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UNA VILLA NEI PRESSI DI NEW YORK 8 page

A Karl non restava che cercarsi un altro posto e ricominciare da capo le sue fatiche. Ma intanto era passato molto tempo. L'orologio in fondo alla sala, di cui a stento riusciva a distinguere le lancette per via del fumo, segnava già le nove passate. Gli altri posti al banco erano ancora più affollati del suo, che era più appartato. Inoltre col passar del tempo la sala si riempiva sempre più. Dalla porta d'ingresso continuavano a entrare nuovi clienti salutando a gran voce. Alcuni sgombravano da sé il banco con fare autoritario e ci si sedevano sopra brindando l'uno alla salute dell'altro; erano i posti migliori, da cui si dominava tutta la sala.

Karl continuò a tentare di farsi strada, anche se non aveva quasi più speranza di raggiungere qualcosa. Cominciava a rimpiangere di essersi offerto per quella commissione senza conoscere le usanze locali. I suoi compagni l'avrebbero sgridato con ragione, e per giunta avrebbero pensato che era tornato a mani vuote soltanto per risparmiare. Intanto era arrivato in un punto in cui sui tavoli intorno giravano piatti caldi di carne con appetitose patate gialle; come la gente se li fosse procurati, era un mistero.

Poco lontano da sé vide una donna di una certa età, che evidentemente faceva parte del personale dell'albergo e parlava ridendo con un cliente; nel frattempo continuava a trafficare con una forcina tra i capelli. Karl decise subito di rivolgersi a quella donna per l'ordinazione, prima di tutto perché, come unica donna in sala, non partecipava al chiasso e alla frenesia generale, e poi anche per il semplice motivo che era l'unica dipendente dell'albergo che poteva raggiungere, sempreché ovviamente non scappasse via per le sue faccende alla prima parola che le avrebbe rivolto. Invece avvenne il contrario. Karl non le aveva ancora rivolto la parola, si era soltanto limitato a osservarla, quando lei, come avviene talvolta quando ci si guarda intorno parlando, guardò verso Karl, e interrompendosi gli chiese amichevolmente, in un inglese chiaro come un manuale, se desiderasse qualcosa.

«A dire il vero», rispose Karl, «qui non riesco a farmi dare niente».

«Allora venga con me, piccolo», disse congedandosi dal suo conoscente, che si tolse il cappello, la qual cosa fece un'impressione di cortesia straordinaria, quindi prese per mano Karl, si diresse verso il banco, spinse un cliente da parte, aprì una ribalta nel banco, attraversò un passaggio retrostante, dove bisognava schivare i camerieri che correvano instancabili su e giù, aprì una doppia porta nascosta dalla tappezzeria e si trovarono in una dispensa grande e fresca. «Bisogna proprio conoscere il meccanismo» si disse Karl.

«Allora, che cosa vuole?» chiese la donna, chinandosi sollecita verso di lui. Era molto grassa, il suo corpo era una massa oscillante, ma al confronto il suo viso aveva una struttura abbastanza fine. Vedendo la varietà dei cibi, disposti con ordine sugli scaffali e sui tavoli, Karl fu subito tentato di fare un'ordinazione migliore per la cena, soprattutto perché da quella donna autorevole poteva aspettarsi di pagare meno, ma infine, poiché non gli veniva in mente niente di adatto, ripiegò sul lardo, sul pane e sulla birra.



«Nient'altro?» chiese la donna.

«No, grazie», disse Karl, «ma per tre persone».

Quando la donna s'informò sugli altri due, Karl le raccontò brevemente dei suoi compagni; gli faceva piacere sentirsi chiedere qualche cosa.

«Però questo è un cibo da detenuti», disse la donna, che evidentemente si aspettava qualche altra ordinazione. Ma Karl temeva che lei volesse regalargli il cibo e non accettasse denaro, quindi tacque.

