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UNA VILLA NEI PRESSI DI NEW YORK 9 page

«Sì, signora».

«Allora, buona notte».

«Auguro a lei una buona notte».

«In effetti», spiegò la capocuoca, «da qualche anno dormo piuttosto male. Comunque adesso mi ritengo soddisfatta del mio posto e non ho motivo di preoccuparmi. Ma probabilmente quest'insonnia è causata dalle mie precedenti preoccupazioni. Quando mi addormento alle tre di mattina, posso già essere contenta. Ma dato che devo rimettermi al lavoro già alle cinque, alle cinque e mezza al più tardi, devo farmi svegliare, e con particolare cautela, per non diventare ancora più nervosa di quello che sono. Ed è appunto Therese a svegliarmi. Ma a dire il vero adesso sa già tutto, e io ancora non me ne vado. Buona notte!». E nonostante la sua pesantezza, in un attimo scivolò fuori dalla stanza.

Karl pensava con piacere a una notte di sonno, perché la giornata l'aveva affaticato notevolmente. E per un lungo sonno tranquillo non avrebbe potuto desiderare un ambiente più confortevole. Quella stanza non era stata arredata come una camera da letto, era piuttosto un soggiorno, o meglio una sala di rappresentanza della capocuoca, e quella sera era stata dotata di un lavamano apposta per lui, tuttavia Karl non si sentiva un intruso, si sentiva soltanto ben sistemato. Lì la sua valigia era al posto giusto, e senz'altro non era stata così al sicuro da tempo. Su un canterano basso, sul quale era stesa una coperta di lana a maglie larghe, c'erano varie fotografie in cornice e sotto vetro; ispezionando la stanza, Karl si soffermò a guardarle. Erano per lo più vecchie fotografie, e rappresentavano quasi tutte ragazze con abiti antiquati e scomodi e cappelli piccoli, posati in alto sul capo; le ragazze tenevano la mano destra appoggiata su un ombrellino, e benché fossero girate verso l'osservatore, il loro sguardo era rivolto altrove. Tra le fotografie maschili Karl notò in particolare quella di un giovane soldato che aveva posato il chepì su un tavolino, vicino al quale stava sull'attenti con i suoi capelli neri arruffati e con un sorriso fiero ma trattenuto. I bottoni della sua uniforme erano stati dorati sulla fotografia in un secondo tempo. Probabilmente tutte quelle fotografie erano state portate dall'Europa, forse bastava guardare il retro per accertarsene, ma Karl non voleva prenderle in mano. Un giorno, nella sua futura stanza, avrebbe voluto mettere allo stesso modo anche la fotografia dei suoi genitori.

Fece un bagno completo e accurato cercando di fare il minimo rumore possibile per non disturbare la sua vicina, e si era appena steso sul divano pregustando un buon sonno, quando gli parve di sentir bussare sommessamente a una porta. Al momento non riuscì a stabilire di quale porta si trattasse, forse era stato soltanto un rumore casuale. Non si ripeté subito, e quando lo sentì di nuovo, era già quasi addormentato. Ma ormai non c'erano più dubbi, qualcuno bussava e il rumore proveniva dalla porta della dattilografa. Karl si avvicinò alla porta in punta di piedi, e così sottovoce che non avrebbe potuto svegliare neanche chi dormiva lì accanto, chiese: «Desidera qualcosa?».



La risposta giunse immediata e ugualmente sottovoce: «Non aprirebbe la porta? La chiave è dalla sua parte».

«Certo», disse Karl, «ma prima devo vestirmi».

Dopo una breve pausa, la voce disse: «Non è necessario. Apra e si rimetta a letto, io aspetterò».

«Va bene», disse Karl, e così fece, ma accese anche la luce. «Sono già a letto», disse poi un po' più ad alta voce. La piccola dattilografa entrò subito dalla sua stanza buia, vestita esattamente come in ufficio, probabilmente in tutto quel tempo non aveva neppure pensato di andare a dormire.

«Scusi tanto», disse, chinandosi leggermente verso il letto di Karl, «e non mi tradisca, la prego. Non la disturberò a lungo, so che è molto stanco».

«Non si preoccupi», rispose Karl, «ma forse avrei fatto meglio a vestirmi». Doveva stare completamente disteso per essere coperto fino al collo, perché non possedeva una veste da notte.

«Comunque resterò solo un momento», disse lei prendendo una sedia. «Posso sedermi vicino al divano?».

Karl annuì, e lei si sedette così vicina che Karl dovette spostarsi contro la parete per poterla guardare.

