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Il mito della follia

1. Le vie errabonde della psichiatria

La cultura del tempo e la cultura del luogo incidono molto sulla "malattia mentale". Già Kant avvertiva: "C'è un genere di medici, i medici della mente, che ritengono di aver scoperto una nuova malattia ogni volta che escogitano un nome nuovo". È noto che la malattia mentale ha bisogno di vittime e di espertià oggi pazienti/specialisti. Dove ci sono le pazienti, ma non gli esperti la malattia non è individuata, nè avvertita. È il caso di coloro che abbandonano la propria casa e fanno perdere le loro tracce, affetti da disturbi mentali reali o vittime di concettualizzazioni psichiatriche. Le fughe, cioè i viaggi strani e imprevedibili, erano conosciuti da sempre, ma solo dopo la denominazione degli specialisti divennero una malattia che nei manuali psichiatrici ricorse fino agli anni 20 e poi scomparve. Dai manuali o dalla realtà? Questo è il problema che si pone Ian Hacking: quante malattie mentali esistono realmente e quanti sono solo dei "deliri scientifici" dove la malattia scaturisce con medici e media. È il caso dell'"autismo subclinico", diagnosi data a quanti, impacciati nei movimenti e restii a stringere nuove amicizie, vengono considerati dagli esperti (a loro volta condizionati dai modelli di socializzazione diffusi dai media) non come individui solitari o solo un po' imbranati, ma come malati. Le definizioni continueranno a fare vittime, se è vero, come sosteneva Ludwig Wittgenstein, che "la psicologia è quella scienza fatta di metodi sperimentali e confusione concettuale". C’è confusione concettuale perché le malattie dell'anima, a differenza di quelle del corpo, sono molto legate al sistema di credenze che al momento dominano, al punto da modificare il modo di pensare noi stessi, nonché la concezione che abbiamo di noi e dei nostri simili. Sono i pregiudizi con cui giudichiamo a farla da padroni. Si prenda ad esempio la "sindrome premestruale". Si tratta di un disturbo reale o di un pregiudizio scientifico? Lo stesso dicasi a proposito dei bambini irrequieti che sono sempre esistiti, prima detti affetti da "iperattività", poi "da deficit di attenzione da iperattività", quindi da vero e proprio disturbo clinico che si può sanare. Ian Hacking definisce nicchia ecologica per spiegare quelle malattie transitorie come la fuga, diffusa per un certo tempo in Europa continentale, ma non in Inghilterra e in America, dove mancava il vettore della polarità culturale e dell'osservabilità, perché in America i viaggiatori non erano soggetti a controlli e il vagabondaggio non era ancora considerato un problema sociale. Il criterio della nicchia ecologica, che Hacking limita alle malattie "transitorie", potrebbe forse essere esteso a malattie ora considerate "non transitorie", come il disturbo dissociativo dell'identità, come (personalità multipla), l'anoressia, il gruppo delle schizofrenie e infine la depressione che, come ricorda Alain Ehrenberg, non è più caratterizzata dal senso di colpa ma dal senso di inadeguatezza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, come sempre più di frequente succede nell'attuale società dell'efficienza. La psichiatria dovrebbe affiancare alla ricerca genetica e biologica un'alta sensibilità e attenzione per le trasformazioni sociali. Ma per questo occorre una cultura umanisticaànon si può curare la mente, che è l'organo che sintetizza cultura, prescindendo dalla cultura che è il lavoro della mente.



