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Dalla padella alla brace 2 page

Alcuni riunirono tutti i lupi in un branco. Altri ammucchiarono felci e sterpi intorno ai tronchi degli alberi. Altri corsero per l'intorno pestando e battendo i piedi, battendo i piedi e pestando, finché quasi tutte le fiamme non furono spente, tranne quelle vicine agli alberi dove stavano i Nani. Quel fuoco invece lo alimentarono con foglie, rami secchi e felci. Presto fecero un cerchio di fuoco e di fiamme tutto intorno ai Nani, un cerchio cui non permisero di allargarsi, ma che fecero restringere a poco a poco, finché il fuoco non lambì il combustibile ammucchiato sotto gli alberi. Bilbo aveva gli occhi pieni di fumo, e sentiva già il calore delle fiamme; attraverso il fumo poteva vedere gli Orchi danzare tutt'intorno in circolo come fa la gente attorno al falò la notte di Ferragosto. Fuori del cerchio dei guerrieri che danzavano con lance e aste, i lupi stavano fermi a rispettabile distanza, osservando e aspettando. Egli poté udire gli Orchi intonare un'orribile canzone:

 

Già quindici uccelli su abeti posati,

dal vento infocato son stati spennati!

Mancavan le ali a quegli uccellini!

Che cosa facciamo di questi cosini?

Mangiarli arrostiti, passati al tegame,

bolliti, conditi o stufati? Che fame!

 

Poi si interruppero e gridarono: «Volate via, uccellini! Volatevene via, se potete! Venite giù uccellini, o vi arrostiremo nei vostri nidi! Cantate, cantate uccellini! Perché non cantate?.»

«Andatevene, ragazzini!» gridò Gandalf in risposta. «Gli uccelli non fanno il nido in questa stagione. E poi i ragazzacci che giocano col fuoco vengono puniti!» Lo disse per farli arrabbiare, e per far vedere che non aveva paura di loro, anche se naturalmente ce l'aveva, per quanto fosse uno stregone. Ma essi lo ignorarono e continuarono a cantare.

 

Incendia felci, incendia piante!

Fanne una torcia ben sfolgorante.

Ya hey!

 

Cuocili e tostali da bravo cuoco

finché le barbe prendano fuoco;

gli occhi son vitrei, la pelle rotta,

la chioma puzza, com'è ridotta!

Il grasso è sciolto, scorre a dovere,

persino l'ossa diventan nere,

dalla padella van nella brace

e nella cenere giacciono in pace!

Così morendo ogni nanetto

dà luce a notte e a noi diletto.

Ya hey!

Ya-harri-hey!

Ya hoy!

 

E con quello Ya hoy! le fiamme raggiunsero l'albero di Gandalf. In un istante si propagarono agli altri alberi. La corteccia prese fuoco, i rami più bassi si spezzarono.

Allora Gandalf si arrampicò in cima all'albero. Un improvviso splendore si sprigionò come un fulmine dal suo magico bastone, mentre egli si preparava a saltar giù dall'alto, proprio in mezzo alle lance degli Orchi. Questa sarebbe stata la fine per lui, anche se probabilmente ne avrebbe uccisi molti schiantandosi al suolo come una saetta. Ma non fece mai quel balzo.

Proprio in quell'attimo il Signore delle Aquile piombò giù dall'alto, lo afferrò coi suoi artigli e sparì.



 

* * *

 

Dagli Orchi si levò un urlo di sorpresa e di rabbia. Forte gridò il Signore delle Aquile, con cui Gandalf aveva appena parlato. I grandi uccelli che erano con lui si precipitarono indietro, e scesero come grosse ombre nere. I lupi ulularono e digrignarono i denti; gli Orchi urlarono e batterono i piedi per la collera, e invano scagliarono in aria le loro lance pesanti. Le aquile si avventarono su di loro; la scura bufera provocata dal battito delle ali li gettò a terra o li scagliò lontano, e i loro artigli li lacerarono in volto. Altri uccelli volarono verso le cime degli alberi per afferrare i Nani, che ora si arrampicavano più in su di quanto non avessero mai osato salire.

Il povero piccolo Bilbo fu quasi lasciato indietro un'altra volta! Fece appena in tempo ad attaccarsi alle gambe di Dori, che fu portato via per ultimo; e insieme si innalzarono sopra il tumulto e l'incendio, Bilbo che ondeggiava in aria con le braccia che quasi gli si spezzavano.