«Sistemeremo tutto in un momento», disse la donna, dirigendosi verso un tavolo con un'agilità straordinaria per la sua mole, e con un lungo e sottile coltello a sega tagliò un grosso pezzo di lardo ben frammisto di carne, tolse una pagnotta da uno scaffale, prese da terra tre bottiglie di birra e mise il tutto in un cestino di paglia, porgendolo a Karl. Nel frattempo gli spiegò che lo aveva portato in dispensa perché i cibi esposti sul banco, malgrado fossero consumati rapidamente, perdevano sempre la loro freschezza per via del fumo e dell'aria malsana della sala. Ma per i clienti andava tutto bene. Karl non rispose nulla, dato che ignorava il motivo di quel trattamento di favore. Pensava ai suoi compagni, che forse, per quanto conoscessero bene l'America, non sarebbero mai entrati in quella dispensa e avrebbero dovuto accontentarsi dei cibi guasti sul banco. Lì non si udivano i rumori della sala, i muri dovevano essere molto spessi, forse per mantenere fresca quella dispensa a volta. Karl aveva già in mano il cestino da qualche minuto, ma non si decideva a pagare e non si muoveva. Solo quando la donna fece per aggiungere al cesto una bottiglia simile a quelle che c'erano in sala sui tavolini la ringraziò rifiutando con un fremito.

«Ha ancora molta strada da fare?» chiese la donna.

«Fino a Butterford», rispose Karl.

«È ancora molto lontano» replicò la donna.

«Ancora un giorno di viaggio», disse Karl.

«Non di più?» chiese la donna.

«Oh, no», disse Karl.

La donna sistemò alcune cose sui tavoli, un cameriere entrò, guardandosi attorno come se cercasse qualcosa, la donna gl'indicò una grossa ciotola piena di sardine cosparse di prezzemolo, il cameriere la prese e la portò in sala tenendola in alto tra le mani.

«Ma perché vuol dormire all'aperto?» chiese la donna. «Qui abbiamo posto a sufficienza. Resti da noi all'albergo».

Quest'idea attirava molto Karl, soprattutto perché aveva dormito così male la notte precedente.

«Fuori ho il mio bagaglio», disse con una certa esitazione non priva di vanità.

«Non ha che da portarlo qui», disse la donna, «questo non è un problema».

«E i miei compagni?» disse Karl, rendendosi conto che quello era il problema.

«Naturalmente anche loro possono dormire qui», disse la donna. «Venga dunque, non stia a farsi pregare!».

«In complesso i miei compagni sono brava gente», disse Karl, «però non sono puliti».

«Non ha visto lo sporco che c'è in sala?» chiese la donna facendo una smorfia. «Da noi può capitare anche il peggio. Dunque, farò subito preparare tre letti ma in soffitta, perché l'albergo è al completo, anch'io ho traslocato in soffitta, comunque è sempre meglio che all'aperto».

«Non posso portare con me i miei compagni», disse Karl. Immaginava il chiasso che avrebbero fatto quei due nei corridoi di quell'albergo elegante, Robinson avrebbe sporcato tutto e Delamarche avrebbe senz'altro infastidito anche quella donna.

«Non vedo perché debba essere impossibile», disse la donna, «ma se pensa così, lasci i suoi compagni all'aperto e venga qui solo».

«Non posso, non posso proprio», disse Karl, «sono i miei compagni e devo restare con loro».

«Lei è ostinato», disse la donna volgendo gli occhi altrove, «uno pensa di farle un piacere, pensa di aiutarla e lei si oppone con tutte le sue forze».

In cuor suo Karl lo capiva, ma non trovava modo di giustificarsi, quindi si limitò ad aggiungere: «La ringrazio molto per la sua gentilezza». Poi ricordò che non aveva ancora pagato il conto e le chiese quanto doveva.

«Pagherà quando mi riporterà il cestino», disse la donna. «Mi serve domattina al più tardi».

«Senz'altro», disse Karl. Lei aprì una porta che portava direttamente all'esterno e aggiunse, mentre Karl usciva con un inchino: «Buona notte, però sbaglia». Mentre si allontanava, gli gridò ancora: «Arrivederci a domani!».

Appena fuori, riudì dalla sala il rumore di prima, cui si era aggiunta anche la musica di un'orchestrina. Per fortuna non aveva dovuto riattraversare la sala. Ora tutti e cinque i piani dell'albergo erano illuminati, rischiarando l'intero tratto di strada davanti. Fuori continuavano a passare automobili, anche se un po' più rade; si avvicinavano più velocemente che non durante il giorno, esploravano il fondo stradale con la luce bianca dei loro fari, li abbassavano incrociando l'area illuminata dell'albergo e risprofondavano nell'oscurità riaccendendo gli abbaglianti.

