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UNA VILLA NEI PRESSI DI NEW YORK 14 page

«Dorme?», chiese Delamarche.

«Non credo», disse Robinson, «ma ho preferito aspettare che tu tornassi».

«Per prima cosa dobbiamo vedere se dorme», disse Delamarche chinandosi sul buco della serratura. Dopo aver guardato a lungo, girando la testa da tutte le parti, si alzò e disse: «Non si vede bene, la tenda è abbassata. È seduta sul divano, ma forse dorme».

«È malata?» chiese Karl, perché Delamarche indugiava con l'aria di voler chiedere consiglio. Ma questi ripeté in tono brusco: «Malata?».

«Sai che non la conosce», disse Robinson conciliante.

Un paio di porte più in là due donne erano uscite sul corridoio asciugandosi le mani sul grembiule, e guardavano verso Delamarche e Robinson come se parlassero di loro. Da una porta sbucò fuori una ragazza ancora molto giovane dai capelli biondi e splendenti, e s'insinuò tra le due donne prendendole a braccetto.

«Che donne odiose», disse Delamarche sottovoce, ma evidentemente solo per riguardo a Brunelda che dormiva, «tra non molto le denuncerò alla polizia, così starò in pace per anni. Non guardarle», sibilò poi a Karl, che non vedeva in questo niente di male, visto che già si doveva aspettare in corridoio il risveglio di Brunelda. Infatti scosse il capo con ira per fargli capire che da lui non accettava rimproveri, e per dimostrarglielo ancora più chiaramente stava per avvicinarsi alle donne quando Robinson lo tirò per la manica dicendogli: «Rossmann, attento!», e Delamarche, già irritato per via di Karl, s'infuriò talmente per una risata sonora della ragazza, da dirigersi di corsa dimenando braccia e gambe verso le donne, le quali sparirono entro le rispettive porte veloci come il vento.

«Qui devo spesso ripulire i corridoi in questo modo», disse Delamarche tornando indietro a passi lenti; ma poi si ricordò della resistenza di Karl e disse: «Da te però mi aspetto un comportamento ben diverso, altrimenti potrei farti fare qualche brutta esperienza».

In quel momento dalla stanza si sentì una voce chiedere in tono dolce e stanco: «Delamarche?».

«Sì», rispose Delamarche guardando amichevolmente la porta, «possiamo entrare?».

«Oh, sì», fu la risposta e Delamarche aprì lentamente la porta, non prima di aver gettato un'occhiata significativa ai due in attesa dietro di lui.

Entrarono nella totale oscurità. La tenda della porta che dava sul balcone - finestre non ce n'erano - era calata fino a terra e lasciava trasparire poco, e inoltre la sovrabbondanza di mobili e di vestiti appesi ovunque contribuiva ad aumentare l'oscurità della stanza. L'aria era pesante, si sentiva quasi l'odore della polvere raccoltasi in angoli evidentemente inaccessibili a qualsiasi mano. La prima cosa che notò Karl entrando furono tre armadi collocati uno dietro l'altro.

Sul divano era coricata la donna che prima aveva guardato giù dal balcone. Si era sdraiata sul suo vestito rosso in modo tale che un grosso lembo pendeva fino a terra, le sue gambe erano scoperte fino al ginocchio, indossava calze spesse di lana bianca ed era senza scarpe.



«Che caldo, Delamarche», disse volgendo il viso dalla parete e tendendo mollemente la mano a Delamarche, che la prese baciandola. Karl guardava solo il suo doppio mento, che oscillava ad ogni movimento della testa.

«Vuoi che faccia alzare la tenda?», chiese Delamarche.

«No, per l'amor del cielo», gli rispose a occhi chiusi, con aria disperata, «sarebbe ancora peggio».

Karl si era avvicinato ai piedi del divano per veder meglio la donna e si meravigliava delle sue lamentele, perché il caldo non era poi così straordinario.

«Aspetta che ti sistemi più comodamente», disse Delamarche con sollecitudine, e le slacciò un paio di bottoni sul collo allargandole i risvolti dell'abito, dimodoché il collo e il principio del seno si scoprirono, mostrando l'orlo sottile di pizzo giallastro della biancheria.

«Chi è questo», chiese d'un tratto la donna indicando Karl, «e perché mi fissa così?».