 

 

Molto più in basso, gli Orchi e i lupi si disperdevano in lungo e in largo. Qualche aquila ancora planava e volteggiava sul campo di battaglia. Le fiamme attorno agli alberi si levarono improvvise fin sopra i rami più alti e divamparono in un gigantesco falò. Ci fu un'improvvisa esplosione di fumo e faville: Bilbo era scappato appena in tempo!

Presto la luce dell'incendio sbiadì in lontananza, un bagliore rossastro sul suolo nero, mentre essi, nel cielo, si innalzavano continuamente in cerchi maestosi e possenti. Bilbo non dimenticò mai quel volo, disperatamente aggrappato alle caviglie di Dori. Egli gemeva: «Le mie braccia, le mie braccia!», e Dori si lamentava: «Le mie povere gambe, le mie povere gambe!»

Perfino nei momenti migliori l'altitudine dava le vertigini a Bilbo. Si sentiva sempre come stordito se si sporgeva a guardare sopra l'orlo di un dirupo di proporzioni ridotte; e non gli erano mai piaciute le scale, per non parlare degli alberi (non avendo mai dovuto in precedenza sfuggire ai lupi). Potete così immaginare che vertigini spaventose provasse ora, quando guardò in giù vide le terre scure che si aprivano sotto di lui, chiazzate qua e là dalla luce della luna che batteva sui fianchi rocciosi delle colline o su un ruscello nelle pianure.

Le vette delle montagne si facevano più vicine, punte rocciose illuminate dalla luna, che sporgevano dalle tenebre. Estate o no, pareva che facesse molto freddo. Bilbo chiuse gli occhi e si domandò se avrebbe potuto resistere ancora. Poi immaginò cosa sarebbe accaduto se non ci fosse riuscito. Gli venne la nausea.

Il volo finì appena in tempo, per lui, proprio un istante prima che le braccia gli cedessero. Lasciò le gambe di Dori con un rantolo e cadde sulla piattaforma sassosa di un nido d'aquila. Lì giacque senza parlare, e i suoi pensieri erano un misto di sorpresa, per l'essere stato salvato dal fuoco, e di paura, paura di cadere nelle tenebre profonde che circondavano quel posto angusto. A quel punto si sentì veramente la testa tutta stordita, dopo le tremende avventure degli ultimi giorni, passati senza aver mangiato quasi niente, e si trovò a dire ad alta voce: «Adesso so come si sente un pezzo di pancetta quando viene improvvisamente tirato fuori dalla padella con una forchetta e rimesso in dispensa!.»

«Non sai proprio niente!» udì rispondergli Dori «perché la pancetta sa che presto o tardi tornerà in padella; mentre è sperabile che così non succeda a noi. E poi le aquile non sono forchette!»

«Oh no! non sono per niente ochette - forchette, voglio dire!» farfugliò Bilbo, rizzandosi a sedere e guardando ansiosamente l'aquila che stava posata lì accanto. Si domandò se avesse detto qualche altra sciocchezza, e se l'aquila si fosse offesa. Non è molto saggio offendere un'aquila, quando si ha solo la taglia di un Hobbit e ci si trova di notte nel suo nido!

L'aquila si limitò ad affilare il becco su una pietra e a lisciarsi le penne, ignorandolo.

Poco dopo arrivò volando un'altra aquila. «Il Signore delle Aquile ti prega di portare i tuoi prigionieri al Gran Ripiano!» gridò, e ripartì di nuovo. L'altra prese Dori tra gli artigli e volò via con lui, nella notte, lasciando Bilbo tutto solo. Estenuato com'era, Bilbo non poté fare a meno di domandarsi che cosa il messaggero avesse voluto dire con prigionieri, e cominciava a pensare che sarebbe stato dilaniato a cena come un coniglio, quando fosse venuto il suo turno.

L'aquila ritornò, lo afferrò piantandogli gli artigli sul dorso della giacca, e si alzò in volo. Questa volta volò solo per un breve tratto. Bilbo fu messo giù, tremante di paura, su un largo ripiano di roccia sul fianco della montagna. Nessun modo di arrivarci da sopra, se non volando, nessun modo di andarsene se non saltando in un precipizio. Lì Bilbo trovò tutti gli altri che sedevano con le spalle rivolte alla parete della montagna. C'era anche il Signore delle Aquile e stava parlando con Gandalf.