Karl trovò i suoi compagni già immersi in un sonno profondo; in effetti era stato via troppo a lungo. Si accingeva a disporre il cibo in modo allettante su tovaglioli di carta che aveva trovato nel cestino per poi svegliare i compagni solo alla fine, quando vide con spavento che la sua valigia, che aveva lasciato chiusa e di cui aveva la chiave in tasca, era spalancata, con metà del contenuto sparso tra l'erba.

«Svegliatevi!» gridò. «Voi dormite, e nel frattempo sono venuti i ladri».

«Manca qualcosa?» chiese Delamarche. Robinson, ancora semiaddormentato, allungava già la mano verso la birra.

«Non lo so», gridò Karl, «ma la valigia è aperta. È un'imprudenza mettersi a dormire e lasciare la valigia incustodita».

Delamarche e Robinson risero, e il primo replicò: «La prossima volta cerchi di sbrigarsi. L'albergo è a dieci passi da qui e lei ci mette tre ore per andare e tornare. Avevamo fame, abbiamo pensato che lei potesse avere qualcosa da mangiare nella valigia e abbiamo trafficato con la serratura finché si è aperta. Dentro però non c'era niente, e adesso può risistemare tutto tranquillamente».

«Ah, è così», disse Karl e fissò il cestino che si vuotava rapidamente ascoltando lo strano rumore che faceva Robinson mentre beveva, perché il liquido prima gli scendeva in gola, poi produceva un rigurgito con una specie di fischio e infine gli rotolava giù nello stomaco come una cascata.

«Avete finito di mangiare?» chiese, mentre i due facevano una pausa per tirare il fiato.

«Ma lei non ha già mangiato all'albergo?» chiese Delamarche, credendo che Karl reclamasse la sua parte.

«Se volete mangiare ancora, sbrigatevi», disse Karl avviandosi verso la sua valigia.

«Sembra che sia di malumore», disse Delamarche rivolto a Robinson.

«Non sono di malumore», rispose Karl, «ma le par giusto forzare la mia valigia in mia assenza e tirar fuori la mia roba? So che tra compagni bisogna essere molto tolleranti, ed ero pronto a esserlo, ma questo è troppo. Passerò la notte all'albergo e non verrò a Butterford. Sbrigatevi a mangiare, devo restituire il cestino».

«Vedi, Robinson, così si parla», disse Delamarche. «Questo è un discorso. È proprio un tedesco. All'inizio mi avevi messo in guardia, ma io sono stato un povero sciocco e l'ho portato con noi. Gli abbiamo dato la nostra fiducia, l'abbiamo trascinato con noi un giorno intero perdendo almeno mezza giornata, e adesso solo perché all'albergo c'è qualcuno che lo alletta, ci lascia, punto e basta. Ma dato che è un tedesco falso, non lo fa apertamente, trova la scusa della valigia, e dato che è un tedesco rozzo, non può andarsene senza offenderci nel nostro onore e ci dà dei ladri perché ci siamo permessi uno scherzetto con la sua valigia».

Karl, che stava risistemando la sua roba, disse senza voltarsi: «Continui pure così e mi renderà più facile andarmene. So benissimo che cos'è l'amicizia. Ho avuto amici anche in Europa e nessuno può accusarmi di un comportamento falso o meschino. Naturalmente qui non abbiamo contatti, ma se mai dovessi tornare in Europa, tutti mi accoglierebbero bene e mi tratterebbero subito come un amico. E avrei dovuto tradire proprio voi due, Delamarche e Robinson, che siete stati così gentili, come riconoscerò sempre, da occuparvi di me, proponendomi un posto d'apprendista a Butterford? Ma questo non c'entra. Voi non avete niente, cosa che non vi rende certo inferiori ai miei occhi, ma m'invidiate il poco che possiedo, quindi cercate di umiliarmi e questo non lo sopporto. E adesso, dopo aver forzato la mia valigia, non solo non vi scusate, ma insultate me e anche il mio popolo, di modo che non mi è più possibile di restare con voi. Del resto tutto questo non riguarda in particolare lei, Robinson. Contro il suo carattere posso solo eccepire che lei dipende troppo da Delamarche».