Aveva un viso rotondo e regolare, solo la fronte era stranamente alta, ma forse dipendeva dalla pettinatura, che non era molto adatta a lei. Il suo abito era molto pulito e ordinato. Nella mano sinistra stringeva un fazzoletto.

«Si tratterrà qui a lungo?» gli chiese.

«Non so ancora con certezza», rispose Karl, «ma penso di restare».

«Sarebbe molto bello», disse lei passandosi il fazzoletto sul viso, «qui sono così sola».

«Mi stupisce», disse Karl, «perché la capocuoca è molto gentile con lei. Non la tratta affatto come un'impiegata, pensavo anzi che foste parenti».

«Oh no», disse lei, «io mi chiamo Therese Berchtold, e sono nata in Pomerania».

Anche Karl si presentò. Dopo la presentazione lei lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, quasi che lui, pronunciando il suo nome, le fosse diventato un po' più estraneo. Per un momento tacquero. Poi lei disse: «Non deve credermi un'ingrata. Senza la capocuoca mi troverei in una situazione molto peggiore. Prima qui all'albergo lavoravo in cucina e stavo già per essere licenziata, perché non ero in grado di sbrigare il lavoro pesante. Un mese fa una ragazza in cucina è svenuta per la troppa fatica ed è dovuta restare all'ospedale per due settimane. E io non sono molto robusta, da piccola ho avuto molti problemi, per questo sono rimasta un po' indietro nello sviluppo. Forse lei non immagina che ho già diciott'anni. Ma adesso sto già diventando più robusta».

«Il servizio qui dev'essere senz'altro molto faticoso», disse Karl. «Poco fa di sotto ho visto un ragazzo addetto all'ascensore che dormiva in piedi».

«E pensi che gli addetti all'ascensore sono ancora i più fortunati», disse lei. «Si prendono le loro belle mance e non devono certo sgobbare come chi lavora in cucina. Io però ho avuto fortuna, una volta la capocuoca ha avuto bisogno di una ragazza che disponesse i tovaglioli per un banchetto, ce l'ha mandato a dire giù in cucina, dove ci sono almeno cinquanta ragazze, io ero a portata di mano e lei è stata molto soddisfatta di me, perché ho sempre saputo disporre i tovaglioli. E da allora in poi mi ha sempre tenuto con sé e a poco a poco mi ha insegnato a fare la segretaria. Con questo lavoro ho imparato moltissimo».

«Quindi c'è molto da scrivere?» chiese Karl.

«Oh, sì, molto», rispose lei, «probabilmente non riesce neanche a immaginarselo. Ha pur visto che oggi ho lavorato fino alle undici e mezzo, e oggi non è certo un giorno speciale. Comunque non scrivo sempre, ho anche molte commissioni da sbrigare in città».

«E come si chiama la città?» chiese Karl.

«Non lo sa?» disse lei, «Ramses».

«È una città grande?» chiese Karl.

«Molto grande», gli rispose. «Io non ci vado volentieri. Ma davvero non vuole dormire?».

«No, no», disse Karl, «non so ancora perché è venuta qui».

«Perché non so con chi parlare. Non voglio lamentarmi, ma quando non si ha nessuno si è già felici di essere ascoltati. Io l'ho già vista giù in sala, stavo andando a chiamare la capocuoca quando vi ho visto andare in dispensa».

«È spaventosa quella sala», disse Karl.

«Io ormai non me ne accorgo più», rispose lei. «Ma volevo dire che anche se la capocuoca è stata buona con me come solo mia madre lo era, la nostra posizione è troppo diversa perché io possa parlare apertamente con lei. Prima avevo qualche buona amica tra le ragazze in cucina, ma se ne sono andate già da tempo, e quelle nuove le conosco appena. A volte ho proprio l'impressione che il mio lavoro attuale mi stanchi più di quello precedente, mi sembra di non farlo bene come l'altro e che la capocuoca mi tenga solo per compassione. Dopo tutto per fare la segretaria bisognerebbe aver avuto un'istruzione migliore. È un peccato dirlo, ma sempre più spesso temo di diventare pazza. Per l'amor di Dio», disse ad un tratto rapidamente prendendo Karl per la spalla, dato che le sue mani erano sotto la coperta, «non dica però una parola di questo alla capocuoca, altrimenti sono perduta. Se oltre ai problemi che le creo col mio lavoro dovessi darle anche un dispiacere, sarebbe il colmo».

«È ovvio che non le dirò nulla», rispose Karl.