Tutto sommato si poteva concludere che Bilbo non sarebbe stato mangiato. A quanto pareva, lo stregone e il Signore delle Aquile si conoscevano, per fortuna, ed erano anzi in buoni rapporti. In realtà Gandalf, che si recava spesso sulle montagne, una volta aveva reso un servizio alle aquile sanando una ferita inflitta da una freccia al loro signore. Così, in sostanza, prigionieri significava 'prigionieri salvati dagli Orchi', e non prigionieri delle aquile. Mentre Bilbo ascoltava le parole di Gandalf, si rese conto che finalmente sarebbero sfuggiti per davvero a quelle tremende montagne. Gandalf stava discutendo con la Grande Aquila un piano per trasportare lontano i Nani, lui stesso e Bilbo, e depositare tutti quanti un bel pezzo in là nel loro viaggio attraverso le pianure sottostanti.

Il Signore delle Aquile non voleva portarli in nessun posto vicino a luoghi abitati dagli Uomini. «Ci tirerebbero contro con i loro grandi archi di tasso,» disse «pensando che diamo la caccia alle loro pecore. E, in un'altra occasione, avrebbero ragione. Noi siamo lieti di defraudare gli Orchi del loro divertimento e lieti di sdebitarci con te, ma non rischieremo la nostra vita nelle pianure meridionali per dei Nani.»

«Benissimo» disse Gandalf. «Portateci dove e quanto lontano volete! Vi dobbiamo già molto. Ma nel frattempo siamo sul punto di morire di fame.»

«Io sono quasi morto» disse Bilbo con una vocetta debole che nessuno udì.

«A questo sicuramente si può porre rimedio» disse il Signore delle Aquile.

Più tardi, sul ripiano roccioso avreste potuto vedere un fuoco vivace e attorno a esso le sagome dei Nani intenti a cuocere un buon arrosto, mentre un delizioso odorino si levava nell'aria. Le aquile avevano portato su rami secchi come combustibile e conigli, lepri e una pecorella. I Nani fecero tutti i preparativi. Bilbo era troppo debole per aiutarli, e comunque non era molto bravo a scuoiare conigli o a tagliare la carne, essendo abituato a vedersela consegnare a casa dal macellaio pronta per essere cucinata. Anche Gandalf se ne stava sdraiato dopo aver fatto la sua parte nell'accendere il fuoco, perché Oin e Gloin avevano perso l'acciarino (i Nani non si sono mai serviti di fiammiferi fino a tutt'oggi).

Così finirono le avventure nelle Montagne Nebbiose. Presto Bilbo ebbe lo stomaco pieno e di nuovo a posto, e sentì che avrebbe potuto dormire beatamente, anche se in realtà avrebbe preferito una bella fetta di pane imburrata a tutti quei pezzettini di carne allo spiedo. Raggomitolato sulla dura roccia dormì meglio di quanto non avesse mai fatto nel letto di piume della cameretta rotonda a casa sua. Ma per tutta la notte se la sognò, e nel sonno girò per tutte le varie stanze cercando qualcosa che non riusciva né a ritrovare né a ricordare come fosse.

 


CAPITOLO VII

Una strana dimora

 

L'indomani mattina Bilbo si alzò col primo sole negli occhi. Saltò su per vedere che ora fosse e per andare a metter sul fuoco il latte e il caffè - e scoprì di non essere affatto a casa sua. Così si mise a sedere col desiderio irrealizzabile di lavarsi e spazzolarsi ben bene. Non poté fare né l'una cosa né l'altra, e nemmeno avere caffellatte, panini e marmellata a colazione - solo pecora e coniglio freddo. E dopo di ciò dovette prepararsi a ricominciare tutto da capo.