«Finalmente si rivela», disse Delamarche, avvicinandosi a Karl e dandogli un colpetto come per richiamare la sua attenzione, «finalmente si rivela per quello che è. Tutto il giorno mi è corso dietro, si è attaccato alla mia giacca, ha seguito ogni mio movimento, sempre zitto zitto. Ma adesso che crede di avere qualche appoggio all'albergo, comincia a fare grandi discorsi. Lei è un piccolo furbacchione, e non so proprio se la prenderemo così tranquillamente o se non pretenderemo un compenso per la lezione che ha imparato da noi oggi. Senti, Robinson, noi lo invidiamo - dice - per quello che possiede. In un giorno di lavoro a Butterford - per non parlare della California - guadagnamo dieci volte di più di quello che ci ha mostrato e di quello che può ancora tener nascosto nella fodera della sua giacca. Dunque, stia bene attento a come parla!».

Karl aveva alzato il capo dalla valigia e vide che gli si avvicinava anche Robinson, sempre assonnato ma un po' rianimato dalla birra. «Se rimango ancora qui», disse, «potrei anche avere altre sorprese. Mi sembra che abbia voglia di picchiarmi».

«Anche la pazienza ha un limite», disse Robinson.

«Farebbe meglio a tacere, Robinson», disse Karl senza staccare gli occhi da Delamarche, «in cuor suo mi dà ragione, ma deve fingere di parteggiare per Delamarche».

«Sta forse tentando di corromperlo?» chiese Delamarche.

«Non ci penso neanche», disse Karl. «Sono contento di andarmene e non voglio aver più niente a che fare con voi. Solo una cosa voglio ancora dire, lei mi ha accusato di avere del denaro e di avervelo nascosto. Ammesso che sia vero, non era forse giusto di fronte a gente che conoscevo soltanto da un paio d'ore, e il vostro attuale comportamento non conferma forse che avevo ragione?».

«Sta' calmo», disse Delamarche a Robinson, sebbene questi non si fosse mosso. Poi chiese a Karl: «Visto che lei è così sfacciatamente sincero, dal momento che stiamo parlando con calma, sia ancora più sincero e confessi il vero motivo per cui vuole andare all'albergo». Karl dovette indietreggiare di un passo scavalcando la valigia, tanto Delamarche gli stava addosso. Ma Delamarche non si lasciò sviare, spinse la valigia di fianco e fece un altro passo avanti, calpestando così lo sparato bianco di una camicia che era rimasta sull'erba, e ripeté la domanda.

Come a rispondergli, dalla strada salì un uomo che si avvicinò al gruppo con in mano una lampada tascabile dalla luce molto forte. Era un cameriere dell'albergo. Non appena vide Karl, disse:

«La sto cercando da quasi mezz'ora. Ho già guardato fra tutti i cespugli ai due lati della strada. La capocuoca m'incarica di dirle che il suo cestino le serve subito».

«Eccolo», disse Karl con voce tremante per l'agitazione. Delamarche e Robinson si erano scostati con finta riservatezza, come facevano sempre davanti a estranei di buona condizione. Il cameriere prese il cestino e disse: «La capocuoca m'incarica anche di chiederle se ha riflettuto e se preferisce pernottare all'albergo. Saranno benvenuti anche questi due signori, se lei vuole portarli con sé. I letti sono già pronti. Questa notte fa caldo, ma può essere pericoloso dormire qui sul colle, spesso si trovano serpenti».

«Visto che la capocuoca è così gentile, accetterò senz'altro il suo invito», disse Karl, aspettando una risposta dai suoi compagni. Ma Robinson se ne stava lì apatico, e Delamarche guardava le stelle con le mani nelle tasche dei pantaloni. Evidentemente entrambi erano convinti che Karl li avrebbe portati con sé.

«In questo caso», disse il cameriere, «ho l'incarico di condurla all'albergo e di portarle il bagaglio».

«Allora la prego di attendere ancora un momento», disse Karl, chinandosi per riporre nella valigia le poche cose che ancora erano sparse attorno.

D'un tratto si alzò. La fotografia mancava, era stata messa in valigia sopra a tutto il resto e non si trovava da nessuna parte. Non mancava nient'altro. «Non riesco a trovare la fotografia», disse a Delamarche in tono supplice.