«Va bene, allora», disse lei, «e resti qui. Sarei contenta se lei restasse e, se è d'accordo, potremmo diventare amici. Ho avuto fiducia in lei non appena l'ho vista. E malgrado questo - pensi come sono cattiva - ho anche avuto paura che la capocuoca potesse licenziarmi e prendere lei al mio posto come segretario. Ma appena sono rimasta qui da sola a pensare, ho capito che forse sarebbe un bene se fosse lei a sbrigare il mio lavoro, perché senz'altro lo farebbe meglio. E se lei non volesse andare in città per le commissioni, potrei sempre andarci io. Per il resto sarei certo molto più utile in cucina, soprattutto adesso che sono diventata più robusta».

«Il problema è già risolto», disse Karl, «io lavorerò all'ascensore e lei continuerà a fare la segretaria. Ma se lei farà un minimo accenno alla capocuoca sui suoi progetti, io le racconterò anche quello che mi ha detto oggi, per quanto mi possa dispiacere».

Il suo tono le causò una tale agitazione, che Therese si rovesciò sul letto piangendo e nascose il viso tra le lenzuola.

«Non dirò nulla», riprese Karl, «ma anche lei deve tacere».

Non poteva più continuare a restare completamente nascosto sotto la coperta, le carezzò lievemente il braccio senza però trovare le parole giuste, riusciva soltanto a pensare che la sua vita era molto dura. Infine lei si calmò quel tanto da vergognarsi delle sue lacrime, guardò Karl con gratitudine, gli raccomandò di dormire il più a lungo possibile e gli promise, se avesse avuto tempo, di salire a svegliarlo verso le otto.

«Già, lei è così brava a dare la sveglia», disse Karl.

«Sì, qualcosa so fare», rispose, accarezzò la sua coperta in segno di saluto e corse via nella sua stanza.

Il giorno seguente Karl insisté per prender subito servizio, benché la capocuoca volesse lasciargli il giorno libero per visitare Ramses. Ma Karl dichiarò apertamente che avrebbe avuto un'altra occasione, al momento la cosa più importante per lui era iniziare il lavoro, perché in Europa aveva già commesso l'errore di interrompere un lavoro d'altro genere, e ora cominciava come addetto all'ascensore in un'età in cui gli altri ragazzi, almeno i più capaci, si accingevano già a svolgere un lavoro più qualificato. Era più che giusto cominciare come addetto all'ascensore, ma era altrettanto giusto farlo il più presto possibile. In simili circostanze la visita della città non gli avrebbe dato alcun piacere. Non riuscì a decidersi neppure a fare un breve giro con Therese che l'aveva invitato. Aveva sempre davanti agli occhi il timore di poter finire male come Delamarche e Robinson, se non avesse lavorato con diligenza.

Il sarto dell'albergo gli provò l'uniforme da lavoro, che appariva molto lussuosa con i suoi bottoni e cordoncini dorati, tuttavia indossandola Karl provò una certa ripugnanza, perché, soprattutto sotto le ascelle, la giacchetta era fredda, dura e tuttavia irrimediabilmente umida del sudore di quelli che l'avevano indossata prima di lui. Si dovette anche allargare l'uniforme sul petto, poiché nessuna delle dieci disponibili gli andava bene, neanche approssimativamente. Malgrado il lavoro di cucito, che in questo caso era necessario, e sebbene il maestro fosse molto pignolo - per due volte l'uniforme che gli era già stata consegnata volò di nuovo in laboratorio -, in soli cinque minuti tutto fu pronto e Karl uscì dallo studio già in uniforme, con i pantaloni attillati e una giacchetta troppo aderente, nonostante il maestro fosse certo del contrario, che lo induceva a fare continui esercizi di respirazione per accertarsi che la medesima fosse ancora possibile.

Quindi Karl andò a presentarsi a un capocameriere che sarebbe stato il suo superiore, un bell'uomo slanciato con un grosso naso, probabilmente già sulla quarantina. Questi non aveva neppure il tempo di dire due parole, e si limitò a suonare per chiamare un altro addetto all'ascensore, per caso proprio il ragazzo che Karl aveva visto il giorno prima. Il capocameriere lo chiamava per nome, Giacomo, cosa che Karl apprese solo in seguito, perché non riusciva a capire la pronuncia inglese. Questo ragazzo ebbe l'incarico di mostrare a Karl l'indispensabile per il servizio d'ascensore, ma era così timido e frettoloso che Karl da lui non riuscì a sapere neanche quel poco che gli serviva. Senza dubbio Giacomo era irritato anche perché a causa di Karl doveva lasciare il servizio all'ascensore per aiutare invece le cameriere, cosa che in seguito a certe esperienze, di cui però non volle parlare, gli sembrava disdicevole. Karl fu deluso soprattutto perché non doveva occuparsi del meccanismo dell'ascensore, bensì soltanto metterlo in moto premendo un bottone, mentre per le riparazioni al motore venivano usati unicamente i meccanici dell'albergo, sicché ad esempio Giacomo in sei mesi di servizio non aveva mai visto con i suoi occhi né il motore in cantina né i congegni all'interno dell'ascensore, anche se gli avrebbe fatto molto piacere, come disse espressamente. In genere era un servizio monotono e così faticoso, con le sue dodici ore di lavoro a turni di giorno e di notte, che secondo Giacomo non si poteva resistere se non dormendo in piedi per qualche minuto. A questo proposito Karl non replicò, ma capì che proprio quest'arte gli aveva fatto perdere il posto.