Questa volta gli fu permesso di salire sul dorso di un'aquila e di tenersi ben stretto tra le ali. Sulla sua testa si formò una violenta corrente d'aria, ed egli chiuse gli occhi. I Nani gridarono addii e promesse di sdebitarsi col Signore delle Aquile se mai ne avessero avuta la possibilità, mentre quindici grandi uccelli si levavano dal fianco della montagna. Il sole si teneva ancora vicino al limite orientale delle cose. Il mattino era freddo, e nelle valli e nelle conche c'era una nebbiolina che qua e là si avvolgeva intorno alle cime e ai pinnacoli delle alture. Bilbo aprì un occhio per dare una sbirciatina e vide che gli uccelli erano già molto in alto e che la terra era molto lontana, e le montagne, già distanti, si ritraevano sempre di più. Chiuse di nuovo gli occhi e si tenne più forte.

«Non darmi pizzicotti!» disse l'aquila. «Non hai bisogno di tremare come un coniglio, anche se gli somigli abbastanza. È una bella mattina con poco vento. Che cosa c'è di più bello che volare?»

Bilbo avrebbe voluto dire: 'Un bagno caldo e poi, più tardi, una bella colazione in giardino', ma ritenne che fosse meglio non dire niente del tutto, e allentare la sua presa appena un pochettino.

Dopo un bel po', le aquile dovevano avere avvistato, perfino da quella grande altezza, il punto verso il quale si dirigevano; infatti cominciarono a scendere volteggiando in una larga spirale. Fecero così a lungo, e alla fine lo Hobbit aprì di nuovo gli occhi. La terra era molto più vicina, e sotto di loro c'erano alberi che sembravano querce e olmi, e larghe distese erbose, e un fiume che vi scorreva in mezzo. Ma proprio al centro del percorso della corrente che vi si avvolgeva attorno emergeva dal suolo una grande roccia, quasi una collina di pietra, come un estremo avamposto delle montagne lontane o un enorme macigno scagliato nella pianura a miglia di distanza da qualche gigante tra i Giganti.

Veloci le aquile si calarono a una a una sulla cima di questa roccia e vi deposero i loro passeggeri.

 

 

«Buon viaggio!» gridarono «dovunque andiate, finché i vostri nidi vi accolgano alla fine dei viaggio!» Questa è la cosa da dire tra aquile beneducate.

«Che il vento sotto le vostre ali vi sostenga fin dove il sole salpa e la luna cammina» replicò Gandalf, che sapeva la risposta giusta.

Così si separarono. E benché il Signore delle Aquile divenisse in seguito il Re di Tutti gli Uccelli e portasse una corona e i quindici collari d'oro che erano l'insegna del suo potere (fatti con l'oro datogli dai Nani), Bilbo non le vide mai più - se non altissime e in lontananza nella battaglia dei Cinque Eserciti. Ma poiché questo succede alla fine della nostra storia, per il momento non ne diremo nulla di più.

C'era una spianata sulla cima della collina di pietra, e un sentiero ben tracciato, con molti gradini, che conducevano in basso fino al fiume, attraverso il quale un guado fatto di grosse pietre piatte portava ai pascoli al di là del corso d'acqua. C'era una piccola grotta (una di quelle salubri, con un pavimento di ghiaia) ai piedi dei gradini e vicino all'estremità del guado sassoso. Qui la compagnia si raggruppò per discutere il da farsi.

«La mia intenzione è sempre stata quella di vedervi tutti sani e salvi, se possibile, al di là delle montagne,» disse lo stregone «e un po' per abilità e un po' per fortuna ce l'ho fatta. E veramente ci troviamo assai più a Est di quanto avessi mai avuto l'intenzione di accompagnarvi, perché in fondo questa non è una mia avventura. Probabilmente, verrò a dare un'occhiata prima che tutto sia finito, ma nel frattempo ho altri affari urgenti da sbrigare.»

I Nani gemettero e apparvero sconfortati, e Bilbo pianse. Avevano cominciato a pensare che Gandalf li avrebbe accompagnati fino alla fine e sarebbe sempre stato lì a tirarli fuori dai guai. «Non è che io stia per sparire proprio in questo momento» disse. «Posso darvi ancora un paio di giorni. Probabilmente posso aiutarvi a tirarvi fuori dalla situazione in cui ora vi trovate, e anch'io ho bisogno di un po' d'aiuto. Non abbiamo né cibo, né bagagli, né pony da montare; e voi non sapete dove siete. Questo almeno ve lo posso dire. Siete alcune miglia più a nord del sentiero che avremmo dovuto seguire, se non avessimo lasciato il valico in fretta e furia. Pochissime persone vivono da queste parti, a meno che non vi siano arrivate dopo l'ultima volta che son venuto qui, il che è stato alcuni anni fa. Ma c'è qualcuno che conosco, che vive poco lontano. Questo Qualcuno fece i gradini nella grande roccia - credo che la chiami la Carroccia. Non ci viene troppo spesso, certamente non di giorno, ed è inutile star qui ad aspettarlo. Anzi, sarebbe molto pericoloso. Dobbiamo andare a trovarlo; e se tutto va bene nel corso del nostro incontro, penso che me ne andrò e vi augurerò, come le aquile, 'buon viaggio dovunque andiate'.»