«Cominci presto a renderti utile», disse Delamarche spingendo Karl da parte, mentre tranquillizzava la donna con queste parole: «È solo il ragazzo che ho portato per servirti».

«Ma io non voglio avere nessuno!», gridò lei. «Perché mi porti a casa degli estranei?».

«Ma hai sempre detto che volevi essere servita», disse Delamarche inginocchiandosi a terra; malgrado il divano fosse molto largo, Brunelda lo occupava tutto.

«Ah, Delamarche», disse lei, «continui a non capirmi».

«Dunque è proprio vero che non ti capisco», disse Delamarche prendendole il viso tra le mani. «Ma non è successo niente, se vuoi se ne va subito».

«Dato che è qui, può restare», replicò lei, e nella sua stanchezza Karl le fu così grato per queste parole forse non precisamente amichevoli, che, sempre pensando a quella scala interminabile e al rischio di doverla ridiscendere subito, si avvicinò scavalcando Robinson tranquillamente addormentato sulla sua coperta e nonostante i gesti irritati di Delamarche disse: «La ringrazio comunque di lasciarmi restare qui ancora un poco. Non dormo forse da ventiquattr'ore, e nel frattempo ho lavorato molto e ho avuto molti dispiaceri. Sono terrribilmente stanco. Non capisco neppure dove sono. Quando avrò dormito un paio d'ore, non si faccia scrupolo di mandarmi via, e me ne andrò volentieri».

«Puoi restare comunque», disse la donna, e aggiunse ironicamente: «Come vedi, abbiamo posto in abbondanza».

«Dunque devi andartene», disse Delamarche, «non abbiamo bisogno di te».

«No, deve restare», disse la donna, e stavolta sul serio. Allora Delamarche, come se volesse appagare questo desiderio, disse a Karl: «Mettiti a dormire da qualche parte».

«Può coricarsi sulle tende, ma deve togliersi le scarpe per non romperle».

Delamarche mostrò a Karl il posto che la donna intendeva assegnargli. Fra la porta ed i tre armadi c'era un grosso mucchio di tende di tutti i generi l'una gettata sopra l'altra. Se le avessero piegate per bene mettendo sotto le più pesanti e aggiungendo via via le altre, e soprattutto se avessero tolto dal mucchio tutte le assi e gli anelli di legno, sarebbe diventato un letto passabile, ma così era solo una massa oscillante e scivolosa, su cui però Karl si coricò subito poiché era troppo stanco per fare dei preparativi e per riguardo verso i suoi ospiti doveva cercare di non disturbarli.

Stava già quasi dormendo quando sentì un forte grido, si alzò e vide Brunelda seduta sul divano che allargava le braccia per poi stringere Delamarche inginocchiato davanti a lei. Imbarazzato da quello spettacolo, Karl si coricò di nuovo e s'immerse fra le tende per continuare a dormire. Gli sembrava chiaro che lì non sarebbe riuscito a resistere nemmeno due giorni, tanto più quindi aveva bisogno di riposare bene, per poi a mente chiara poter prendere con calma una rapida decisione.

Ma Brunelda aveva già visto Karl con gli occhi spalancati dalla stanchezza, quegli occhi che già una volta l'avevano spaventata, e gridò: «Delamarche, non sopporto questo caldo, brucio, devo spogliarmi, devo fare un bagno, fai uscire quei due, mandali dove vuoi, in corridoio, sul balcone, ma fa' che non li veda più! Si è a casa propria e si è sempre disturbati. Se potessi star sola con te, Delamarche! Ah, mio Dio, sono ancora qui! Guarda quello sfacciato di Robinson, come si sdraia in maglia e mutande davanti a una signora! E questo ragazzo sconosciuto, che un momento fa mi ha lanciato uno sguardo così cattivo, si è coricato di nuovo per farmi credere che dorme. Mandali via, Delamarche!, sono un peso per me, mi soffocano, se muoio adesso sarà per colpa loro».

«Escono subito, comincia a spogliarti», disse Delamarche, si avvicinò a Robinson e lo scosse con un piede che poi gli mise sul petto. Nello stesso tempo gridò a Karl: «Rossmann, alzati! Dovete uscire tutti e due sul balcone! E guai a voi se entrate prima che vi chiami! E adesso svelto, Robinson» - e intanto scuoteva Robinson sempre più forte -«e tu, Rossmann, stai attento, se non vuoi che venga anche da te», e batté due volte le mani con forza.