Invece fu molto contento di occuparsi dell'ascensore che serviva soltanto i piani più alti, perché così non aveva a che fare con i clienti più ricchi e più esigenti. Certo lì poteva imparare meno che altrove, ma come inizio bastava.

Già dopo la prima settimana Karl capì che era senz'altro all'altezza del servizio. L'ottone del suo ascensore era il più lucido, nessuno degli altri trenta ascensori poteva reggere il confronto, e forse il suo sarebbe stato ancora più lucido se il ragazzo che lavorava con lui fosse stato solo in parte così diligente, anziché approfittare della solerzia di Karl per abbandonarsi alla sua pigrizia. Era nato in America, si chiamava Renell ed era un ragazzo vanesio con occhi scuri e guance lisce e leggermente scavate. Aveva un abito molto elegante con cui, nelle sue sere libere, correva in città lievemente profumato, talvolta chiedeva anche a Karl di sostituirlo la sera adducendo motivi di famiglia per la sua assenza, e poco gl'importava se il suo aspetto smentiva quei motivi. Tuttavia Karl lo trovava simpatico e gli faceva piacere quando Renell, prima di uscire la sera con il suo abito elegante, si tratteneva ancora con lui davanti all'ascensore, si scusava ancora un poco e poi, tirandosi i guanti sulle dita, si allontanava per il corridoio. Del resto Karl con queste sostituzioni voleva soltanto fargli un piacere, come gli sembrava naturale all'inizio e con un collega più anziano, ma non intendeva trasformarle in una abitudine, perché questo eterno su e giù con l'ascensore era molto faticoso e la sera poi non c'era un attimo di pausa.

Presto Karl imparò anche a fare i brevi e profondi inchini di prammatica per gli addetti all'ascensore, e agguantava le mance al volo. Sparivano nella tasca del suo gilè, e dalla sua espressione nessuno avrebbe saputo dire se erano generose o meno. Davanti alle signore apriva la porta con un po' più di galanteria, e s'infilava lentamente nell'ascensore dietro di loro, che, preoccupate delle gonne, dei cappelli e degli ornamenti, ci mettevano più tempo degli uomini a entrare. Durante il tragitto stava vicino alla porta per dare meno nell'occhio, con la schiena rivolta verso i clienti e con la mano sulla maniglia della porta, pronto a spingerla da parte nel momento dell'arrivo, con rapidità ma senza far sussultare nessuno. Solo di rado qualcuno durante il tragitto gli batteva sulla spalla per chiedergli una breve informazione e allora si girava in fretta, come se avesse aspettato la domanda, e rispondeva con voce chiara. Nonostante ci fossero molti ascensori, spesso, in genere dopo la chiusura del teatro o dopo l'arrivo di certi treni espressi, c'era un tale affollamento che Karl aveva appena il tempo di depositare i clienti ai piani superiori e di precipitarsi di nuovo al pianterreno a prendere quelli che aspettavano. Tirando un cavo che attraversava la cabina dell'ascensore aveva anche la possibilità di aumentare la velocità usuale, ma questo era proibito dal regolamento e forse anche pericoloso. Karl non lo faceva mai quando portava passeggeri, ma quando li aveva depositati al piano e sotto c'erano altri in attesa, non si faceva scrupoli e tirava il cavo con forza e con misura, come un marinaio. D'altronde sapeva che anche i ragazzi degli altri ascensori lo facevano e non voleva perdere i suoi passeggeri a loro vantaggio. Alcuni clienti che stavano da tempo all'albergo di tanto in tanto sorridevano a Karl, mostrando di riconoscerlo come il ragazzo del loro ascensore, e lui accettava volentieri questa cordialità, pur restando serio. Talvolta, quando c'era meno confusione, poteva sbrigare anche piccoli incarichi prticolari, ad esempio andare a prendere qualcosa dimenticata nella stanza da un cliente che non aveva voglia di ritornarvi; in quei momenti volava su da solo con il suo fido ascensore, entrava nella stanza sconosciuta dove c'erano in giro o appesi agli attaccapanni oggetti per lo più strani che non aveva mai visto, sentiva il profumo caratteristico di un sapone estraneo, di un profumo, di un collutorio, e senza perdere un attimo si affrettava a tornare giù di corsa con l'oggetto quasi sempre ritrovato malgrado le indicazioni poco chiare. Spesso rimpiangeva di non poter accettare incarichi più importanti, ma per questi c'erano inservienti e fattorini particolari, che compivano il percorso in bicicletta o addirittura in motocicletta. Nel migliore dei casi Karl poteva sbrigare solo commissioni dalle camere alle sale da pranzo o alle sale da gioco.