«Che fotografia?» chiese quello.

«La fotografia dei miei genitori», rispose Karl.

«Non abbiamo visto nessuna fotografia», disse Delamarche.

«Nella valigia non c'era nessuna fotografia, signor Rossmann», confermò anche Robinson da parte sua.

«Ma non è possibile», disse Karl, e i suoi sguardi supplichevoli indussero il cameriere ad avvicinarsi. «Era sopra a tutto il resto, e adesso è sparita. Se almeno non aveste fatto scherzi con la valigia!».

«È più che certo», disse Delamarche, «nella valigia non c'era nessuna fotografia».

«Per me era più importante di tutto quello che possiedo», disse Karl al cameriere, che andava cercando tra l'erba. «È insostituibile, non posso averne un'altra». E quando il cameriere desistette dalla sua ricerca infruttuosa, aggiunse: «Era la sola fotografia che avevo dei miei genitori».

Allora il cameriere, a voce alta e senz'alcun riguardo, disse: «Forse potremmo esaminare le tasche dei signori».

«Sì», rispose subito Karl, «devo trovare la fotografia. Ma prima di esaminare le tasche, voglio ancora dire che chi mi dà spontaneamente la fotografia avrà la valigia con tutto il suo contenuto». Dopo un momento di silenzio generale Karl disse al cameriere: «È evidente che i miei compagni preferiscono farsi perquisire. Ma anche adesso prometto di dare la valigia con il suo contenuto a chi avrà in tasca la fotografia. Di più non posso fare».

Subito il cameriere cominciò a perquisire Delamarche, che gli pareva più difficile da trattare, e lasciò Robinson a Karl. Fece anche osservare a Karl che entrambi dovevano essere perquisiti contemporaneamente, altrimenti uno dei due, non visto, avrebbe potuto far sparire la fotografia. Subito Karl trovò nella tasca di Robinson una cravatta di sua proprietà, ma non la prese e gridò al cameriere: «Qualsiasi cosa trovi addosso a Delamarche, gliela lasci pure, per favore. Non voglio altro che la fotografia, solo la fotografia».

Frugando nella tasca della giacca Karl toccò il petto caldo e grasso di Robinson, e d'un tratto ebbe il dubbio di commettere una grossa ingiustizia nei confronti dei suoi compagni. Quindi fece il possibile per affrettarsi. Ma tutto fu inutile, la fotografia non si trovò né addosso a Robinson né addosso a Delamarche.

«Niente da fare», disse il cameriere.

«Probabilmente hanno strappato la fotografia e gettato via i pezzi», disse Karl. «Pensavo che fossero amici, ma nel loro intimo volevano soltanto farmi del male. Forse non Robinson, non gli sarebbe neppure venuto in mente che la fotografia avesse tanto valore per me, ma Delamarche senz'altro». Davanti a sé Karl vedeva soltanto il cameriere con la sua lanterna che creava un piccolo cerchio di luce, mentre tutto il resto era immerso nell'oscurità, anche Delamarche e Robinson.

Naturalmente era fuori questione portare i due all'albergo. Il cameriere si caricò la valigia sulla spalla, Karl prese il cesto e se ne andarono. Karl era già sulla strada quando interruppe le sue riflessioni, si fermò e gridò verso l'alto nel buio: «Sentite, se uno di voi ha ancora la fotografia e vuol portarmela all'albergo, avrà ugualmente la mia valigia e non sarà denunciato, lo giuro!». Sotto non arrivò nessuna risposta, si sentì solo una parola interrotta, l'inizio di un grido di Robinson, a cui evidentemente Delamarche aveva subito tappato la bocca. Karl attese ancora a lungo, sperando che qualcuno dei due cambiasse idea. Due volte, a intervalli, gridò ancora: «Sono sempre qui!». Ma nessun suono gli giunse in risposta, solo una volta si sentì una pietra rotolare giù per il pendio, forse per caso o forse perché qualcuno aveva fallito il bersaglio.

 

HOTEL OCCIDENTAL

 

All'albergo Karl fu condotto subito in una specie d'ufficio in cui la capocuoca, con un'agenda in mano, dettava una lettera da scrivere a macchina a una giovane dattilografa.

