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Il mito della psicoterapia

1. La medicalizzazione della condizione umana

C’è un continuo ricorso ai termini "sindrome da ansia generalizzata" per dire che uno è preoccupato, "ansia sociale" per dire che uno è timido, "fobia sociale" per dire che uno è molto riservato, "libera ansia fluttuante" per chi non sa di che cosa si preoccupa. Negli anni 70, la parola "sindrome" non compariva né sui giornali né nelle aule dei tribunali. Col tempo fa capolino in giornali e riviste. Anche la parola "autostima" era sconosciuta negli anni 70 e oggi diffusissima nei media, a scuola, nei servizi sanitari, sul posto di lavoro e nel linguaggio quotidiano. Dalla mancanza di autostima oggi si fanno dipendere insuccessi, depressioni e condotte. Infine, il "trauma" non viene più considerato una reazione emotiva a un evento doloroso o sconcertante, ma generatore di un progressivo disadattamento alla vita, tale da condizionarla per tutto il suo corso e quindi bisognoso di assistenza terapeutica. Ma che cosa c'è sotto questo cambiamento linguistico, per cui esperienze fino a ieri ritenute normali, oggi vengono inserite tra le sindromi psicopatologiche? Secondo Frank Furedi la patologizzazione di esperienze umane, fino a ieri ritenute normali, risponde all'esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di "pensare" ma soprattutto nel loro modo di "sentire". Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di comunicazione che, dalla tv ai giornali, con sempre maggiore insistenza irrompono nella parte discreta dell'individuo per ottenere non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, sondaggi d'opinione, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d'amore, trivellazioni di vite privateàè lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, sensazioni. "Non aver nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi" significa che le domande del conformismo e dell'omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno, per togliere di mezzo ogni interiorità come un impedimento, ogni riservatezza come un tradimento, per apprezzare ogni volontaria esibizione di sé come fatto di lealtà, se non addirittura di salute psichica. Effetto: attuare l'omologazione della società fin nell'intimità dei singoli e portare a compimento il conformismo. Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l'autenticità, l'essere se stesso, il conoscere se stesso, che l'antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell'anima, diventa nelle società conformiste e omologate qualcosa di patologico, come può esserlo l'essere centrati su di sé (self-centred), la scarsa capacità di adattamento (poor adaptation), il complesso di inferiorità (inferiority complex). Quest'ultima patologia lascia intendere che è inferiore chi non è adattato, e quindi che "essere se stesso" e non rinunciare alla specificità della propria identità è una patologiaàideale di salute proprio quell'essere conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia. Furedi conclude che l'imperativo terapeutico che va diffondendosi in questa società ha lo scopo di promuovere non tanto l'autorealizzazione, quanto l'autolimitazione degli individui che, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura la gestione della loro esistenza, che è la cosa più desiderabile per il potere.



2. Il rimedio farmacologico

La condizione d'abbandono che percorre i bambini, senza la speranza di una comunicazione credibile, non consente in loro la formazione di quel nucleo caldo che, ben consolidato nell'infanzia, è la miglior difesa contro la depressione. Ma che cos'è la depressione? Quella condizione dell'anima che si registra quando il mondo circostante non ci dice più nulla e il mondo immaginario, quello dei nostri sogni e dei nostri progetti, tace. La nostra cultura, la nostra civiltà, all'apparenza così piena di stimoli e di sollecitazioni, crea dei bambini e degli adolescenti depressi. Il problema, infatti, è nell'origine del male, e non nell'autorizzazione del rimedio farmacologico che, quando interviene, agisce su un terreno psichico ormai inaridito, e non per innaffiarlo e ridargli vita, ma solo per togliergli la sembianza dell'aridità. Purtroppo, però, i farmaci non sono un rimedio sufficiente alla comunicazione mancata. Possono mascherare un sintomo ma non curare il male. E una volta che a un bambino abbiamo fatto mancare la fiducia di base, il male è già accaduto e non c'è Prozac o Ritalin che possa porvi rimedio. Per creare la fiducia di base è necessario tempo da trascorrere con i bambini e adolescenti. Viviamo in una società che ha perso tutti i legami parentali, dove solitudini familiari si vedono costrette ad assoldare baby-sitter.