Quando finiva il suo lavoro di dodici ore, per tre giorni alle sei di sera e per i tre giorni successivi alle sei di mattina, era così stanco che andava dritto a letto senza curarsi di nessuno. Dormiva nella stanza comune con i suoi colleghi; la capocuoca, che forse era meno influente di quanto lui aveva creduto la prima sera, aveva comunque cercato di procurargli una stanzetta a parte, e forse ci sarebbe anche riuscita, ma Karl, vedendo tutte le difficoltà che le procurava e assistendo a tutte le sue telefonate al riguardo con il suo superiore, quel capocameriere così occupato, vi rinunciò e persuase la capocuoca della serietà della sua rinuncia adducendo il pretesto che non voleva essere invidiato dagli altri ragazzi per un privilegio che non si era guadagnato col proprio lavoro.

Ma quel dormitorio non era certo un posto tranquillo. Poiché ognuno suddivideva in modo diverso le sue dodici ore di tempo libero per mangiare, dormire, divertirsi e guadagnare qualcosa con un lavoro secondario, nel dormitorio c'era sempre un gran movimento. Alcuni dormivano e si tiravano la coperta fin sopra le orecchie per non sentire nulla; ma se qualcuno veniva svegliato si metteva a gridare così forte sovrastando le grida degli altri, che anche quelli con il sonno più pesante dovevano svegliarsi. Quasi tutti i ragazzi avevano la loro pipa, come una specie di lusso; anche Karl se ne procurò una e ben presto imparò a fumarla con gusto. Ma dato che in servizio non si poteva fumare, ne conseguiva che la notte tutti quelli che non dormivano fumavano, quindi ogni letto era avvolto in una nuvola di fumo e tutto l'ambiente era oscurato come da una nebbia. Anche se la maggior parte di loro era fondamentalmente d'accordo, non si riusciva a ottenere che durante la notte la luce restasse accesa solo a un'estremità della sala. Mettendo in pratica questa proposta, quelli che volevano dormire avrebbero potuto tranquillamente farlo nel buio di una metà della sala - era uno stanzone con quaranta letti - mentre gli altri nella parte illuminata avrebbero potuto giocare a dadi o a carte e fare tutto quello per cui era necessaria la luce. E se qualcuno che aveva il letto nella metà illuminata della sala avesse voluto dormire, avrebbe potuto coricarsi in uno dei letti liberi nella parte buia, perché ce n'erano sempre a sufficienza, e nessuno aveva mai avuto qualcosa da ridire se il suo letto veniva occupato temporaneamente da un altro. Ma questa suddivisione non avveniva mai. Ad esempio c'erano sempre due che dopo aver dormito un poco al buio avevano voglia di giocare a carte su un asse collocato tra i loro letti, e naturalmente accendevano una lampada la cui luce accecante colpiva in viso qualcuno addormentato facendolo sobbalzare. Questo qualcuno restava ancora un po' a rigirarsi nel letto, ma poi non trovava altro da fare se nn mettersi a giocare col suo vicino, anche lui ormai sveglio, accendendo un'altra lampada. E tutti naturalmente riaccendevano la pipa. C'era anche chi voleva dormire ad ogni costo - in genere Karl era tra questi - e che, anziché tenere la testa appoggiata al cuscino, la metteva sotto o l'avvolgeva tra le coperte; ma come si poteva continuare a dormire se il proprio vicino si alzava nel cuor della notte per andare a divertirsi ancora un poco in città prima di prender servizio, se si lavava nella bacinella installata ai piedi del letto facendo rumore e schizzando acqua ovunque, se calzava le scarpe non solo con un gran chiasso, ma anche battendo i piedi per terra per infilarle meglio - quasi tutti avevano scarpe troppo strette, malgrado la forma fosse americana -, per poi infine, dato che gli mancava qualcosa per vestirsi, sollevare il guanciale del vicino, il quale, già sveglio da tempo, aspettava solo il momento di saltargli addosso? Erano anche tutti giovani sportivi e in genere robusti, che non volevano perdere l'occasione per fare un po' di esercizio. E si poteva star certi, se durante la notte si veniva svegliati di soprassalto in pieno sonno da un gran rumore, di vedere per terra vicino al proprio letto due lottatori e in piena luce gli esperti, in camicia e mutande, che stavano in piedi su tutti i letti attorno. Una volta, durante uno di questi combattimenti notturni, uno dei lottatori cadde addosso a Karl che dormiva, e la prima cosa che vide Karl aprendo gli occhi fu il sangue che scorreva dal naso del ragazzo e che gl'inondò tutto il lenzuolo ancor prima che si potesse pensare a un rimedio. Karl spesso trascorreva quasi tutte le dodici ore di libertà cercando di riguadagnare un po' di sonno, sebbene fosse anche molto tentato di partecipare ai divertimenti degli altri, ma aveva sempre la sensazione che tutti gli altri nella loro vita avessero un vantaggio su di lui, e credeva di dover compensare questo vantaggio lavorando con diligenza e facendo qualche rinuncia. Quindi, sebbene il sonno per lui fosse molo importante, soprattutto per via del suo lavoro, né con la capocuoca né con Therese si lamentava della situazione nel dormitorio, perché in primo luogo quasi tutti i ragazzi lo tolleravano senza troppe lamentele, e in secondo luogo il fastidio di dormire in comune faceva parte del suo lavoro di addetto all'ascensore, che aveva accettato con gratitudine dalle mani della capocuoca.