«Ma quanto ci vuole!», gridò Brunelda dal divano. Sedendosi, aveva di nuovo allargato le gambe per dare più spazio al suo corpo eccessivamente grasso, e solo con grande fatica, ansimando come un mantice e fermandosi più volte per riposarsi, riuscì a chinarsi quel tanto da poter afferrare l'orlo delle calze e tirarsele un po' giù, ma non riuscì a togliersele del tutto, questo era il compito di Delamarche, che lei attendeva con impazienza.

Completamente stordito dalla stanchezza, Karl era scivolato giù dal mucchio delle tende e si avviava lentamente verso la porta del balcone con un pezzo di tenda avvolto attorno al piede che si trascinava dietro senza reagire. Nella sua distrazione, passando accanto a Brunelda, disse persino: «Le auguro la buona notte», e quindi superò Delamarche, che aveva tirato un poco la tenda della porta-finestra, e uscì sul balcone. Fu subito seguito da Robinson, probabilmente non meno assonnato di lui, infatti brontolava tra sé: «Sempre maltrattato! Non vado sul balcone se non viene anche Brunelda». Ma a dispetto di quest'affermazione uscì senza opporre resistenza, e visto che Karl si era già lasciato cadere nella poltrona, si stese subito a terra sulla pietra.

Quando Karl si svegliò era già sera, in cielo già splendevano le stelle e dietro le alte case del lato opposto della strada si levava il chiarore della luna. Solo dopo essersi guardato un po' attorno in quel luogo sconosciuto e dopo aver inspirato a fondo l'aria fresca e tonificante Karl ricordò dove si trovava. Com'era stato imprudente! Aveva trascurato tutti i consigli della capocuoca, tutte le ammonizioni di Therese, tutti i propri timori e adesso stava tranquillamente seduto sul balcone di Delamarche dopo aver dormito mezza giornata, come se dietro la tenda non ci fosse il suo grande nemico, Delamarche. A terra Robinson si girò pigramente e lo tirò per un piede, credendo di averlo svegliato in quel momento, perché disse: «Che sonno hai, Rossmann! Questa è la gioventù spensierata. Quanto vuoi dormire ancora? Ti avrei anche lasciato continuare, ma prima di tutto per terra mi annoio troppo, e poi ho una gran fame. Alzati un momento, per favore, perché ho nascosto del cibo sotto la poltrona e vorrei tirarlo fuori. Ci sarà qualcosa anche per te». E Karl, alzandosi, vide che Robinson si rotolava sul ventre senza alzarsi e allungando le mani prendeva da sotto la poltrona un piatto d'argento simile a quelli usati per conservare i biglietti da visita. Su questo piatto c'erano una salsiccia tutta nera, alcune sigarette sottili, una scatola di sardine aperta, ma ancora quasi piena e traboccante d'olio, e una quantità di caramelle per lo più schiacciate e ridotte a una massa unica. C'erano anche un grosso pezzo di pane e una specie di bottiglietta da profumo, che però sembrava contenere tutt'altro che profumo, perché Robinson la indicò a Karl con particolare compiacimento facendo schioccare la lingua.

«Vedi, Rossmann», disse Robinson inghiottendo una sardina dopo l'altra e asciugandosi di tanto in tanto le mani unte in uno scialle di lana che evidentemente Brunelda aveva dimenticato sul balcone. «Vedi, Rossmann, così si è costretti a conservare il cibo, se non si vuole morire di fame. Mi hanno completamente messo da parte. E quando uno è sempre trattato come un cane, alla fine crede davvero di esserlo. È un bene che tu sia qui, Rossmann, almeno ho qualcuno con cui parlare. In questa casa nessuno mi parla. Siamo odiati. E tutto per via di Brunelda. Ma naturalmente è una splendida donna. Sai - e chiamò a sé Karl con un cenno, per sussurrargli - «una volta l'ho vista nuda. Oh!». E al ricordo della gioia provata, cominciò a stringere e a sbattere le gambe di Karl, finché questi esclamò: «Tu sei matto, Robinson!» e prendendolo per le mani lo respinse.