Lo pregarono di non lasciarli. Gli offrirono oro di drago; argento e gioielli, ma egli non volle mutare la sua decisione. «Vedremo, vedremo!» disse. «E comunque penso di essermi già guadagnato un bel po' del vostro oro di drago, quando ve ne sarete impadroniti!»

 

* * *

 

Dopo di ciò smisero di supplicarlo. Poi si tolsero i vestiti e fecero il bagno nel fiume, che al guado era poco profondo, limpido e sassoso. Quando si furono asciugati al sole, che ora era forte e caldo, si sentirono rinfrancati, pur essendo ancora tristi e un po' affamati. Presto attraversarono il guado (portando in spalla lo Hobbit), e poi cominciarono a marciare attraverso l'alta erba verde giù per le file delle larghe querce e degli alti olmi.

«E perché si chiama Carroccia?» domandò Bilbo che camminava a fianco dello stregone.

«L'ha chiamata Carroccia perché Carroccia è la parola che usa nella sua lingua. Cose come queste le chiama carrocce, e questa è la Carroccia perché è l'unica vicino a casa sua e la conosce bene.»

«Chi la chiama? Chi la conosce?»

«Il Qualcuno di cui vi parlavo, una persona veramente eccezionale. Dovete essere tutti molto educati quando vi presenterò. Vi presenterò gradualmente, a due per volta, penso; e dovete assolutamente stare attenti a non seccarlo o il cielo sa che cosa succederebbe. Può essere spaventoso quando è in collera, sebbene sia molto gentile quando è di buon umore. Però vi avverto che va in collera facilmente.»

I Nani si affollarono tutti intorno a lui quando udirono lo stregone che parlava così con Bilbo. «È questa la persona da cui ci stai portando adesso?» domandarono. «Non potevi trovare qualcuno con un carattere meno difficile? Non faresti meglio a spiegare tutto un po' più chiaramente?» e così via.

«Certo che lo è! No, non potevo! E stavo spiegando molto chiaramente» rispose irosamente lo stregone. «Se volete saperne di più, si chiama Beorn. È molto forte ed è un mutatore di pelle.»

«Cosa? un pellicciaio, un uomo che chiama i conigli lapin, quando non spaccia le loro pelli per pelli di scoiattolo?» domandò Bilbo.

«Santissimo cielo, no, no, no, NO!» disse Gandalf. «Non essere sciocco, signor Baggins, se ti riesce; e per carità non pronunciare di nuovo la parola pellicciaio a meno di cento miglia di distanza dalla sua casa, e neanche tappeto, cappa, stola, manicotto, o altre disgraziate parole dello stesso genere! È un mutatore di pelle. Muta la sua pelle: talvolta è un grosso orso nero, talvolta è un uomo forte dai capelli neri con due grosse braccia e una gran barba. Non posso dirvi di più, ma comunque questo dovrebbe bastare. Alcuni dicono che è un orso discendente dai grandi e antichi orsi delle montagne che vivevano lì prima che arrivassero i Giganti. Altri dicono che è un discendente dei primi Uomini che vivevano in questa parte del mondo, prima che vi arrivassero Smog e gli altri draghi, e prima che gli Orchi arrivassero dal Nord sulle colline. Quale sia la verità non saprei dirlo, anche se personalmente mi pare più verosimile la seconda ipotesi. Non è il tipo di persona cui far domande.»