Una volta la settimana, per il cambiamento di turno, aveva ventiquattr'ore libere, che in parte impiegava per fare qualche visita alla capocuoca e per scambiare poche parole con Therese, adattandosi al suo scarso tempo libero, in qualche angolo, in un corridoio, e più di rado nella sua stanza. Talvolta l'accompagnava anche in città a fare le sue commissioni, che erano tutte urgenti. Allora andavano quasi di corsa fino alla stazione più vicina della metropolitana, Karl le teneva la borsa, il viaggio era brevissimo, come se il treno fosse trasportato senz'alcun impedimento, e non appena scendevano, senz'attendere l'ascensore che per loro era troppo lento, si precipitavano su per le scale e davanti a loro apparivano grandi piazze da cui le strade si dipartivano a raggiera, percorse in ogni direzione dal fragore di traffico che scorreva lineare, ma Karl e Therese correvano l'uno accanto all'altra nei vari uffici, lavanderie, magazzini e negozi in cui dovevano fare qualche ordinazione o reclamo che non era facile sbrigare per telefono o comunque non particolarmente importante. Therese si accorse ben presto che l'aiuto di Karl non era da disprezzare, anzi, accelerava notevolmente i tempi. Quando era con lui non le succedeva mai, come le era capitato più volte, di dover aspettare che i negozianti superindaffarati le dessero retta. Karl si avvicinava al banco e vi batteva sopra le nocche finché riusciva a farsi ascoltare, gridava al di sopra di una barriera umana nel suo inglese ancora un po' troppo caricato, facilmente riconoscibile tra centinaia di voci, e si avvicinava alle persone senza esitare, anche se queste si allontanavano con alterigia nel fondo di lunghissimi negozi. Non lo faceva per arroganza, era disposto a tollerare qualsiasi difficoltà, ma si sentiva in una posizione sicura che gli dava dei diritti, perché l'Hotel Occidental era un cliente con cui non c'era da scherzare e in fondo Therese, nonostante la sua esperienza commerciale, aveva bisogno d'aiuto.

«Dovrebbe venire sempre con me», gli diceva a volte ridendo contenta quando qualche impresa era riuscita particolarmente bene.