La dettatura estremamente precisa, il battito regolare ed elastico dei tasti coprivano il ticchettio appena percettibile dell'orologio a muro, che segnava già quasi le undici e mezza. «Bene!» disse la capocuoca chiudendo l'agenda, la dattilografa balzò in piedi e ripiegò il coperchio di legno sulla macchina da scrivere, senza staccare gli occhi da Karl durante questo lavoro meccanico. Sembrava ancora una scolara, aveva il grembiule stirato con molta cura, un po' arricciato sulle spalle, una pettinatura decisamente alta e, considerando questi particolari, la serietà del suo viso era piuttosto sorprendente. S'allontanò con un inchino prima verso la capocuoca, poi verso Karl, che istintivamente rivolse alla capocuoca uno sguardo interrogativo.

«Mi fa piacere che si sia deciso a venire», disse la capocuoca. «E i suoi compagni?».

«Non li ho portati», disse Karl.

«Probabilmente si mettono in marcia molto presto domattina», disse la capocuoca come per spiegarsi la cosa.

«Non penserà che mi metta in marcia con loro?» si chiese Karl, e per eliminare ogni dubbio aggiunse: «Ci siamo separati in disaccordo».

La capocuoca parve accogliere la notizia con piacere. «Quindi lei è libero?» chiese.

«Sì, sono libero», disse Karl, e nulla gli sembrava più inutile.

«Senta, non accetterebbe un posto qui all'albergo?» chiese la capocuoca.

«Molto volentieri», disse Karl, «ma non so fare quasi niente. Per esempio non so neppure scrivere a macchina».

«Non è questa la cosa più importante», disse la capocuoca. «Per il momento avrebbe un posticino da poco, e poi dovrebbe cercare di migliorare lavorando con diligenza e attenzione. Comunque credo che per lei sarebbe meglio e anche più opportuno stabilirsi da qualche parte, anziché andare in giro così per il mondo. Non mi sembra fatto per questa vita».

«Tutto questo discorso lo sottoscriverebbe anche lo zio», si disse Karl, annuendo in segno d'approvazione. Nel contempo gli venne in mente di non essersi neppure presentato a quella donna che si preoccupava tanto per lui. «La prego di scusarmi», disse, «non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Karl Rossmann».

«Lei è tedesco, non è vero?».

«Sì», disse Karl, «sono in America da poco».

«E di dov'è?».

«Di Praga, in Boemia», disse Karl.

«Ma guarda!», esclamò la cuoca in un tedesco dal forte accento inglese, tendendogli quasi le braccia, «allora siamo connazionali, io mi chiamo Grete Mitzelbach e sono viennese. E conosco benissimo Praga, per sei mesi ho lavorato all'"Oca d'oro" in piazza San Venceslao. Ma pensi!».

«E quando?» chiese Karl.

«Oh molti, molti anni fa».

«Da due anni», disse Karl, «la vecchia "Oca d'oro" è stata demolita».

«Sì, certo», disse la capocuoca, immersa nei ricordi dei vecchi tempi.

Ma ad un tratto, rianimandosi, prese le mani di Karl ed esclamò: «Ora che sappiamo che lei è un mio connazionale, non può assolutamente andar via. Non può farmi questo. Le piacerebbe, ad esempio, essere addetto all'ascensore? Dica soltanto sì e lo sarà. Se ha viaggiato un po' saprà che non è facile avere questi posti, perché come inizio sono quanto di meglio si possa desiderare. Entra in contatto con tutti i clienti, la vedono sempre, le affidano piccoli incarichi, in breve, ogni giorno ha la possibilità di migliorare. E a tutto il resto penserò io».

«Mi piacerebbe molto essere addetto all'ascensore», disse Karl dopo una breve riflessione. Sarebbe stata una grossa sciocchezza nutrire dubbi circa quel posto pensando ai suoi cinque anni di ginnasio, perché in America avrebbe avuto piuttosto motivo di vergognarsene. Del resto a Karl gli addetti all'ascensore erano sempre piaciuti, gli sembravano quasi il vanto dell'albergo.

«Non è richiesta la conoscenza delle lingue?», chiese ancora.

«Lei parla tedesco e un buon inglese, è più che sufficiente».