«Sei ancora un bambino, Rossmann», disse Robinson, e tirò fuori da sotto la camicia un pugnale, che portava legato al collo con un cordino, lo tolse dalla custodia e cominciò a tagliare la salsiccia dura. «Hai ancora molto da imparare. Ma con noi sei capitato bene. Siediti. Non vuoi mangiare qualcosa? Bene, forse guardando me ti verrà fame. Non vuoi neppure bere? Ma non vuoi proprio niente. E non sei neanche molto loquace. Però non importa con chi si è sul balcone, purché ci sia qualcuno. Io sto quasi sempre sul balcone. È un tale divertimento per Brunelda! Basta che le venga in mente qualcosa, ora ha freddo, ora ha caldo, ora vuole dormire, ora vuole pettinarsi, ora vuole slacciarsi il busto, ora vuole vestirsi, e mi manda sempre sul balcone. A volte fa veramente quello che dice, ma in genere continua a restare distesa sul divano e non si muove. Prima scostavo spesso la tenda per guardar dentro, ma da quando Delamarche in una di queste occasioni mi ha frustato sul viso - so bene che non avrebbe voluto, l'ha fatto soltanto su richiesta di Brunelda, vedi i lividi? -, non oso più guardar dentro. E così me ne sto sdraiato qui sul balcone, e mangiare è l'unico piacere che mi resta. L'altro ieri, di sera, quando ero qui tutto solo, ancora con il mio bel vestito, che purtroppo ho perduto al tuo albergo - quei cani, ti strappano di dosso vestiti così costosi! -, dunque, quando ero qui tutto solo a guardar giù attraverso la ringhiera, mi sono sentito così triste che ho cominciato a piangere. Poi, tutt'a un tratto, non me ne sono accorto subito, è uscita Brunelda col suo abito rosso - è quello che le sta meglio -, mi si è avvicinata, mi ha guardato un poco ed infine ha detto: «Robinson, perché piangi?» e mi ha asciugato gli occhi con l'orlo del vestito. Chissà che cos'altro avrebbe fatto, se Delamarche non l'avesse chiamata e lei non fosse subito dovuta rientrare nella stanza. Naturalmente ho pensato che fosse arrivato il mio turno, e ho chiesto attraverso la tenda se potevo entrare. E immagina che cos'ha deto Brunelda: «No!», ha detto, e poi: «Che cosa ti viene in mente?».

«Ma perché resti, se ti trattano così?» chiese Karl.

«Scusa, Rossmann, non è una domanda molto intelligente», disse Robinson. «Tu pure resterai qui, anche se ti trattano ancor peggio. Del resto non mi trattano poi così male».

«No», disse Karl, «andrò via di certo, e se possibile, stasera stessa. Non resterò con voi».

«Come farai per esempio ad andartene stasera?» chiese Robinson che aveva tolto con il pugnale la mollica del pane e la inzuppava con cura nell'olio della scatola delle sardine. «Come vuoi andartene, se non puoi neppure entrare nella stanza?».

«Ma perché non possiamo entrare?».

«Ecco, finché non suonano, non possiamo entrare», disse Robinson, trangugiando con la bocca spalancata il grosso pezzo di pane, mentre con l'altra mano, che fungeva da recipiente, raccoglieva le gocce d'olio per potervi inzuppare a intervalli il resto del pane. «Qui sono diventati molto più severi. Prima c'era una tenda sottile, non si poteva vedere attraverso, però di sera si distinguevano le ombre. Ma a Brunelda dava fastidio, e allora ho dovuto trasformare in tenda uno dei suoi mantelli da teatro e appenderlo qui al posto della vecchia tenda. Ora non si vede più niente. Prima dovevo sempre chiedere se potevo rientrare e mi rispondevano sì o no a seconda delle circostanze, ma forse ho abusato di questa possibilità e l'ho chiesto troppe volte. Brunelda non lo sopportava - malgrado la sua mole è molto debole di costituzione, ha spesso mal di testa e quasi sempre soffre di gotta alle gambe, - così hanno deciso che non dovevo più chiedere, ma che avrebbero suonato il campanello da tavola per annunciarmi quando potevo rientrare. Il suono è così forte che mi sveglia persino quando dormo - una volta qui avevo un gatto per farmi compagnia, si è spaventato per quel suono, è scappato e non è più ritornato; dunque oggi non hanno ancora suonato, quando suonano non solo posso, ma devo rientrare - e quando stanno tanto tempo senza suonare può durare così per ore».