Durante il mese e mezzo in cui rimase a Ramses, solo tre volte Karl si trattenne più a lungo, per un paio d'ore, nella stanzetta di Therese. Naturalmente era più piccola di qualsiasi altra stanza della capocuoca, le poche cose che conteneva erano quasi ammassate attorno alla finestra, ma Karl, dopo l'esperienza del dormitorio, sapeva apprezzare il vantaggio di una stanza propria, relativamente tranquilla, e anche se non lo disse apertamente, Therese si accorse che la sua stanza gli piaceva. Non aveva più segreti per lui, né sarebbe stato facile averne dopo la visita che gli aveva fatto la prima sera. Era una figlia illegittima, suo padre era capomastro e aveva fatto trasferire lì la madre e la figlia dalla Pomerania; ma come se con ciò avesse assolto il suo dovere o si fosse aspettato persone diverse dalla donna consumata dal lavoro e dalla fragile creatura che era andato ad accogliere allo sbarco, poco dopo il loro arrivo era emigrato in Canada senza tante spiegazioni, e le due abbandonate non avevano più ricevuto da lui né lettere né notizie, cosa che in parte era comprensibile perché era diventato impossibile raggiungerle negli immensi quartieri orientali di New York.

Una volta Therese - erano entrambi vicino alla finestra - gli raccontò della morte di sua madre. Come quella sera d'inverno - lei aveva forse cinque anni - erano andate in giro per le strade, ognuna col suo fagotto a cercare un posto per dormire. Come la madre dapprima la teneva per mano - c'era una bufera di neve e non era facile proseguire -, finché la sua mano si era paralizzata per il gelo e senza voltarsi aveva lasciato andare Therese, che si era aggrappata con grande sforzo alle gonne della madre. Spesso Therese inciampava e cadeva persino, ma la madre era come impazzita e non si fermava. E quelle bufere di neve nelle lunghe strade diritte di New York! Karl non conosceva ancora l'inverno di New York. Quando si cammina contro il vento che turbina, non si possono aprire gli occhi neppure per un attimo, di continuo il vento e la neve sferzano il viso, si tenta di correre ma non si riesce a procedere, è disperante. Naturalmente un bambino è più avvantaggiato di un adulto, corre al di sotto del vento e almeno si diverte un poco. Allora anche Therese non aveva capito molto di sua madre, ed era fermamente convinta che se quella sera l'avesse capita meglio - ma era ancora così piccola - lei non sarebbe morta in modo così miserabile. Già da due giorni la madre era senza lavoro, non avevano neppure una monetina, avevano trascorso la giornata all'aperto senza mangiare un boccone, e nei loro fagotti si trascinavano dietro soltanto inutili stracci che non osavano gettar via, forse per superstizione. Il giorno seguente sua madre avrebbe dovuto lavorare in un cantiere, ma temeva di non poter sfruttare quell'occasione, come aveva cercato di spiegare per tutto il giorno a Therese, perché si sentiva sfinita, già la mattina per strada aveva sputato molto sangue spaventando i passanti, e l'unico suo desiderio era di poter arrivare in un posto caldo e riposarsi. E proprio quella sera era impossibile trovare un riparo. Quando non erano scacciate dal portiere già all'ingresso, dove avrebbero potuto pur sempre sostare un momento pr riprendersi dall'inclemenza del tempo, dovevano attraversare angusti e gelidi corridoi, salire una quantità di piani, girare attorno ai balconi affacciati sui cortili, bussare a qualsiasi porta. Ora non osavano chiedere niente, ora pregavano tutti quelli che incontravano, e una o due volte la madre si era seduta senza fiato sui gradini di una scala deserta, aveva attirato a sé Therese, che quasi si schermiva, e l'aveva baciata premendole contro le labbra fino a farle male. In seguito, pensando che quelli erano stati gli ultimi baci, Therese non riusciva a capire come fosse stata tanto cieca da non accorgersene, anche se era una bambina così piccola. Passavano davanti a stanze che avevano le porte aperte per far uscire l'aria soffocante, e dalla foschia fumosa che riempiva la stanza come se si fosse sviluppato un incendio emergeva soltanto la figura di qualcuno incorniciata dalla porta che dichiarava la propria impossibilità di alloggiarle o restando muto o spendendo poche parole. In seguito Therese aveva capito che la madre aveva cercato posto seriamente soltanto nelle prime ore, poiché poco dopo la mezzanotte non aveva più chiesto nulla, sebbene fino all'alba non avesse mai smesso di proseguire, tranne che per brevi intervalli, e sebbene quegli edifici, in cui non si chiudono mai né il portone né la porta di casa, siano sempre animati e ad ogni passo si incontri qualcuno. In realtà non camminavano in fretta, compivano soltanto l'ultimo sforzo di cui erano capaci, probabilmente