3. Il rimedio psicoanalitico

Akeret, psicoanalista americano, vuol capire se l'analisi ha fatto qualcosa nella vita: la psicoanalisi non serve a guarire, ma a sentirsi più vivi e quindi più capaci di partecipare a tutta una gamma di emozioni. Sulla crisi della psicoanalisi riflette anche lo psicoanalista Lucio Russo secondo il quale la psicoanalisi non enuncia leggi immutabili della psiche umana, ma figure epocali, inevitabilmente soggette al declino e alla fine, se non si rinnova l'incontro della soggettività degli analisti con l'oggettività del loro tempo. E l'oggettività che il nostro tempo segnala è, per Lucio Russo, la depressione, non per lutto e malinconia come voleva Freud, ma per indifferenza dell'anima, che è un tratto tipico della nostra epoca: l'origine del male è più profonda di quanto finora non si fosse sospettato. La tesi è che, se la terapia vuole adattare l'individuo a una società che genera malessere, finisce per generare ulteriore malessere nell'individuo e nella società. Conclusioni che collegano la psicoanalisi al racconto/narrazione: il racconto compone i fili sparsi della propria storia facendo, di un groviglio annodato di fili, un tessuto in cui traspare la trama della propria esistenza che è meglio conoscere che ignorare. L'analisi, in questa visione, è poco "analitica" e molto "ricostruttiva". Si tratta di ricostruire, attraverso la narrazione di sé a sé, il disegno della propria vita, in modo da reperire le tracce della propria identità consolidata, e delle identità potenziali appena accennate, in cui sono le chance di trasformazioni future. Scopo dell'analisi non è la guarigione, ma la conoscenza di sé, di cui solo il racconto può farsi mediatore, ricostruendo la nostra trama che, senza analisi, siamo soliti lasciare in frammenti di solitudine. Che ne è allora della psicoanalisi nel nostro tempo? La psicoanalisi non è in buona salute. Forse le sue categorie portanti hanno in mente un uomo che non c'è più, forse la struttura della nostra società a sfondo metropolitano ha ridotto di molto la possibilità di comunicazione che gli uomini hanno sempre conosciuto come prima forma di cura, forse i singoli individui si sono fatti con loro stessi afasici a tal punto da non aver più nulla da dirsi, per cui decidono che è meglio perdersi nel rumore del mondo con qualche farmaco a portata di mano.

4. La vulnerabilità della condizione umana

Forse la sofferenza, che di tanto in tanto costella la vita umana, non è necessariamente una patologia che richiede in sempre medicalizzazione farmacologica/psicoterapica. Forse è solo un sintomo di quella vulnerabilità che, a sentire la sapienza greca, caratterizza la condizione umana. Platone spezza il codice binario salute/malattia per indicare nella ferita e nella conseguente vulnerabilità la condizione normale dell'uomo. Noi siamo vulnerabili per il solo fatto che siamo esposti al mondo dove, il nostro corpo subisce l'effetto dell'ambiente fisico e sociale, dei suoi benefici e dei suoi veleni. E siccome per essere al mondo bisogna farsi contaminare dal mondo, la vulnerabilità è la nostra condizione e la ferita è la nostra apertura comunicativa. Per questo non dobbiamo guardare al male e al dolore come a cedimenti della salute. Presso i primitivi la malattia aveva un significato sociale, e come tale era qualcosa che si poteva scambiare nel gruppo. La malattia non era vissuta individualmente, ma scambiata come tutte le cose. Il processo di guarigione, non si svolgeva come oggi in quel rapporto duale, ma non reciproco, tra medico e paziente, ma in uno spazio più ampio, in cui tutto il gruppo prendeva parte alla cura distribuendosi intorno al male, concepito non come lesione organica che investe un individuo, ma come una rottura, uno squilibrio nello scambio sociale. Chi pretende di guarire dal dolore pretende di guarire dalla condizione umana. Diamo tutti i nomi possibili alla vulnerabilità della condizione umana, ma non troveremo mai il suo vero nome.

5. La pratica filosofica

Alla mente le idee piacciono, anzi la mente ne ha continuo bisogno, ne chiede di fresche per comprendere e se è il caso, cambiare il nostro modo di essere al mondo che le idee determinano e condizionano. Senza religione, senza filosofia, senza psicoanalisi, a trarre profitto è l'industria farmaceutica che seda l'anima e riduce l'inquietudine dell'individuo. Un'inquietudine che non più generata dal conflitto interiore tra passioni e ragione ma dal conflitto tra la propria visione del mondo e il modo in cui oggi accade il mondo. Il passato, in cui la psicoanalisi affonda per reperire le trame del disagio, sembra diventato così diverso rispetto al presente, da non offrire nessuna chiave di lettura per ri-orientare l'anima nell'indecifrabilità dell'oggi, dove tutte le chiavi di lettura si sono perse nel disordine del mondo. Il futuro poi ci è stato semplicemente tolto, sia quello religioso perché Dio è morto, sia quello laico perché la rivoluzione è impossibile, l'utopia è lontana, la scienza progredisce in modo afinalizzato, spiazzando l'etica su cui avevamo costruito le nostre regole di condotta e conosciuto le nostre deroghe. Il futuro-promessa, che alimentava in chiave religiosa la fede nella salvezza e in chiave scientifica il progresso, si è trasformato in futuro-minaccia. Se non tutto il dolore è patologia, una risposta a questo genere di sofferenza e disagio, meglio della psicoterapia, la può dare la filosofia, nata in Grecia nel V sec a.C. non solo come conoscenza, ma come pratica di vita. Nessuno di noi abita il mondo, ma solo la propria visione del mondo. E non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. Kant, in proposito scrive: spetta al filosofo prescrivere una dieta per l'anima, per questo il medico non dovrebbe negare al filosofo un suo intervento, se questi talvolta tentasse l'impegnativa cura della pazzia.


Date: 2015-12-24; view: 667


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