«Sì», disse Karl, «ma quello che vale per te non deve valere per me. Del resto cose del genere capitano soltanto a chi le sopporta».

«Ma perché non dovrebbe valere anche per te?» esclamò Robinson. «È chiaro che vale anche per te. Resta qui tranquillo con me ad aspettare che suonino. Poi potrai tentare di andartene».

«Io non capisco perché non te ne vai. Solo perché Delamarche è tuo amico, o meglio lo era. È vita, questa? Non sarebbe meglio a Butterford, dove volevate andar prima? O magari in California, dove hai degli amici?».

«Sì», disse Robinson, «ma nessuno poteva prevederlo». E prima di continuare il suo racconto, disse ancora: «Alla tua salute, caro Rossmann», bevendo una gran sorsata dalla bottiglia da profumo. «Allora, quando tu ci hai piantato in asso con tanta cattiveria, ce la passavamo molto male. Durante i primi giorni non riuscivamo a trovar lavoro. Del resto Delamarche l'avrebbe trovato ma non voleva lavorare, mandava sempre me a cercar lavoro, e io non ho fortuna. Lui era stato in giro di qua e di là, ma era già quasi sera e aveva rimediato soltanto un borsellino da signora. Era di perle, molto bello, adesso l'ha regalato a Brunelda, ma non c'era quasi niente dentro. Allora disse che dovevamo andare a mendicare per le case, in queste occasioni si può sempre trovare qualcosa di utile, e così siamo andati a mendicare, e per presentarci meglio io cantavo davanti alle porte delle case. E siccome Delamarche ha sempre fortuna, non appena ci siamo fermati davanti alla seconda casa, una casa molto ricca a pianterreno, e abbiamo cantato qualcosa davanti alla porta alla cuoca ed al servitore, ecco che viene su per le scale la proprietaria della casa, Brunelda appunto. Forse aveva il busto troppo stretto, e non riusciva a salire neanche quei due gradini. Ma com'era bella, Rossmann! Era vestita tutta di bianco ed aveva un ombrellino rosso. C'era da mangiarsela, da succhiarsela. Ah, Dio, Dio, com'era bella! Che donna! No, davvero, come può esistere una donna simile? Naturalmente la cameriera e il servitore le sono subito corsi incontro e l'hanno portata quasi di peso. Noi ci siamo messi ai due lati della porta e abbiamo fatto il saluto, qui si usa così. Lei si è fermata un momento perché era senza fiato, e adesso non so come sia potuto succedere, io ero fuori di me dalla fame, e lei così da vicino era ancora più bella, enorme, con il corpo così sodo per via di un busto speciale, poi posso mostrartelo, è nell'armadio; in breve, le ho dato un colpetto sul didietro, ma molto leggero, sai, appena un colpetto. Naturalmente è intollerabileche un mendicante si comporti così con una ricca signora. L'ho soltanto sfiorata, ma in fondo l'ho pur sempre toccata. Chissà come sarebbe finita male se Delamarche non mi avesse dato subito uno schiaffo, uno schiaffo così forte che ho dovuto subito tenermi la guancia con tutte due le mani».

«Che cosa avete combinato!» disse Karl, tutto preso dalla storia, e si sedette per terra. «Quella era dunque Brunelda?».

«Sì, proprio», disse Robinson, «era Brunelda».

«Non mi hai detto una volta che è una cantante?» chiese Karl.