si limitavano a trascinarsi. Therese non sapeva neppure se tra la mezzanotte e le cinque del mattino fossero state in venti case, in due o in nessuna. In genere i corridoi di questi edifici sono disposti in modo da poter sfruttare il più possibile lo spazio, ma l'orientamento non è facile; quante volte forse avevano attraversato lo stesso corridoio! Therese ricordava vagamente che erano uscite dal portone di una casa in cui avevano girato per ore, per poi, appena in strada, tornare subito indietro per precipitarsi di nuovo nella stessa csa, o almeno così le sembrava. Naturalmente per la bambina era stata una sofferenza inspiegabile essere trascinata ora per mano dalla madre ora aggrappandosi a lei senza una minima parola di conforto, e allora aveva creduto che tutto questo significasse soltanto la volontà di abbandonarla da parte della madre. Quindi, anche quando sua madre la teneva per mano, per sicurezza Therese si aggrappava con l'altra mano alle sue gonne, e di tanto in tanto scoppiava in singhiozzi. Non voleva essere abbandonata lì, tra persone che davanti a loro salivano le scale con passi pesanti, che dietro di loro, ancora invisibili, si stavano avvicinando da una curva della scala, che litigavano nei corridoi davanti a una porta prima di spingersi a vicenda dentro una stanza. Ubriachi giravano per la casa cantando con voce roca, e per fortuna la madre riusciva a infilarsi con Therese tra quei gruppi sempre più serrati. Certo, a notte avanzata, quando l'attenzione veniva meno e più nessuno s'intestardiva sul proprio diritto, avrebbero almeno potuto infilarsi in uno dei dormitori comuni che avevano oltrepassato affittati da imprenditori, ma Therese non era in grado di farlo, e la madre non voleva più riposarsi. La mattina seguente, l'inizio di un bel giorno d'inverno, erano appoggiate entrambe al muro di una casa, e probabilmente avevano dormito un poco o forse avevano soltanto fissato il vuoto con gli occhi spalancati. Risultò che Therese aveva perso il suo fagotto, e per punirla della sua disattenzione la madre cominciò a picchiarla, ma Therese né udiva né sentiva i colpi. Poi proseguirono per le vie che si andavano animando, la madre camminava lungo i muri, attraversarono un ponte, la madre spazzò via con la mano la brina del parapetto e infine - Therese allora l'aveva accettato, oggi non capiva come -, giunsero proprio al cantiere in cui la madre avrebbe dovuto lavorare quella mattina. Non disse a Therese di aspettare o di andarsene, e Therese interpretò questo silenzio come l'ordine di aspettarla, dato che era l'atteggiamento più risondente ai suoi desideri. Quindi si sedette su un mucchio di mattoni e stette a guardare la madre che slegava il suo fagotto e prendeva un cencio colorato legandoselo poi sulla testa attorno al fazzoletto che aveva tenuto addosso tutta la notte. Therese era troppo stanca anche solo per pensare di aiutare la madre. Senza presentarsi alla baracca del cantiere secondo l'uso, e senza chiedere niente a nessuno, la madre salì per una scala a pioli, come se avesse già saputo che lavoro doveva fare. Therese si meravigliò, perché di solito le operaie sbrigavano solo i lavori più semplici a terra, come spegnere la calce viva, passare i mattoni e simili. Quindi pensò che quel giorno la madre volesse fare un lavoro più retribuito e le sorrise, ancora assonnata. L'edificio non era ancora alto, solo il pianterreno era costruito, anche se le armature per il piano successivo, pur senza le assi di collegamento, si stagliavano già contro il cielo azzurro. Arrivata in cima, la madre evitò con destrezza i muratori che posavano un mattone sull'altro e che stranamente non le chiesero nulla, appoggiò con cautela la sua mano delicata a un tramezzo di legno che fungeva da parapetto, e da sotto Therese, ancora assonnata, ammirò la sua abilità, e le parve che la madre le rivolgesse una sguardo affettuoso. Poi la madre proseguì e giunse davanti a un mucchietto di mattoni, davanti a cui cessava il parapetto e probabilmente anche il camminamento, ma lei non si fermò, si diresse verso il mucchio e la sua abilità sembrò venir meno, perché vi inciampò contro e precipitò al di là nel vuoto. Molti mattoni le rotolarono dietro, e infine, dopo un certo intervallo, da qualche parte un asse pesante si staccò e le cadde addosso di schianto. L'ultimo ricordo che aveva Therese di sua madre era l'immagine di lei stesa a terra con le gambe allargate con indosso la gonna a quadri che aveva ancora dalla Pomerania, quell'asse ruvido su di lei che la copriva quasi per intero, la gente che accorreva da tutte le parti e un uomo in cima all'impalcatura che gridav qualcosa con ira.


Date: 2015-12-18; view: 510


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