2. La follia e le peripezie delle diagnosi psichiatriche

Chi sono gli psichiatri? Sono i medici dell'anima (psyché) preposti alla sua cura. Per curare l'anima bisogna conoscerla. Ma gli psichiatri si sentono esonerati dalla conoscenza dell'anima individuale, perché a loro basta conoscere i sintomi della malattia, che sono poi quelle espressioni dissonanti rispetto al modo comune di essere al mondo che, in quanto dissonanti, vanno curati. Il modo comune di essere al mondo varia di epoca in epoca e da regione a regione. La psichiatria dunque, per un lungo periodo si affida, più che al sapere, alle richieste d'ordine che di volta in volta provengono dal sociale, rubricando nella forma della malattia tutto ciò che l'ordine sociale espelle da sé. Eppure, come ricorda Franco Basaglia, dovremmo sapere che la follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica la psichiatria di tradurre la follia in malattia per eliminarla. Il manicomio fa diventare razionale l'irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Oggi i manicomi sono stati chiusi e i folli affidati al trattamento biochimico. Nel 1913 si affermò la psicopatologia che è "logia", un sapere, tentativo di comprendere la fenomenologia dei sintomi a partire dal modo in cui si esprimono in ciascun individuo. Sia il "sano" sia il "folle" appartengono allo stesso mondo, anche se il folle vi appartiene con una struttura di modelli percettivi/comportamentali differenti. A differenza della filosofia, la psichiatria, come ricorda Foucault, mettendo la follia tra le malattie, si istituisce non come cura della diversità, ma come cura che tutela i "sani" dalla loro paura della diversità. E allora forse è bene che la filosofia intervenga accanto alla psichiatria. Dialogando con la filosofia e con la psicopatologia, la psichiatria potrebbe uscire dal mondo chiuso dei "corpi", divenuti per la psichiatria "anime", e apprendere che normalità e follia hanno una loro unitarietà nell'atto stesso della nascita della coscienza, partendo dal quale è possibile dire che: come noi parliamo della follia, così la follia parla di noi. Per la psichiatria dei giorni nostri la follia è solo una faccenda biochimica.

3. Il dilemma della psichiatria: scienza naturale o scienza umana?

Oggi al manicomio si è sostituita la chimica, che circoscrive la follia non nel recinto di una costruzione, ma nel chiuso dell'anima individuale. A opporsi all'orientamento biologico e classificatorio che la psichiatria italiana va assumendo sotto l'influenza della psichiatria americana è Bruno Callieri, secondo il quale la psichiatria non è più scienza del disagio mentale, ma scienza delle nostre difese nei confronti del disagio mentale. Nel bisogno di costituirsi come scienza sul modello delle scienze naturali, invece di mantenersi al livello di scienza umana come sembrerebbe richiedere il suo oggetto, la psichiatria non vede più l'uomo, ma la malattia, a cui rivolgersi con un atteggiamento di fredda neutralità e obiettiva distanza, con gli occhi puntati sui sintomi, lasciando al buio quei nodi di significato che si addensano e si stratificano nei sintomi. Per questo tipo di sguardo, oggi dominante perché sostenuto da un lato dall'industria farmaceutica e dall'altro dall'ansia sociale e familiare a cui interessa solo la riduzione dei sintomi che sono fonte di inquietudine e di lacerante angoscia, osserva Callieri, può esistere solo la malattia. La psichiatria, non è e non può essere scienza della natura, perché, come osserva Gaston, le scienze naturali sono scienze di leggi dove i singoli fatti hanno valore non per la loro singolarità, ma per la loro ripetibilità, mentre la psichiatria si occupa "di singole persone, di singoli fatti, di espressioni isolate e uniche, di particolarità, non solo singolari, ma addirittura irripetibili". Per comprendere chi soffre è necessario che la psichiatria rinunci alla sua pretesa scientifica per conciliarsi con la sua dimensione clinica. Clinica non è diagnosi e prognosi. Clinica è declinazione; l'atteggiamento clinico, invece di assestarsi nel suo sapere deve declinarsi in quella verità che l'altro abita, per intenderla là dove scaturisce nella sua condizione meno mascherata. Il colloquio è fatto solo di parole, ma le parole non si dicono solo, si ascoltano anche. Se poi, invece della parola, c'è il silenzio dell'altro, allora ci si fa guidare da quel silenzio.