«L'inglese l'ho imparato qui in America, in due mesi e mezzo», disse Karl, pensando di non dover tacere il suo unico pregio.

«Questo dice già molto a suo favore», replicò la capocuoca. «Se penso alle difficoltà che ho avuto io con l'inglese! Comunque sono già passati trent'anni. Ne ho parlato proprio ieri, perché ieri ho compiuto cinquant'anni». E sorrise, cercando di capire dal viso di Karl che impressione gli faceva la sua ragguardevole età.

«Allora le faccio tanti auguri», disse Karl.

«Si può sempre averne bisogno», disse lei, strinse la mano a Karl e pensando alla vecchia espressione della sua patria, che le era tornata in mente parlando la sua lingua, si fece di nuovo un po' triste.

«Ma io la trattengo qui», esclamò poi, «mentre lei è certo molto stanco, ed è più opportuno parlare di tutte queste cose durante il giorno. La gioia di aver trovato un connazionale mi fa dimenticare tutto. Venga, la condurrò nella sua stanza».

«Vorrei chiederle ancora una cosa, signora», disse Karl guardando il telefono appoggiato sul tavolino. «È possibile che domani, forse molto presto, i miei ex compagni mi portino una fotografia a cui tengo molto. Sarebbe così gentile da telefonare al portiere di mandarli da me o di farmi chiamare?».

«Certo», disse la capocuoca, «ma non basterebbe che prendesse lui la fotografia? E posso chiedere che fotografia è?».

«È la fotografia dei miei genitori», rispose Karl. «No, devo parlare personalmente con loro». La capocuoca non ribatté e trasmise per telefono l'ordine in portineria aggiungendo anche il numero della stanza di Karl, il 536.

Quindi uscirono da una porta di fronte all'ingresso su un piccolo corridoio, dove un ragazzo molto giovane dormiva appoggiato alla ringhiera di un ascensore. «Possiamo fare da noi», disse sottovoce la capocuoca facendo entrare Karl nell'ascensore. «Un orario di lavoro da dieci a dodici ore è un po' eccessivo per un ragazzo così giovane», disse poi mentre salivano. «Ma in America è strano. Anche questo ragazzetto, ad esempio, è arrivato soltanto sei mesi fa con i genitori, è un italiano. Adesso sembra che non sopporti più il lavoro, ha la faccia scavata, dorme durante il servizio, sebbene per natura sia molto volonteroso; ma se lavora ancora sei mesi qui o da qualche altra parte in America sopporterà tutto con facilità, e fra cinque anni sarà un pezzo d'uomo. Potrei citarle per ore esempi simili. Di lei non mi preoccupo affatto, perché è un ragazzo robusto. Ha diciassette anni, non è vero?».

«Il mese prossimo ne compirò sedici», rispose Karl.

«Soltanto sedici!» disse la capocuoca. «Coraggio, allora!».

Sopra condusse Karl in una stanza che, essendo in soffitta, aveva una parete obliqua, ma per il resto aveva un aspetto molto confortevole ed era illuminata da due lampadine. «Non si spaventi per l'arredamento», disse la capocuoca, «in effetti non è una stanza dell'albergo, ma fa parte della mia abitazione che è composta di tre stanze, dimodoché lei non mi disturba affatto. Chiuderò la porta di comunicazione, così potrà stare tranquillo. Naturalmente domani, come dipendente dell'albergo, avrà la sua stanzetta. Se fosse venuto con i suoi compagni, avrei fatto preparare i vostri letti nella stanza comune per la servitù, ma dato che è solo penso che starà meglio qui, anche se deve dormire su un divano. E adesso dorma bene e si riposi prima di prendere servizio. Domani comunque non sarà troppo faticoso».

«Molte grazie per la sua gentilezza».

«Aspetti», disse lei, fermandosi sulla soglia, «altrimenti la sveglieranno troppo presto». E si avvicinò a una porta laterale della stanza, bussò e gridò: «Therese!».

«Sì, signora», rispose la voce della piccola dattilografa.

«Domattina, quando vieni a svegliarmi, devi passare per il corridoio, perché in questa stanza dorme un ospite. È stanco morto». E così dicendo sorrise a Karl. «Hai capito?».


Date: 2015-12-18; view: 574


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