«A ogni modo, non è soggetto che al suo potere magico. Vive in un querceto e ha una grande casa di legno; e come uomo alleva bestiame e cavalli, meravigliosi quasi quanto lui. Essi lavorano per lui e parlano con lui. Egli non li mangia; né dà la caccia ad animali selvatici né li mangia. Tiene arnie di api grandi e fiere, e per lo più vive di panna e miele. Come orso vaga in lungo e in largo. Una volta l'ho visto stare tutto solo di notte in cima alla Carroccia intento a guardare la luna che calava verso le Montagne Nebbiose, e l'ho udito brontolare nella lingua gutturale degli orsi: 'Verrà il giorno in cui essi periranno e io tornerò!'. Questa è la ragione per cui credo che egli stesso sia originario delle montagne.»

 

* * *

 

Bilbo e i Nani avevano ora più che abbastanza su cui meditare, e non fecero altre domande. Davanti a loro c'era ancora molta strada da percorrere, ed essi avanzarono lentamente su per i pendii e giù per le valli. Faceva sempre più caldo, e talvolta si riposarono sotto gli alberi; allora Bilbo si sentiva una fame tale che avrebbe mangiato le ghiande, se già ce ne fosse stata qualcuna abbastanza matura per cadere al suolo.

Il pomeriggio era per metà trascorso prima che si accorgessero che qua e là cominciavano a vedersi grandi macchie di fiori, in ognuna delle quali crescevano solo fiori dello stesso tipo, come se fossero stati piantati apposta. Erano per lo più garofani, macchie ondeggianti di garofani selvatici e garofani purpurei, e larghe strisce di piccoli garofani bianchi dal profumo di miele. Nell'aria c'era dappertutto un ronzio, un brusio, un fruscio. Le api si affaccendavano per ogni dove. E che api! Bilbo non aveva mai visto niente di simile.

'Se una dovesse pungermi,' pensò 'mi gonfierei il doppio di quello che sono!'

Erano più grosse dei calabroni. I maschi poi erano più grossi del vostro pollice, un bel po' più grossi, e le strisce gialle sui loro corpi nero cupo brillavano come oro fiammante.

«Ci stiamo avvicinando» disse Gandalf. «Siamo al confine dei pascoli per le sue api.»

 

* * *

 

Dopo un po' arrivarono a una fitta cintura di querce alte e molto antiche e, al di là di queste, a un'alta siepe spinosa attraverso la quale non potevano né vedere né passare.

«È meglio che voi aspettiate qui,» disse lo stregone ai Nani «e cominciate a seguirmi quando vi chiamo, o a voce o con un fischio; passerete da dove sono passato io, ma solo a coppie, mi raccomando, a circa cinque minuti di intervallo fra coppia e coppia. Bombur è il più grosso e farà per due, sarà meglio che venga da solo e per ultimo. Andiamo, signor Baggins! Per di qua ci dovrebbe essere un cancello.» E così dicendo si mosse lungo la siepe portando con sé lo spaventato Hobbit.

Arrivarono presto a un cancello di legno, alto e largo, oltre il quale potevano vedere alcuni giardini e un gruppo di basse costruzioni di legno, fatte di tronchi non sgrossati e ricoperte, alcune, da un tetto di paglia: granai, stalle, rimesse, e una casa lunga e bassa, anch'essa di legno. All'interno del lato meridionale della grande siepe c'erano file e file di arnie con il tetto di paglia a forma di campana. Dappertutto risonava il ronzio delle api giganti, che volavano per ogni dove ed entravano e uscivano dalle arnie.

Lo stregone e lo Hobbit spinsero il pesante cancello, che stridette, e scesero per un largo viottolo verso la casa. Alcuni cavalli, dal pelo lucidissimo e ben strigliato, vennero trottando attraverso il prato e li guardarono intensamente con un'espressione molto intelligente, poi partirono al galoppo verso le costruzioni.

«Sono andati a dirgli che sono arrivati degli stranieri» disse Gandalf.

Presto raggiunsero un cortile, tre lati del quale erano formati dalla casa di legno e dalle sue due lunghe ali. Nel mezzo giaceva un grande tronco di quercia, accanto al quale c'erano molti rami tagliati. Lì vicino, ritto in piedi, c'era un omone dalla fitta barba nera, capelli neri, grosse braccia e gambe nude dai muscoli nodosi. Indossava una tunica di lana che gli arrivava alle ginocchia, e si appoggiava a un'ascia enorme. I cavalli stavano vicino a lui con il naso sulle sue spalle.

«Ah! eccoli!» egli disse ai cavalli. «Non hanno un aspetto pericoloso. Potete andarvene!» Fece una risata tonante, mise giù l'ascia e si fece avanti.