4. La psichiatria fenomenologica e le figure dell'ascolto e dello sguardo

Perché la follia sta diventando solo una faccenda "medica" e non più un evento "umano"? Per gli psichiatri (perché non traducano subito follia in malattia) e tutti noi (per non cancellare, fino a dimenticarle, le parole dell'anima) 2 contributi, di Borgna e Callieri, che sono oggi i 2 maggiori psicopatologi italiani. Seguendo l'intuizione del poeta romantico Clemens Brentano, Borgna legge la follia come "la sorella sfortunata della poesia". La condizione esistenziale di noi tutti trova un suo riflesso, una sua descrizione. C'è, infatti, una creatività sempre inserita nella follia, c'è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo. Borgna riesce a individuare e a descrivere le differenze tra le connotazioni maschili e femminili dell'anoressia nella sua immersione in un presente divorato dal desiderio narcisistico di un corpo "altro" da quello che si ha, i diversi modi maschili e femminili di vivere la tristezza vitale della depressione e di immaginare la morte volontaria come ultimo orizzonte di una speranza divenuta impossibile. E ancora, riconoscere i volti dell'angoscia nelle differenti risonanze maschili e femminili di vivere gli sconvolgimenti emozionali e le metamorfosi relazionali, dove, come in uno specchio, è dato cogliere, oscuramente, quel che è in ciascuno di noi, perché ciascuno di noi, anche se non se ne rende conto, è quotidianamente impegnato ad armonizzare le dissonanze tra il mondo della ragione e il mondo della follia che ci abita. E a proposito di "mondi", Callieri descrive, il mondo della vita che ha per soggetto l'esistenza con i suoi vissuti, e non l'"organismo" a cui la pratica medica ha ridotto la nozione di "corpo". Infatti, quando in gioco è la sofferenza dell'esistenza, rapportarsi a un "apparato organico" come fa la medicina o a un "apparato psichico" come fa la psicologia è diverso dal rapportarsi a un corpo vivente che dispone di una sua esperienza e di un suo mondo. Per tematizzare le figure dell'ascolto, e più in generale della relazione medico-paziente, Borgna preferisce attingerne le modalità non dal linguaggio clinico, ma da quello poetico, perché i poeti osano spingere l'esperienza umana fino al suo limite, affinché ceda il suo senso o il suo non-senso in quegli abissi di verità che la poesia, la letteratura e talvolta la filosofia sanno raggiungere, al di là delle diagnosi cliniche, il cui vocabolario, spesso, sembra solo un'armatura difensiva. Perché un ascolto sia un buon ascolto e possa dar luogo a un dialogo costruttivo tra medico e paziente, è necessaria da parte di entrambi un'apertura al futuro, a cui sono connesse l'attesa e la speranza. Entrambe, infatti, per Borgna, hanno a che fare con il futuro, quindi con la vita a venire. C'è nesso tra attesa e angoscia. Così, a parere di Borgna, va instaurata la relazione medico-paziente, a partire dall'attesa scritta nello sguardo del paziente e dalla risposta a quell'attesa ignorata dallo sguardo del medico, che spesso non vede persone ma sintomi, non percepisce vissuti ma deragliamento di comportamenti, e soprattutto pensa di poter guarire un'anima prescindendo dall'anima. Quando lo sguardo si fa clinico, la competenza ha il sopravvento sull'umanità. Invece lo sguardo del medico, più del farmaco, può restituire speranza all'attesa nello sguardo del paziente, perché la speranza, guardando più lontano e ampliando lo spazio del futuro, distoglie l'attesa dalla concentrazione sul presente e, liberandola dall'immediato, la dilata in orizzonti che la concentrazione sul presente aveva cancellato.

5. Lo sguardo fenomenologico sull'abisso della depressione

Affrontare la depressione con i farmaci significa toglierle la parola e non capire la sua verità, la terapia farmacologica, a cui sempre più si rivolge il sapere psichiatrico, evita di perforare il silenzio e cercare di raggiungere quel grido taciuto, che è tale perché non c'è più ascolto che possa raccoglierlo. Se vogliamo capire qualcosa della nostra esistenza non possiamo far tacere quel grido. A questo punto, al posto della parola intervengono il Prozac o gli antidepressivi a desertificare, non a curare, la tristezza del cuore. Non si può parlare di disperazione, perché l'anima del depresso non è più solcata dai residui della speranza. C’è bisogno di comunicazione. Lo sguardo di pietra del depresso vede menzogna nella somministrazione del farmaco, e soprattutto nello sguardo di coloro che glielo propongono: uno sguardo da cui traspare desiderio di voler seppellire il buio del silenzio, troppa speranza nel voler annullare la disperazione. Non bisogna rinunciare alla parola e all'ascolto, perché il depresso racconta quella verità che, con la nostra vita euforica, ogni giorno noi seppelliamo. La verità del depresso è che la vita è anche dolore e che il dolore cresce quando il nostro cuore resta inascoltato. La prima funzione dell'antidepressivo è di mettere a tacere il cuore. Con l'antidepressivo non abbiamo restituito la gioia di esistere, abbiamo solo trovato un modo sbrigativo per non essere in dialogo con lui. A differenza del farmaco, il dialogo dispone solo di parole, ma le parole si fanno potenti quando non solo si dicono, ma si ascoltano anche.