«Certo che è una cantante, una grande cantante», rispose Robinson masticando una gran quantità di caramelle, e di tanto in tanto si spingeva in bocca con il dito qualche pezzetto che gli usciva dalle labbra. «Ma naturalmente allora non lo sapevamo, avevamo soltanto visto che era una signora ricca e molto elegante. Si comportò come se non fosse successo niente, e forse non aveva sentito niente, perché in effetti l'avevo toccata solo con la punta delle dita. Ma continuava a fissare Delamarche, e anche lui - che non perde mai un'occasione - la fissava dritto negli occhi. Poi lei gli disse: "Vieni dentro un momento"», indicando la casa con l'ombrellino, e Delamarche dovette precederla. Entrarono tutti e due e la servitù chiuse la porta alle loro spalle. Io fui dimenticato fuori, ma pensai che fosse per poco, e mi sedetti sulla scala in attesa di Delamarche. Invece di Delamarche venne un servitore a portarmi una scodella colma di minestra. «Una premura di Delamarche!» mi dissi. Il servitore si trattenne con me mentre mangiavo raccontandomi varie cose su Brunelda, e io capii subito l'importanza che poteva avere per noi quella visita. Perché Brunelda era divorziata, aveva un grosso patrimonio ed era indipendente! Il suo ex-marito, un produttore di cacao, l'amava ancora, ma lei non voleva più sentirne parlare. Lui veniva spesso a trovarla, sempre molto elegante, vestito come se dovesse andare a un matrimonio - è tutto vero parola per parola, lo conosco di persona - ma il servitore, nonostante prendesse mance colossali, non osava chiedere a Brunelda se voleva riceverlo, perché ogni volta che gliel'aveva chiesto, Brunelda gli aveva tirato in faccia quello che aveva in mano. Una volta gli aveva tirato persino la sua grossa borsa dell'acqua calda, facendogli cadere un dente incisivo. Già, Rossmann, vedo che fai una faccia!».

«Come mai conosci il marito?» chiese Karl.

«A volte viene anche quassù», disse Robinson.

«Quassù?» e Karl batté la mano sul pavimento con stupore.

«Capisco che ti meravigli», proseguì Robinson, «anch'io mi sono meravigliato quando ho sentito i racconti del servitore. Pensa, quando Brunelda non era in casa, il marito si faceva portare dal servitore in camera sua e ogni volta portava via una sciocchezza come ricordo lasciando sempre in cambio qualcosa di molto elegante e costoso per Brunelda, e proibiva severamente al servitore di dire da chi proveniva il regalo. Ma una volta le aveva portato un oggetto di porcellana addirittura impagabile - me l'ha raccontato il servitore e ci credo - e Brunelda, chissà come, ha capito che veniva da lui, l'ha gettato subito a terra pestandolo con i piedi, ci ha sputato sopra e ci ha fatto cose tali che il servitore dal disgusto quasi non riusciva a portarlo via».

«E il marito poi cosa le ha fatto?» chiese Karl.

«Questo non lo so», disse Robinson, «ma niente di speciale, credo, o forse non lo sa neppure. Ne ho già parlato più volte con lui. Mi aspetta all'angolo della strada, e quando arrivo devo raccontargli tutte le novità; quando non posso andare, mi aspetta per mezz'ora e poi se ne va. Per me era una buona occasione per guadagnare qualcosa, perché mi pagava le notizie molto bene, ma da quando Delamarche se n'è accorto, devo dare tutto a lui, e così adesso ci vado di rado».

«Ma che cosa vuole quell'uomo?» chiese Karl. «Che cosa spera di ottenere? Ormai sa che lei non lo vuole».

«Già», sospirò Robinson, accendendosi una sigaretta e soffiando in alto il fumo con un ampio gesto del braccio. Poi parve cambiare idea e disse: «E che me ne importa? So solo che darebbe molto per poter stare come noi qui sul balcone».

Karl si alzò, si appoggiò alla ringhiera e guardò giù sulla strada. La luna era già apparsa, ma la strada in basso non era ancora illuminata. La strada, di giorno così deserta, a quell'ora era molto affollata, soprattutto davanti ai portoni, la gente si muoveva in modo lento e pesante, nell'oscurità si distinguevano vagamente gli uomini in maniche di camicia, le donne con abiti chiari, e tutti erano a capo scoperto. Anche gli altri balconi attorno erano occupati, e alla luce di una lampadina elettrica le varie famiglie, a seconda della grandezza del balcone, sedevano attorno a un tavolino o soltanto su sedie messe in fila, o comunque sporgevano la testa oltre la ringhiera. Gli uomini sedevano a gambe larghe, con i piedi allungati tra le sbarre della ringhiera e leggevano giornali che arrivavano quasi fino a terra o giocavano a carte, apparentemente in silenzio ma battendo gran colpi sui tavoli, le donne tenevano in grembo il loro lavoro di cucito, e solo di tanto in tanto alzavano gli occhi per guardare i vicini oppure la strada. Sul balcone vicino una donna bionda e gracile continuava a sbadigliare stralunando gli occhi e coprendosi la bocca con un capo di biancheria che stava rammendando; persino sui balconi più piccoli i bambini riuscivano a rincorrersi, con grande fastidio dei loro genitori. Molte stanze all'interno erano dotate di grammofoni e suonavano canzoni o musica da orchestra, ma nessuno prestava particolare attenzione alla musica, solo di tanto in tanto un padre di famiglia faceva un cenno e qualcuno correva nella stanza a cambiare il disco. A molte finestre si vedevano coppie d'innamorati completamente immobili, a una finestra di fronte a Karl c'era una di queste coppie in piedi, il giovane teneva un braccio attorno alla vita della ragazza e le premeva la mano sul seno.