«Chi siete e che cosa volete?» domandò rudemente, stando di fronte a loro e torreggiando alto sopra Gandalf. Per quanto riguarda Bilbo, avrebbe potuto trotterellargli facilmente tra le gambe senza neanche dover abbassare la testa per evitare la frangia della sua tunica marrone.

«Io sono Gandalf» disse lo stregone.

«Mai sentito nominare» ringhiò l'uomo. «E questo piccoletto chi è?» disse abbassando gli occhi per guardare in cagnesco lo Hobbit di sotto alle irsute sopracciglia nere.

«Questo è il signor Baggins, uno Hobbit di buona famiglia e dalla reputazione impeccabile» disse Gandalf. Bilbo si inchinò. Non aveva un cappello da togliersi, ed era penosamente conscio dei molti bottoni che gli mancavano. «Io sono uno stregone,» continuò Gandalf «e ho sentito nominare te, se tu non hai mai sentito nominare me; forse però hai sentito nominare il mio buon cugino Radagast, che vive presso i confini meridionali di Bosco Atro...»

«Sì, non è malaccio, per uno stregone, mi pare. Lo vedevo di tanto in tanto» disse Beorn. «Be', adesso so chi siete, o chi dite di essere. Che cosa volete?»

«A dire la verità, abbiamo perso i nostri bagagli e ci siamo quasi persi noi stessi. Direi che ce la siamo vista brutta con gli Orchi sulle montagne.»

«Orchi?» disse l'omone meno rudemente. «Ah! così avete avuto dei guai con loro, eh? Che ci siete andati a fare, così vicino?»

«Non ne avevamo alcuna intenzione. Ci hanno colto di sorpresa nottetempo su un passo che dovevamo attraversare; venivamo dalle Terre Occidentali verso questi paesi... è una lunga storia.»

«Allora faresti meglio a entrare e a raccontarmene un pezzo, se non durerà tutto il giorno» disse l'uomo, facendo strada per una porta scura che dal cortile conduceva dentro casa.

Seguendolo, si trovarono in una grande sala con un camino al centro. Benché fosse estate, c'era un fuoco di legna che ardeva e il fumo saliva verso le travi annerite per poi uscire attraverso un'apertura nel tetto. Oltrepassarono questa sala in penombra, illuminata soltanto dal fuoco e dal buco sopra di esso, e per una porta più piccola arrivarono in una specie di veranda sorretta da pilastri di legno fatti di tronchi singoli. Era esposta a Sud ed era ancora calda, inondata dalla luce del sole che volgeva a Occidente e vi penetrava obliquamente, ricadendo dorata sul giardino pieno di fiori che arrivava fin sotto ai gradini.

Qui si sedettero su panche di legno: Gandalf cominciò la sua storia mentre Bilbo dondolava le gambe penzoloni guardando i fiori nel giardino, domandandosi quali potessero essere i loro nomi, perché la maggior parte di essi gli erano del tutto sconosciuti.

«Stavo per passare le montagne con un paio d'amici...» disse lo stregone.

«Un paio? Io riesco a vederne uno solo, e piccolo per giunta» disse Beorn.

«Be', a dire la verità non volevo disturbarti con molti di noi, finché non avessi saputo se eri occupato. Gli darò una voce, se me lo permetti.»

«Avanti, chiama!»

Gandalf fece un fischio lungo e penetrante, ed ecco che subito Thorin e Dori girarono intorno alla casa, sul sentiero del giardino, e giunti davanti a loro si inchinarono profondamente.

«Un paio o un terzetto volevi dire, eh?» disse Beorn. «Ma questi non sono Hobbit, sono Nani.»

«Thorin Scudodiquercia, al vostro servizio! Dori al vostro servizio!» dissero i due Nani con un altro inchino.

«Non ho bisogno dei vostri servizi, grazie!» disse Beorn. «Ma ho l'impressione che voi abbiate bisogno dei miei. I Nani non mi piacciono troppo; ma se è vero che sei Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror, mi pare, e che il tuo compagno è un Nano perbene, e che siete nemici degli Orchi e che non avete l'intenzione di combinare malanni nelle mie terre... anzi, a proposito che avete intenzione di fare?»


Date: 2015-12-17; view: 914


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