Con questa duplice riduzione, la società diventa il luogo della libera competizione degli interessi individuali, mentre l'individuo conserva la propria qualità di essere sociale solo in quanto persegue i propri interessi materiali, in quel luogo di interazione automatica di interessi contrastanti che è il libero mercato. Ma là dove la società è ridotta a mercato, nonostante l'ideologia celebri il trionfo dell'individuo (individualismo) e della sua libera iniziativa (liberismo), in realtà ciò a cui si assiste è il declino dell'individuo e la sua progressiva estinzione. Nel mercato, infatti, sono gli interessi a porre in relazione gli individui, i quali interagiscono non in quanto individui con le loro specificità e peculiarità, ma in quanto titolari di interessi, in quanto personificazioni per cui il volto dell'individuo scompare sotto la maschera del rappresentante di interessi. Le persone esistono qui l'una per l'altra soltanto come possessori di merci o come rappresentanti di merci. E quindi solo come maschere economiche, come personificazioni di rapporti economici, esse si trovano l'una di fronte all'altra. In quanto meri rappresentanti delle cose che possiedono o delle funzioni che svolgono, tendono a diventare sempre più simili gli uni agli altri. La distinzione pubblico-privato, che l'economia sembrava ancora tutelare, verrà ridotta nell'età della tecnica, perché la tecnica farà del privato il semplice riparo del pubblico, il luogo più intimo del suo assorbimento.

3. La riduzione della libertà personale a libertà di ruolo

A questo punto diventa interessante considerare da vicino la natura della nostra libertà, nel regime ormai consolidato dell'economia di scambio che ha spostato il concetto di libertà dal semplice "diritto di obbedire o disobbedire", tipico delle società antiche al "diritto di scegliere", dove però la scelta non riguarda il tipo di personalità da esprimere, ma il tipo di prestazione a cui vincolarsi. "Ruolo" era un tempo il rotolo di pergamena sul quale l'attore del teatro leggeva la sua parte. Nella rappresentazione teatrale interessante non era l'attore in quanto persona privata, ma il "carattere" che l'attore rappresentava. Da quando la situazione teatrale divenne schema interpretativo del sistema sociale, la nozione di ruolo servì per definire l'identità sociale o pubblica distinta dall'identità personale o privata. Oggi, nel mercato, che ha risolto l'identità di ciascuno di noi nella "funzione" o "prestazione" che svolgiamo nell'apparato economico, questa distinzione tende ad annullarsi, perché se l'identità è il frutto del riconoscimento, e il riconoscimento avviene solo a livello di funzioni e prestazioni, il ruolo, che definisce l'identità sociale, definisce anche l'identità personale, la quale, se volesse distinguersi da quella sociale, non avrebbe altra via se non quella di astenersi dal ruolo, e quindi dalla socializzazione che passa solo attraverso gli scenari dischiusi dai ruoli. Nelle culture più avanzate, come osserva Simmel, la relazione di appartenenza non è più decisa dalla carne e dal sangue, ma da quell'insieme di norme convenute che fanno dei membri di una comunità dei cittadini di uno Stato. L'identità familiare e tribale viene superata dall'identità statale, che non è un semplice allargamento della famiglia o della tribù, ma la differenziazione interna dei soggetti giuridici tra loro. Nell'epoca dischiusa dal mercato globalizzato l'identità trova espressione nella capacità dell'individuo di prendere nelle proprie mani l'organizzazione dei ruoli che esercita, mentre la sua libertà risulta proporzionale alle possibilità di accesso ai diversi ruoli. Solo esercitando la libertà come distanza e quindi come non-identificazione, l'individuo evita da un lato la follia sottesa alla pretesa assolutezza della propria individualità, e dall'altro l'anonimato conseguente all'appiattimento della propria individualità nella funzionalità del ruolo.

4. La reificazione dell'uomo e la definitiva impraticabilità della rivoluzione

Una volta ridotto l'uomo alla sua funzione "mercantile", l'individuo è costretto a presentarsi con quella maschera in cui sono scolpiti i tratti del suo impiego. Con la maschera in volto, l'uomo si dà come rappresentante del mercato che lo genera come esecutore di un'attività che non lo esprime. Ciò significa: dal punto di vista oggettivo che il mercato crea un universo di cose e di rapporti tra cose regolato da leggi che esercitano in modo autonomo la propria azione, determinando il valore delle merci e il loro movimento sul mercato. Si tratta di leggi che l'individuo può conoscere e anche utilizzare, ma su cui non può influire mediante la propria azione e tantomeno modificare. Ciò comporta, dal punto di vista soggettivo, che l'attività umana, dovendo modellarsi sulle leggi del sistema mercantile, diventa azione del sistema e quindi sottoposta a un'oggettività estranea all'uomo che la compie e che, compiendola, esprime se stesso come puro funzionario del sistema. La personificazione, con riferimento alla maschera funzionale che l'individuo è costretto ad assumere nel momento in cui entra in un sistema retto da leggi autonome, e la reificazione, con riferimento all'azione dell'uomo, a cui le leggi autonome del sistema attribuiscono lo stesso valore delle cose su cui l'azione si esercita, non sono gli esiti negativi di un sistema oppressivo che una rivoluzione potrebbe modificare, ma sono l'esito di un sistema formalizzato che conosce solo il mondo che costruisce con i suoi calcoli, le sue previsioni e le sue produzioni, i suoi profitti. In questo mondo l'azione di ogni singolo diventa esecuzione di un'attività che non scaturisce tanto da lui quanto dalla razionalità dell'apparato, rispetto al quale l'azione dell'individuo è solo un parziale riflesso delle leggi che lo presiedono. Ciò significa che l'uomo non è più in rapporto con il mondo, ma solo con le leggi che governano il sistema mercantile in cui il singolo si trova a operare. Tutto ciò non è oppressione, ma sistema. Ne consegue che l'intera società è sottoposta alla razionalità del calcolo economico, le cui leggi descrivono e prescrivono le azioni dei singoli individui. Ma quando la reificazione, la riduzione dell'uomo a cosa, non è più l'effetto di una volontà, quindi di un evento irrazionale, ma l'effetto della razionalità del calcolo, allora non avremo più il dominio dell'uomo sull'uomo, ma il dominio della razionalità del mercato su tutti gli uomini, i quali non si trovano più contrapposti l'uno all'altro, ma entrambi dalla stessa parte, avendo come controparte la razionalità che regola le leggi di mercato, contro la quale ogni rivoluzione è impraticabile.