«Conosci qualcuno dei vicini?» chiese Karl a Robinson, che si era alzato anche lui, e poiché aveva freddo si teneva addosso, oltre che la sua coperta, anche la coperta di Brunelda.

«Quasi nessuno, questo è il brutto della mia situazione», disse Robinson e si tirò Karl più vicino per potergli sussurrare all'orecchio, «altrimenti adesso non potrei proprio lamentarmi. Per via di Delamarche, Brunelda ha venduto tutto quello che aveva e si è trasferita in questa casa di periferia con tutto il suo patrimonio per potersi dedicare completamente a lui e non essere disturbata da nessuno, come del resto desiderava anche Delamarche».

«E ha licenziato la servitù?», chiese Karl.

«Certo», disse Robinson. «E dove potrebbe tenerla, qui? Perché questi servitori sono tipi pieni di pretese. Una volta da Brunelda Delamarche ha cacciato via dalla stanza a schiaffi uno di questi servitori, gli schiaffi volavano uno dopo l'altro finché l'uomo è stato costretto a uscire. Naturalmente gli altri servitori si unirono a lui e fecero un gran chiasso davanti alla porta, allora Delamarche uscì (a quel tempo non ero un servo, ma un amico di casa, però stavo insieme ai servitori) e chiese: «Che cosa volete?» e il servitore più vecchio, un certo Isidor, disse: «Non tocca a lei parlare con noi, la nostra padrona è la signora». Come puoi capire, rispettavano Brunelda. Ma Brunelda, senza curarsi di loro, corse da Delamarche, allora non era ancora grossa come adesso, e lo abbracciò e lo baciò davanti a tutti chiamandolo «carissimo Delamarche». «E manda via queste scimmie», disse alla fine. Scimmie, questi erano i servitori, immaginati le facce che fecero. Poi Brunelda avvicinò la mano di Delamarche al suo portamonete, che portava appeso in vita, Delamarche vi frugò dentro e cominciò a pagare i servitori, Brunelda prendeva parte al pagamento solo standogli accanto col portamonete aperto in vita. Delamarche continuava a prendere soldi perché distribuiva il denaro senza contarlo e senza far caso alle richieste. Infine disse: «Dato che volete parlare con me, ve lo dico solo a nome di Brunelda: fuori! ma subito». Così furono licenziati, ci fu anche qualche processo, Delamarche una volta fu persino chiamato in tribunale, ma non so niente di più. Solo dopo la partenza dei servitori Delamarche disse a Brunelda: «E adesso, che non hai più servitù?». E lei disse: «Ma c'è Robinson!». Allora Delamarche mi batté sulla spalla e disse: «Va bene, sarai il nostro servitore!». E Brunelda mi dette un colpetto sulla guancia. Se ti capita, Rossmann, fatti dare anche tu un colpetto sulla guancia. Vedrai com'è bello».

«Quindi sei diventato il servitore di Delamarche?», chiese Karl riassumendo.

Robinson sentì il compianto in quella domanda e rispose: «Sono un servitore, ma pochi se ne accorgono. Vedi, neppure tu lo sapevi, anche se sei con noi da un po' di tempo. Hai pur visto come ero vestito l'altra notte all'albergo. Indossavo i vestiti più fini. I servitori girano forse vestiti così? L'unico svantaggio è che non posso uscire spesso, devo sempre essere a portata di mano, perché in casa c'è sempre qualcosa da fare. Una persona non basta per il lavoro che c'è. Come forse hai notato, abbiamo in giro per la stanza una quantità di cose, tutto quello che non siamo riusciti a vendere quando abbiamo traslocato l'abbiamo portato con noi. Naturalmente si poteva regalarlo ma Brunelda non regala niente. Immagina solo il lavoro per portare queste cose su per le scale».


Date: 2015-12-18; view: 626


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