6. La malattia dell'Occidente

In Italia si suicidano 10 persone al giorno e altre 10 ci provano, perlopiù donne e anziani che hanno fatto un deserto della loro speranza. A questi si aggiungono 10 milioni di "sofferenti mentali" che coinvolgono intorno al loro dolore molte famiglie. È un quadro allarmante, non a tutti noto, perché il disagio mentale tende a nascondersi. Dunque l'anima sta male: abitano i paesi industrialmente e tecnicamente avanzati, dove gli uomini sono sempre meno "soggetti" della loro vita e sempre più "funzionari" degli apparati che li impiegano e concedono loro le condizioni per vivere. Alla base c'è quel deserto affettivo che è diventato il paesaggio abituale dell'uomo occidentale e che la psichiatria chiama depressione. Negli anni prima la malattia per eccellenza era la nevrosi, caratterizzata da un rapporto individuo-società differente. Nel rapporto tra individuo e società, la misura dell'individuo ideale non è più data dalla docilità e dall'obbedienza disciplinare, ma dall'iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L'individuo non è più regolato da un ordine esterno, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, per raggiungere risultati a partire dai quali verrà valutato. In questo modo, dagli anni 70 in poi, la depressione ha cambiato forma: non più il conflitto nevrotico tra norma e trasgressione con conseguente senso di colpa, ma, in uno scenario sociale dove non c'è più norma perché tutto è possibile, depressione nasce da un senso di insufficienza e di inadeguatezza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le aspettative altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso. Qui intervengono i nuovi farmaci antidepressivi che hanno lo scopo di sopprimere l'insonnia e l'ansia, oppure la perdita più o meno estesa di iniziativa, l'inibizione all'azione, il senso di fallimento. Oggi è saltato il concetto di limite. E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che essere di inadeguatezza, ansia, e infine di inibizione. Tratti, questi, che entrano in collisione con l'immagine che la società richiede a ciascuno di noi. Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, psicofarmaci e droghe inducono il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società. Sappiamo che alla base del disagio psichico c'è una sofferenza affettiva. E l'amore non ha costi sociali. Lo si può diffondere con generosità e anche con piacere, se solo le nostre anime non sono del tutto desertificate. In caso diverso, avremmo individuato la vera malattia dell'Occidente.

7. La follia come condizione umana

Nel 1978 Franco Basaglia riuscì a far approvare in Italia la legge 180 che sancì la chiusura dei manicomi. La chiusura dei manicomi era, negli intenti di Basaglia, solo un primo passo verso un sommovimento della società e una rivisitazione dei rapporti sociali a partire dalla clinica, che a suo tempo era nata per tutelare la cattiva coscienza della società, la quale, per garantire la sua quiete e i rapporti di potere, aveva incaricato la clinica di fornire le giustificazioni scientifiche (allo stato attuale delle conoscenze psichiatriche molto dubbie) che rendessero ovvia e da tutti condivisa la reclusione dei folli. Per rendere il suo servizio, la clinica ridusse la follia a malattia che, per essere curata, deve essere sottratta al mondo in cui essa ha origine, che è poi quel mondo-della-vita. La chiusura dei manicomi non era lo scopo finale dell'operazione basagliana, ma il mezzo grazie al quale la società poteva fare i conti con le figure del disagio che la attraversano quali la miseria, l'indigenza, la tossicodipendenza, l'emarginazione e persino la delinquenza, a cui la follia non di rado si imparenta. Basaglia tenta l’accettazione da parte della società della figura della follia, da lui definita condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Accettando la condizione di parità tra medico e paziente, Basaglia scopre che, restituendo al folle la sua soggettività, questi diventa un uomo con cui si può entrare in relazione. Scopre che il folle ha bisogno non solo delle cure per la malattia, ma anche di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche il medico che lo cura ha bisogno. Insomma: "Il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità". Trattato come uomo, scrive Basaglia, "il folle non presenta più una malattia, ma una crisi", crisi vitale, esistenziale, sociale, familiare, che diventa permanente e definitiva se il folle, che si è perso nel mondo, viene sottratto al mondo per essere più o meno definitivamente rinchiuso in quel non-mondo: manicomio. Oggi a essere minacciata è la società come istituzione totale, dove troppi individui, nel tentativo di gestire al meglio i propri umori, preferiscono, alla relazione sociale, il ricorso quotidiano alle pillole.

MITI COLLETTIVI


Date: 2015-12-24; view: 780


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