5. Ai margini del mercato: la povertà

Il mercato si regge sull'intreccio fra produzione e consumo, 2 aspetti di uno stesso processo, dove decisivo è il carattere circolare del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci. All'inizio e alla fine di queste catene di produzione (di merci e di bisogni) si trovano gli uomini, come produttori e consumatori, ma il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, solo come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Come ricorda Anders, là dove la produzione non tollera interruzioni, le merci "hanno bisogno" di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia "prodotto". A ciò provvede la pubblicità, per pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. Anders scrive: "Ogni pubblicità è un appello alla distruzione". Si tratta di una distruzione che "non è la fine naturale di ogni prodotto, ma il suo fine". Il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un'esistenza, ma fin dall'inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo, il mercato usa i consumatori come alleati "per garantire la mortalità dei prodotti, che è poi la garanzia della sua immortalità". Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica dove il consumo, costretto a diventare "consumo forzato", eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. Nella società dei consumi, la povertà è inutile e indesiderabile. Del resto la povertà non attrae. È il rimosso di tutti. Nessuno la va a cercare. La carità che si fa con una mano è raramente accompagnata da uno sguardo capace di incontrare lo sguardo di un miserabile, perché la sua vista inquieta. Per giunta è la stessa povertà che tende a nascondersi. Nascosta allo spettacolo quotidiano, espulsa dal linguaggio, la povertà sembra vivere solo nel gesto distratto di una mano che allunga qualcosa che non cambia la nostra esistenza. Siamo costretti a raccontarci un mondo diverso da quello che è. Per questo non sappiamo più chi siamo, perché la rimozione che abbiamo fatto delle condizioni di povertà del mondo è stata possibile solo con l'amputazione della sensibilità e della percezione della nostra esistenza.

6. Oltre il mercato: l'utopia del futuro

Se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale interi Stati vengono costretti a lavorare per conto delle grandi finanziarie e delle grandi imprese. Se questo accade a livello degli Stati-nazione, a livello individuale, i rapporti reciproci, come già aveva previsto Marx, avvengono principalmente, anche se non esclusivamente, in termini di merce che, a livello di circolazione mondiale, conosce una libertà di movimento ancora sconosciuta a miliardi di uomini. In questo processo di totale mercificazione del lavoro, la specializzazione accelerata imposta dal mercato porta alla frammentazione dei processi lavorativi, alla loro divisione e quindi al loro inserimento nel sistema di divisione del lavoro delle macchine a cui, secondo i criteri dell'organizzazione tecnico-scientifica, è delegato il controllo delle funzioni. Tutto ciò comporta, da un lato, che l'uomo diventa sempre più un'appendice della macchina e, dall'altro, per effetto della frammentazione dei processi lavorativi, si ha un offuscamento delle finalità della produzione, con esonero di responsabilità dei singoli lavoratori, a cui non può che risultare del tutto indifferente prestare la loro opera in una produzione di armi o in una produzione di generi alimentari. Essendo il mercato globale, e avendo occupato tutti i luoghi della terra, a contrastarlo, secondo Madera, non resta che u-topia, quel non-luogo dove si sono rifugiati o sono stati confinati personaggi, progetti, idee, proposte, finiti nell'unico posto al mondo che accetta tutti i detriti della storia. Da questo non-luogo non possono nascere, oggi, organizzazioni di contrasto, strategie di riscatto o rivoluzioni liberatorie, ma solo una chiamata che viene dal futuro, dalle sorti future della terra e dell'uomo, simile alla chiamata che un giorno mosse Abramo. Infatti l'unica civiltà che si va diffondendo, a scapito di tutte le altre possibili espressioni tradizionali e non, è la civiltà del profitto, che oggi appare come l'unico generatore simbolico dell'ordine che deve regnare sulla terra e della partizione dei ruoli che gli uomini, sia quelli affamati sia quelli sazi, devono assumere per avere diritto di cittadinanza.


Date: 2015-12-24; view: 752


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